Convergenze possibili nell’apparente desertoUna segnalazione della rivista «Teiko. Soggetti Movimenti Conflitti»_
C’è una grande turbolenza sotto il cielo, scrive il Collettivo redazionale a
geometria variabile della rivista semestrale «Teiko» inaugurando il primo numero
– si comincia dallo zero – con l’ambizione di fornire a chi legge «una bussola
per orientarsi nel caos sistemico del presente». La denominazione è dovuta a un
sostantivo giapponese «uguale sia al maschile che al femminile, se si esclude
l’accento finale» (accento che in una lingua non è mai elemento accessorio), e
traducibile con il vocabolo italiano «Resistenza».
A questo proposito, una breve osservazione: essendo legata alla lingua materna e
al suo ordine simbolico, mi auguro che non si tratti di un escamotage per
inoltrarsi ancora una volta nel territorio del neutro, del quale mi sono
sbarazzata insieme a tante donne con la fatica del lavoro di decostruzione
dell’uniformazione agli uomimi e con l’immensa gioia di un guadagno in libertà
in quanto donna che fa parte dell’umanità e non di una classe sociale o di una
specifica categoria, in quanto soggetto che parla a partire da sé – una pratica
politica che parte dal vissuto, dall’esperienza soggettiva e si inoltra nelle
relazioni molteplici coltivate nel mondo, in tensione desiderante di continua
trasformazione di sé e del rapporto con il mondo nel mondo. Comunque sia, ho
scoperto che esiste la pratica di Teiko Judo, e non mi dispiace associare la
Resistenza Teiko alla Via della cedevolezza Judo.
È sufficiente scorrere l’indice della rivista «Teiko» per coglierne il senso che
il collettivo redazionale vuole dare alla propia ricerca: «mettere in campo
anche nuovi strumenti di mobilitazione politica, evitando di rinchiudersi in
piccole patrie locali isolate, per trovare altre e nuove strade, rimettendo in
circolazione idee e pratiche politiche che provino a catturare il possibile che
c’è oggi e a fargli spazio» e «tracciare nuove coordinate politiche per una
militanza da reinventare» e «connettere, come indica il sottotitolo, soggetti,
movimenti, conflitti». Finalmente si torna a pensare, percepire, immaginare
sentieri da percorrere non dall’alto dell’astrazione ma nelle pratiche e
mediante le pratiche con lo sguardo fisso sui mutamenti concreti che ci
investono e di cui siamo tutte/i parte in gioco!
Una rivista in definitiva di movimento nel fervore dei movimenti che ci sono: la
sezione monografica tratta il tema dell’organizzazione politica approfondendolo
a diverse latitudini, dal contesto italiano (il collettivo ex-GKN) a quello
dell’ America Latina (movimenti femministi) e degli Stati Uniti (il movimento
nero), dalla Palestina di Ilan Pappé alla sommossa sociale del Cile, dalle
mobilitazioni per il clima alle prospettive femministe contro la guerra in
Colombia e al femminismo relazionale della Mensa dei bambini proletari di
Napoli, dalla France insoumise alla difesa di autonomie quali la zapatista e
quella del confederalismo democratico in Rojava, individuando «i limiti e le
potenzialità delle pratiche e delle esperienze».
Molto densa la seconda sezione, Seminari, per le questioni trattate, dalla
proposta di Rompere i blocchi all’elaborazione del Partire da sé: il politico
della cura (con cui non concordo) fino all’interrogativo Crisi del diritto,
ritorno dello Stato, tramonto dell’Europa? Tantissimi scritti dunque, che da un
lato danno conto del variegato fluire di movimenti, lotte e pensieri e del
proposito di trasformare il linguaggio politico e, dall’altro lato, spronano al
confronto e al dibattito, di cui c’è una vera e propria necessità.
In questa concisa segnalazione, data la vastità dei temi trattati nella rivista,
non posso che evidenziare gli spunti di riflessione per me nuovi che ho colto in
particolare nelle due sezioni finali. L’ultima, la quarta, Materiali, contiene
suggerimenti oltremodo notevoli: in apertura un articolo di Davide Gallo Lassere
riferisce in modo puntuale del saggio If We Burns (Se noi bruciamo, dieci anni
di rivolte senza rivoluzione, Einaudi, 2024) del giornalista americano Vincent
Bevis, un resoconto storico dei movimenti in vari paesi del mondo tra 2010 e
2020 scegliendo il Sud del mondo come punto di vista privilegiato; segue
l’interessante recensione di Ludovica Fales del film documentario È a questo
punto che nasce il bisogno di fare storia della regista austriaca Constance
Ruhm, che attribuisce all’archivio femminista una funzione lontana da quella
tradizionale giacché sceglie come punto di partenza il pensiero di Carla Lonzi,
precisamente l’indagine sulle Preziose; Lidia G. Marino dal canto suo offre una
disamina del libro La fabbrica della strategia di Antonio Negri, una serie di
lezioni tenute all’Università di Padova tra il 1972 e il 1973; chiude la sezione
Maria Teresa Annarumma che si sofferma sulla mostra Après la fin. Cartes pour un
autre avenir curata da Manuel Borja-Villel e tenutasi presso il Centro Pompidou
di Metz offrendo come chiavi di lettura la nozione di relazione e arcipelago del
poeta e scrittore originario della Martinica Édouard Glissant e quella di
frontiera e appartenenza della scrittrice chicana Gloria Anzaldua. Si tratta di
materiali che a mio parere invitano all’approfondimento.
Le sottosezioni – Inchieste, Lotte, Dialoghi – della penultima sezione,
Rubriche, consentono di penetrare in un quartiere di Bologna, di conoscere la
storia del percorso di lotta in un’azienda modenese di pizze surgelate, di
prestare attenzione a una conversazione intorno a una proposta politica secondo
una prospettiva ecologica. Si tratta di approcci che hanno il pregio di
accostare senza alcuna supponenza le realtà indagate e di suscitare diversi
interrogativi su possibili vie d’uscita nell’apparente deserto.
Le monde ou rien di Federico Antibo si propone di «de-universalizzare la figura
del “maranza”», provando a mettere a fuoco «sogni e contraddizioni di persone
concrete» e in effetti i frammenti delle interviste, collettive e individuali ai
e alle “regaz” sospesi tra le maglie del razzismo istituzionale che abitano le
corti popolari della Bolognina – un mondo a margine, un territorio ibrido da
leggere come un ecosistema meticcio – non solo svelano la rabbia del loro
insorgere nei confronti delle «gabbie da spezzare», ma altresì lo slancio dei
sogni a cui aspirano, «puntando alle stelle». La vicenda dell’Italpizza e della
lotta condotta soprattutto da donne immigrate che viene restituita nei dettagli
da Edera lascia aperto un interrogativo che colpisce nel segno: si può «creare
iniziativa politica in grado di non cadere nella difesa categoriale-corporativa,
definendo processi aperti che abbiano però capacità di durata, di generare
convergenze, lavorare sulla costruzione simbolica…»? Grazie al dialogo condotto
da Niccolò Cuppini e Sandro Mezzadra con Rodrigo Nunes, professore di teoria
politica presso l’università di Essex e la Pontificia Università Cattolica di
Rio de Janeiro, emerge la proposta politica avanzata nel libro di quest’ultimo
Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (Edizioni
Alegre, 2025). Su sollecitazione dei suoi interlocutori Nunes chiarisce la
dimensione della sua ricerca politica:
«”Né orizzontale né verticale” non vuol dire “prendiamo ciò che c’è di buono da
ciascun lato”, ma capire orizzontalità e verticalità non come modelli astratti
da seguire o parti in una disputa in cui sarebbe necessario prendere una
posizione dogmatica, ma come tendenze delle dinamiche organizzative che dobbiamo
apprendere a utilizzare e gestire secondo le necessità dei processi politici
stessi. Questo pensiero dovrebbe funzionare contemporaneamente su tre livelli
diversi. C’è quello etico, diciamo una dimensione individuale, che dovrebbe
permettere di pensare in termini più flessibili, di adottare un atteggiamento
più collaborativo che competitivo […]. L’altro livello, quello delle
organizzazioni prese individualmente, che vanno pensate in termini più
flessibili, scegliendole non semplicemente perché corrispondono all’identità a
cui si crede di dover corrispondere ma perché hanno senso nel contesto in cui
stanno agendo. La terza dimensione è quella dell’ecologia nel suo insieme, che
ci impone una logica della complementarità, della collaborazione piuttosto che
competizione, della strategia aperta e non-dogmatica, della flessibilità
tattica, della diversificazione funzionale, e anche una doppia fedeltà: ai
nostri singoli progetti ed organizzazioni e, allo stesso tempo, all’insieme
dell’ecologia».
Nunes chiarisce anche il problematico rapporto fra globale e locale a partire
dal cambiamento climatico e individua la necessità di pensare a forme di azione
simultanee su diverse scale, tenendo presente che si agisce sempre a livello
locale e che occorre non dimenticare che il termine “locale” «varia secondo la
scala a cui ci riferiamo come “globale”: la Terra è locale per rapporto al
Sistema Solare, che a sua volta è locale in rapporto alla Via Lattea… ». Non ho
letto il libro di Nunes ma la proposta di «adottare una visione ecologica
dell’ecosistema di organizzazioni esistenti», non trascurando il dato che
ciascuna/o di noi è parte dell’ecologia, sarebbe sicuramente da approfondire e
comprendere anche alla luce delle considerazioni e delle riflessioni della
filosofa della scienza e scienziata (chimica e fisica) belga Isabelle Stengers
citata di sfuggita, dell’approccio empatico all’ambientalismo suggerito ad
esempio dalla filosofa Laura Boella e delle strade non convenzionali per
esprimere il legame con la natura delineate dalla filosofa Chiara Zamboni.
In tempi di nazionalismo che «arruola a suo sostegno la “civiltà” riconducendo a
quest’ultima (per legittimarle e ristabilirle a fronte di potenti movimenti di
rifiuto) le gerarchie sociali, quelle di genere e di razza in particolare», in
tempi di «riorganizzazione dell’economia in funzione della guerra, con effetti
che rimodellano lo sviluppo dei settori trainanti, a partire da quelli delle
tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, nonché delle attività
estrattive che queste richiedono (terre rare, “minerali critici”» e in tempi
quindi di «una transizione dagli esiti incerti» – come scrive Sandro Mezzadra –
ritengo che l’intento di «Teiko» di mettere al centro la costruzione di una
cartografia del presente e darne un’interpretazione politica sia un buon primo
passo per sormontare lo stallo ingombrante che induce a credere di vivere in un
deserto. Ritengo anche che in tempi bui non sia da sottovalutare l’eredità delle
filosofe del Novecento quali per esempio Hannah Arendt, Simone Weil, Maria
Zambrano, che sovvertono le consuete categorie politiche e non tralasciano di
leggere ciascuna in modo originale la condizione umana, letture che dovrebbero
stare a cuore a quante/i desiderano inventare nuove traiettorie e forme
politiche.
Chiudo con un omaggio a Lucia Mastrodomenico (ricordata da Maria Teresa
Annarumma a proposito della Mensa dei bambini proletari di Napoli), perché dopo
questo viaggio in lungo e in largo per il mondo con gli scritti di «Teiko»
desidero trasmettere la mia gratitudine con il calore ravvivato dalle sue
parole:
«Chi ci può aiutare ad avere amore per la realtà cosi com’è, costruendo per essa
vaccini contro il rancore e la violenza? L’amore non si merita, si riceve e si
dà per quelli/e che sono e siamo, solo riconoscendolo dentro di noi si dà lo
spazio della sua azione. Strette, in cose, progetti, lavoro, obblighi veri ed
inventati abbiamo poca sensibilità per le cose essenziali. Credo ci sia la
possibilità di allontanarsi da riferimenti che crediamo sicuri e gestibili, la
realtà non è così ristretta, a guardarla bene è più grande, possono accadere
cose che non ci aspettiamo… » (La teoria non è un ombrello.Dieci anni di
AdATeoriaFemminista 2006-2016, a cura di S. Tarantino, T. Dini, N. Nappo, L.
Cascella, Orthotes, 2017, p. 68).
Redazione Italia