Lydie Salvayre / La vita imprigionata nella scrittura
Lydie Salvayre le definisce “pazze” – sette scrittrici che nei loro modi senza
limiti e con tutte le barriere offerte dal mondo, hanno coltivato la propria
scrittura dove spesso il gotico della loro mente prendeva il sopravvento, e dove
le emozioni s’incaricavano di imprigionare i corpi in torri saracene là dove
pochi potevano raggiungerle.
L’arte del ritratto è pericolosa, si rischia l’infezione, e Salvayre vi si getta
senza edulcorare i termini, anzi spesso rasenta gli spazi della scrittura dove
albergano i mostri, e occorre essere lupi per sopravvivere – o capibranco delle
lettere come Eliot e Pound, e come lo è stata, in definitiva, e per alcuni
tratti di esistenza, Virginia Woolf. Una delle donne a cui l’attenzione della
scrittrice francese si rivolge. Anche a lei non basta indagare nelle trame delle
opere. Con logica drammatica riavvolge il film di ciascuna vita, e ben presto ci
accorgiamo che il più delle volte non di pazzia si tratta ma di una famelica
ambizione di vita, di vivacità dei corpi e di scrittura – quella che per
Salvayre coincide in pieno con l’esistenza. Essere pazzi di qualcosa non
significa essere folli, ma rasentare ogni giorno i confini della decisione,
buttarsi a capofitto nella passione. In un ambiente letterario dominato dagli
uomini. Mettere alla prova queste scrittrici, per l’epoca in cui sono vissute
(al netto di quanto si potrebbe ancora dire tutt’oggi a riguardo), su tale
terreno, immerge la loro biografia in qualcosa di equivalente a un terremoto.
Basta, qui, rinominarle per capire come non esistesse distanza di sicurezza fra
creazione e quotidianità: Emily Brontë, Colette, Virginia Woolf, Ingeborg
Bachmann, Djuna Barnes, Sylvia Plath. Salvayre mette sulla pagina uno scandalo
secolare, mai del tutto dissolto. Non è un caso che in epoca di crisi ci si
rivolga ancora a coloro che rappresentano da sempre un “altro tempo”, si metta
alla prova il pensiero attuale con il pensiero diagonale, discorde, controverso,
di sette donne che hanno vissuto dando alla letteratura opere che le hanno fatte
colare a picco per troppa decisione d’esistere. Stando dentro una
contemporaneità spesso riprovevole.
Ogni ritratto non attinge a ipotesi erudite, in ogni capitolo si ritrovano
dettagli biografici e fascinose scoperte. Ma più di tutto interessano i modi
disparati con cui ognuna di queste donne ha potuto dire la sua sulla
letteratura, e come fin da giovani hanno inventato linguaggi che ancora oggi
contrastano il mercato della pubblicità, dei politicanti, tutto quanto viene
definito da Bachmann cattivo linguaggio. Leggere Sette donne significa scoprire
l’impegno che nulla giustifica in ogni tempo – il tempo in cui vissero loro e il
tempo in cui vive, legge e spiega, Salvayre. Tutti questi tempi sono per noi,
che non sia peregrino l’accostarvisi.
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