Tag - Centro Sociale Leoncavallo

Una marcia che ha attraversato Milano
Riceviamo e pubblichiamo dal Circolo ‘Giancarlo Landonio’ di Busto Arsizio (VA) Lo slogan “Giù le mani dalla città” ha aperto una marcia che ha attraversato ieri Milano da Porta Venezia fino a Piazza del Duomo con la partecipazione di circa 50.000 persone. L’atmosfera è stata al tempo stesso arrabbiata, ma anche gioiosa e anarchica. Un evento di piazza così a Milano non si vedeva da anni. Una mobilitazione che ha riunito una composizione sociale eterogenea, dai teenager ai settantenni, inclusi molti che da tempo non scendevano in piazza. Al centro della protesta lo sgombero del Leoncavallo, il centro sociale simbolo dell’alternativa sociale, dopo 50 anni ancora capace di catalizzare attorno a sé una pluralità di soggetti, dalle realtà della sinistra antagonista ad associazioni, fino a pezzi di partiti. Una manifestazione che chiede un’altra a Milano, un altro sguardo sulla città. Una manifestazione che è arrivata in Piazza Fontana, ma talmente tante erano le persone che hanno preso parte al corteo che la polizia si è spostata, ha arretrato, facendo arrivare il corteo fino in Piazza del Duomo, dove un grande striscione, “Giù le mani dalla città“, è stato issato sulla statua di Vittorio Emanuele mentre nel cielo esplodevano dei fuochi d’artificio. Redazione Italia
La risposta giusta – di Effimera
La giornata di manifestazioni che ha attraversato Milano il 6 settembre 2025, in risposta allo sgombero del centro sociale Leoncavallo, è stata un avvenimento di grande valore che ha spezzato, almeno per un attimo, la narrazione negativa che ci circonda da ogni lato con i suoi corollari di impotenza e di paura. A nostro [...]
6#S Milano, in piazza pro-Leonka: simbolo della riappropriazione comune degli spazi sociali
Da un inserto locale milanese del Corsera riprendo degli spunti di approfondimento sul tema dei centri sociali e la politica. Dal pezzo emergono chiaramente le contraddizioni storiche, gli strappi e le toppe sui buchi, malamente rabberciati. Mi interessa perché in tutta la faccenda proprio lo sgombero di Casa Pound (in sé e per sé adesso non più procrastinabile) non c’entra niente. Eppure è la sola ideuzza su cui si ritrova uno schieramento che è insieme largo, ma ridotto all’osso. L’assenza di riferimento preciso (non c’è un equivalente milanese attuale per casa Pound o una traduzione lineare tra Roma e Milano) rende quel significante (“si sgomberi anche il covo dei fascisti”) una parola d’ordine, una password, un significante padrone… personalmente qui mi pare una scorciatoia, ma per fortuna non vivo da quelle parti.   > «IN CORTEO PER IL LEONKA OPPURE SARÀ ASSIST A SALA?» > > I TORMENTI DEI CENTRI SOCIALI > > IL DIBATTITO DEL MOVIMENTO SULLA MANIFESTAZIONE DEL 6 SETTEMBRE > > ESSERE O NON ESSERE ANTAGONISTI   Dopo lo choc per lo sgombero e la grande chiamata alla piazza per il prossimo 6 settembre con l’ambizione di un corteo nazionale a Milano per «gli spazi sociali», a sinistra della sinistra (intesa quella che appoggia la giunta Sala) tira già aria agitata. La stura al dibattito l’ha data una riflessione di «Off topic», realtà che ruota intorno al centro occupato «Piano terra» di via Confalonieri all’Isola. Più che un appello, un contributo critico per affrontare «questioni politiche fondamentali verso il corteo». Da un lato c’è la voglia, o la necessità, di riportare al centro il tema della partecipazione e la rivendicazione degli spazi sociali occupati, dall’altro il pericolo all’orizzonte di trasformare il corteo in una «resa» alla normalizzazione della lotta sociale mediata dalla «legalizzazione» del nuovo Leonka, percorrendo la via del bando per l’area di via San Dionigi.   Gli «scrupolosi pignoli» Non è questione da poco per il movimento, perché seppure fiaccato da un costante drenaggio di militanza, in gioco c’è la sua stessa esistenza. Alcuni «scrupolosi pignoli» (copyright del giornale autogestito Zic di Bologna) negli ultimi anni già non consideravano il Leoncavallo «un reale soggetto antagonista», ma un centro «che, in qualche modo, si sarebbe “compatibilizzato”» con il «suo vecchio imprinting divorato da una stagione politica finita e che difficilmente si potrà riaprire». Duri e puri o no, nella lunga marcia di preparazione al 6 settembre, il tema esiste. Perché tra i militanti antagonisti c’è il timore di ritrovarsi a sfilare in una piazza «politica» più che ribelle e il rischio concreto di fare da «sponda» alla giunta Sala. Modello che, come ricorda ancora «Off topic», porta con sé anche una sorta di accettazione di altri temi politici, come la commistione tra la giunta Sala e i «palazzinari», come emersa dalla recente inchiesta della procura: «Negli ultimi 15 anni di governo arancio-grigio Pisapia-Sala ci sono stati più sgomberi in città (non solo di centri sociali) che nei 20 precedenti di centrodestra; in secondo luogo, proprio con i voti dell’attuale destra si stava per approvare il Salva-Milano che interveniva a tutela del contesto perfetto per cui oggi il Leo è stato sgomberato». Per questo «o inseriamo lo sgombero nell’attuale fase politica non solo nazionale, ma anche specificatamente milanese, oppure rischiamo di sfilare a sostegno della giunta Sala e delle forze politiche che la compongono e sostengono».   L’eredità No Expo Non è un caso che lo slogan scelto per la manifestazione sia ben più ampio: «Giù le mani dalla città». Tra i centri sociali milanesi le anime sono diverse. L’area anarchica, ad esempio, è da decenni lontana dalla «deriva» moderata del Leonka. Lo stesso vale per altre realtà ben più attive nel sostegno alle lotte sociali. Le posizioni sono complesse e come sempre articolate. Come già era accaduto nel 2015 dopo gli scontri No Expo che hanno lasciato insanabili spaccature nel movimento. Da qui l’idea di chiarirsi prima di scendere in piazza: «Se questo corteo vuole catalizzare una indignazione, anche tardiva, ma esistente, potenzialmente radicale e che non si può negare verso percorsi popolari in grado davvero di riprendersi la città, e non farsi strumentalizzare da interessi altri, estranei alla stessa galassia relazionale che ruotava attorno a via Watteau — scrive ancora Off topic —, allora crediamo sia urgente sciogliere ogni ambiguità».   Il modello Milano In queste giorni, sempre a sinistra della sinistra, s’è fatto largo anche il tema del doppio sgombero: «Quando il governo farà lo stesso con CasaPound a Roma?». Su questo è intervenuto uno dei politici più vicini al movimento, Luciano Muhlbauer: «Vorrei dire sommessamente che le continue richieste di sgombero di CasaPound che inondano i social sono una grandissima ca…ata. Lo so che queste richieste sono frutto della giusta rabbia nei confronti di un governo che protegge gli amici e aggredisce gli oppositori, ma non ci portano da nessuna parte, se non in un vicolo cieco». Il Leonka, benché annacquato, resta un simbolo. Soprattutto per la destra che ha ottenuto finalmente lo «scalpo» dello storico nemico. Ma anche per chi, da sinistra, ragiona su un modello di città e sui suoi spazi sociali che — secondo buona parte del movimento — non possono prescindere dal ricorso all’occupazione o meglio alla «riappropriazione» dei luoghi. Già con l’esperienza della giunta Pisapia (più dentro l’humus della sinistra-sinistra) le cose non andarono bene. Il modello Sala è ben più indigesto. Basterà il ricordo del Leonka che fu (o il suo triste commiato) a ricompattare il movimento?   Redazione Italia
Leoncavallo: iconoclastia selettiva
Quando lo Stato rimuove i luoghi ma dimentica i loro significati Lo sgombero di un centro sociale storico non è mai un mero atto amministrativo. È un evento profondamente politico. Un rituale di potere attraverso il quale lo Stato delimita i confini della legittimità, definisce ciò che è “ordinato” e ciò che è “disordinato”, e rivendica il monopolio non solo della forza, ma anche della produzione dello spazio sociale. L’azione intrapresa a Milano, se analizzata oltre la cronaca, si presta a una decostruzione che svela le aporie di un governo, e di un’epoca, ossessionata dal controllo formale ma miope verso l’ecologia sociale delle città. Per comprenderla, dobbiamo abbandonare il binario semplicistico legale/illegale e interrogarci su cosa significhi, oggi, creare comunità. Il filosofo francese Michel de Certeau, in “L’invenzione del quotidiano”, distingueva tra le strategie dei potenti che organizzano lo spazio dall’alto, con logiche di controllo e astrazione. E le tattiche dei deboli che usano creativamente e spesso “illegalmente” gli interstizi di quello spazio per sopravvivere e resistere. I centri sociali sono storicamente il prodotto di una “tattica” che, ripetuta nel tempo, si è solidificata in un’istituzione informale, un luogo in senso antropologico. Il loro sgombero non è quindi la repressione di un illecito, ma l’annientamento di una memoria collettiva e di un presidio di socialità non mercificata. È l’applicazione brutale di una strategia che non tollera ciò che non può amministrare interamente. Questa iconoclastia selettiva, l’abbattimento simbolico di certi luoghi e la tolleranza di altri, è il cuore della questione. Perché un’occupazione di destra in un palazzo romano, spesso retorica nella sua estetica e sostanzialmente sterile nella produzione culturale, può persistere, mentre un laboratorio di controcultura viene neutralizzato? La risposta non sta nel codice civile, ma in una calcolata fisica del potere. Il pensiero di Giorgio Agamben sul diritto di eccezione è illuminante: il potere sovrano si afferma non applicando la norma in modo uniforme, ma sospendendola strategicamente. La tolleranza verso certe occupazioni diventa così un lasciapassare politico, un modo per alimentare un conflitto di bassa intensità utile a frammentare il dissenso e presentare certe frange come il male minore. È la creazione di un nemico comodo, la cui presenza giustifica un ordine di cose esistente. Al contrario, un centro sociale che opera una critica radicale e propositiva all’economia neoliberale e alla crisi dei legami sociali è un nemico scomodo. La sua stessa esistenza è una confutazione vivente del modello di città-azienda, performativa e consumistica, che si vuole imporre. La vera “stortura” denunciata, quindi, non è l’applicazione della legge in sé, ma la sua applicazione sistemica e asimmetrica. È un sistema che criminalizza la povertà culturale e l’esperimento sociale dal basso, mentre normalizza e legittima, per omissione, altre forme di illegalità più consone al suo immaginario. È un governo che, parafrasando il sociologo Zygmunt Bauman, “intercetta i sintomi” (l’illecito formale) ma è totalmente cieco, o addirittura indifferente, alla “malattia” (la desertificazione relazionale, la crisi abitativa, l’impossibilità per i giovani di incidere sullo spazio pubblico). Il paradosso ultimo è che questi spazi, nati da un atto formalmente illecito, praticano spesso ciò che l’intellettuale americano David Graeber chiamava “l’etica della cura mutualistica”: forniscono servizi, cultura, assistenza e forme di welfare orizzontale laddove lo Stato ritrae la sua presenza, agendo di fatto come un corpo interstiziale che tappa le falle di un contratto sociale in via di sfaldamento. Questa non è un’apologia dell’illegalità, ma la constatazione di un paradosso strutturale: l’azione che viola la norma di proprietà spesso lo fa per incarnare un principio di giustizia sociale più alto e trascurato. È qui che il pensiero della filosofa femminista e giurista statunitense Sara Ahmed sul killjoy (il guastafeste) diventa utile. Questi spazi svolgono una funzione sociale da killjoy: disturbano la narrazione consolatoria e ottimista del potere, che vuole una città ordinata, produttiva e acritica. La loro esistenza stessa è un atto di disobbedienza epistemologica, poiché mettono in luce le ingiustizie che il sistema preferirebbe lasciare nell’ombra. La repressione sistemica di tali realtà, quindi, non è semplicemente una questione di ordine pubblico. È un’operazione di normalizzazione culturale. Si elimina non tanto un illecito, ma un contro-discorso, un modello alternativo di comunità che sfida l’egemonia del mercato e della governance tecnocratica. Il governo, in questo senso, non reprime solo un luogo fisico, ma un’idea. Quella di uno spazio urbano che possa essere autogestito, comune e non sottoposto alla logica del profitto o del controllo centralizzato. La conclusione a cui si è condotti è amara e profondamente culturale. Lo sgombero di un centro sociale storico è il sintomo di una società che, nell’ossessione di applicare la lettera della legge, ne tradisce lo spirito più profondo. Quello di essere strumento di giustizia e benessere collettivo. E che, infine, nel nome dell’ordine, sterilizza gli stessi luoghi in cui la democrazia, conflittuale e vitale, potrebbe rigenerarsi. Simone Millimaggi