Una lettura da vecchio sindacalista sul movimento pro-Palestina
Sulle manifestazioni pro Palestina riceviamo e pubblichiamo da Savino Pezzotta,
già Segretario generale Cisl nazionale
Di fronte al tentativo di alcuni giornali italiani di sminuire la valenza
sociale dello sciopero pro-Palestina e dell’iniziativa della Flottiglia — mentre
altri, al contrario, ne esaltano eccessivamente il significato — provo a
offrirne una mia interpretazione.
Ho visto e interpretato lo sciopero generale e la navigazione della flottiglia
come un evento che rompe il silenzio e l’indifferenza.
Ora tutti sono obbligati a parlare e a scrivere delle ragioni che hanno
provocato questi atti — che li si condivida o li si critichi —: la condizione
nella quale il governo israeliano ha costretto il popolo palestinese.
Lo sciopero e l’azione della Flottiglia hanno prodotto una nuova
rappresentazione della realtà, costringendo l’opinione pubblica a prendere atto
della tragedia palestinese.
È certamente una buona notizia che Hamas abbia accettato il piano di pace
statunitense.
Cessare i bombardamenti, liberare gli ostaggi , non avere altri morti è una
buona notizia che va oltre le questioni politiche.
Tuttavia, avere a cuore il destino di un popolo martoriato significa anche
riconoscere la sua sofferenza concreta: i morti, i feriti, i mutilati, le case
distrutte, gli sfollati senza rifugio, i servizi sanitari devastati, la mancanza
di pane e di acqua, l’incertezza del domani.
Bisogna però essere onesti: sappiamo per esperienza che le manifestazioni, gli
scioperi e perfino le azioni nonviolente — come quella della Flottiglia — non
possono essere valutati sui risultati immediati, ma sulla loro potenzialità
generativa.
Queste iniziative mostrano che la storia cambia quando parole e gesti prima
ignorati, marginalizzati o normalizzati diventano conoscenza pubblica,
introducendo verità e speranza.
Sono atti politici che nascono al di fuori della politica istituzionalizzata,
delle sue regole e del suo conformismo.
Ci troviamo davanti ad azioni che mutano la narrazione collettiva e
contribuiscono alla formazione di un linguaggio condiviso, capace di incrinare i
racconti normalizzatori e di spingere a interrogarsi, reinterpretare codici e
istituzioni.
Mostrano che la società può reinventarsi dal basso.
Non c’è la produzione di programmi o progetti politici stabili: aprono spazi di
libertà e di desiderio, alimentando una memoria delle possibilità che può
orientare i nostri passi in questi tempi difficili.
Scendere in piazza, manifestare, navigare contro un blocco, scioperare — come
anche pregare insieme, indicando obiettivi e desideri comuni — aiuta a far
crescere una visione simbolica e una consapevolezza collettiva, rompendo il
silenzio e le narrazioni dominanti.
Quelle di questi giorni sono state grandi manifestazioni nonviolente.
I pochi episodi di estremismo violento e irresponsabile non ne inficiano la
sostanza: nel loro concreto svolgersi, queste manifestazioni hanno respinto ogni
ricorso alla violenza.
Non possiamo giudicarle soltanto dai risultati immediati: ciò che conta è la
loro forza generativa, la capacità di far emergere un sentire scomodo ma vivo
nella nostra società, che — nonostante difficoltà e condizionamenti — continua
ad aspirare alla libertà e a credere nella solidarietà.
Sono convinto che la storia e le società non cambino dall’alto con atti di
Governo , né attraverso l’uso strumentale dei mezzi di comunicazione o il potere
pervasivo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, ma quando la
parola nascosta nel seno della società emerge, si manifesta e diventa gesto
pubblico e coscienza responsabile e personale .
Va sottolineato che erano presenti molti giovani e tante persone comuni, forse
alla loro prima esperienza di partecipazione ad una iniziativa indetta da un
sindacato.
Con la loro presenza hanno incrinato la pervasività del linguaggio conformista
di politici, dei media e dei social, scegliendo di parlare con la propria voce.
Non siamo di fronte a un programma politico definito, ma a un moto di
indignazione che si è trasformato in un atto di libertà, nel desiderio di
esprimersi, di essere ascoltati, di affermare con la propria presenza: «Noi ci
siamo».
La mia lunga esperienza di militante e dirigente sindacale mi dice che
probabilmente seguirà un processo di normalizzazione.
Tuttavia, resto convinto che rimarrà un segno profondo: la scoperta che scendere
in piazza, scioperare o navigare per gli altri, per chi non può farlo, e non
solo per se stessi, può aprire spazi nuovi per tutti.
Unico rammarico: l’assenza del mio sindacato, la CISL.
Redazione Italia