Tag - intervista

Il Corrierone censura pure Lavrov. Che sorpresa…
Sarà una coincidenza sfortunata, ma proprio mentre l’Unione Europea decide di formare il “ministero della Verità” col compito di impedire qualsiasi pensiero contrastante con quello “unico”, due fatti – non opinioni – dimostrano che il nostro Paese è già molto avanti nell’adottare la “cultura” questo macabro progettino. Non solo qui […] L'articolo Il Corrierone censura pure Lavrov. Che sorpresa… su Contropiano.
Zohran Mamdani oltre le urne: genealogia e prospettive di lotta
Una conversazione di Matteo Polleri con due attiviste del movimento per la casa di New York, per avere un quadro delle lotte in corso e della loro traduzione politica nella battaglia per un nuovo sindaco. Ci troviamo nel quartiere di Crown Heights, Brooklyn, presso Another World, un centro sociale nato dalle pratiche di solidarietà comunitaria sviluppate sull’onda della rivolta per George Floyd Matteo Polleri: Siete entrambi legati a questa esperienza, ma siete anche membri della Crown Heights Tenant Union (CHTU), il sindacato autonomo degli inquilini nato nel 2022. Ben Mabie: Sì, nel 2022 abbiamo organizzato una prima festa di raccolta fondi per la CHTU; io c’ero, Tracy c’era e c’eri anche tu, Matteo! Abbiamo raccolto circa 5.000 dollari per il nuovo sindacato inquilini; era la prima volta che facevamo una cosa del genere. C’era un po’ di scetticismo sull’idea di organizzare una raccolta fondi così, ma è stata un successo. Per quanto riguarda il mio percorso: vengo dal movimento Occupy Wall Street, e in particolare Occupy Oakland e Occupy Santa Cruz. La Bay Area (la zona metropolitana estesa di San Francisco) fu all’epoca il terreno dove il movimento si sviluppava in modo più radicale: tattiche di strada molto avanzate, strategie ambiziose per la riappropriazione degli spazi, connessioni con le lotte dei lavoratori, e la lunga eredità delle battaglie contro la violenza della polizia nel Nord della California. Mi sono poi trasferito sulla East Coast, vivo a New York da circa dieci anni e mi sono trovato a organizzare il movimento per la casa e a fare sindacato. Sono stato iscritto sindacale di base [rank and file] e ho lavorato come staff organizer. Recentemente ho contribuito a organizzare lo sciopero del settore informatico al “New York Times” e sto lavorando con i dipendenti federali impegnati a trasformare le istituzioni dello Stato. Il luogo in cui ci troviamo non è affatto neutro: Another World è nato dall’organizzazione comunitaria seguita alla rivolta antirazzista per George Floyd del 2020. Il movimento rivendicava il definanziamento e, in alcuni casi, l’abolizione della polizia, ma anche la sua sostituzione con nuove forme di auto-organizzazione e cura collettiva. Il Crown Heights Care Collective è intervenuto in quello spazio, trasformando un ex-magazzino in un centro sociale che costruisce reti di distribuzione alimentare, difende gli inquilini insieme alla CHTU e fa formazione politica. Tracy Rosenthal: Anche il mio percorso è segnato dalla circolazione tra la West Coast e la East Coast. Sono una delle fondatrici della Los Angeles Tenant Union (LATU), nata nel 2015 e oggi la più grande unione di inquilini finanziata quasi interamente dalle quote dei membri, con circa quattordici sezioni locali. Da quando sono arrivata a New York sono attiva nel movimento per la casa e con il gruppo Writers Against the War on Gaza. La campagna su cui sto lavorando ora è quella della Union of Pinnacle Tenants, la prima unione inquilini metropolitana e inter-borough di New York. Pinnacle è un vecchio palazzinaro corporativo di New York che concentra proprietà in quartieri neri, latini e di nuovi immigrati, per poi disinvestire e lasciare degradare gli immobili in modo da cacciare i residenti e rivenderli. È stato anche uno dei primi gruppi immobiliari a raccogliere capitali sulla borsa israeliana, aprendo la strada a un modello che finanzia la speculazione e lo spostamento forzato degli abitanti dei quartieri popolari per arricchire investitori stranieri. In questo momento, gli inquilini si stanno organizzando contro queste condizioni di vita disastrose e, poiché la strategia finanziaria di Pinnacle ha ormai smesso di funzionare, anche attorno al processo di pignoramento e bancarotta. Il proprietario aveva ipotecato e sovraindebitato gli edifici per acquistare altri immobili e concentrare proprietà: ciò lo ha reso miliardario, ma ha anche portato molti palazzi al collasso. Matteo Polleri: Nell’ultimo anno, molte delle rivendicazioni del movimento per la casa si sono condensate nella mobilitazione a sostegno della campagna elettorale di Zohran Mamdani, membro dei Democratic Socialists of America(DSA) e primo sindaco socialista, musulmano e millennial di New York. Come si collega la lotta per la casa al movimento di canvassing (volantinaggio e porta a porta) che ha permesso a Zohran di vincere le elezioni? Ben Mabie: La Crown Heights Tenant Union è uno dei primi esempi della nuova ondata di sindacati inquilini autonomi, finanziati in gran parte dalle quote dei membri invece che da fondi esterni. Alcuni di questi sindacati, in altre città, sono cresciuti rapidamente grazie al sostegno filantropico privato, spesso con l’obiettivo di diventare strumenti efficaci per la politica elettorale in centri urbani di media grandezza. La nostra esperienza è molto diversa. L’esigenza di organizzare un movimento per la casa radicato e radicale è emersa quando il movimento Occupy Wall Street rifluiva. Il presidio permanente di Zuccotti Park si trovava nel cuore del distretto finanziario, a dieci minuti dalla borsa, ed era animato da una composizione sociale precaria, in prevalenza giovane, bianca e istruita. Quando lo abbiamo smobilitato, le assemblee del quartiere di Crown Heights, a Brooklyn, hanno rappresentato un esperimento per radicare il movimento nelle zone popolari degli outer boroughs, producendo un incontro tra la generazione di Occupy e le reti di mutuo soccorso di immigrati, certe correnti del movimento radicale nero e residenti di lunga data che erano anche delegati sindacali. La CHTU è esemplare di questi esperimenti di convergenza delle lotte sul piano territoriale. Non volevamo essere soltanto una rete comunitaria, ma combinare l’organizzazione delle comunità con l’attività sindacale anche al livello dei singoli edifici, creando associazioni di inquilini capaci di praticare l’azione diretta e lo sciopero dell’affitto per ottenere riparazioni, riappropriarsi di spazi comuni e contrastare i comportamenti illegali dei proprietari. Ci sono state diverse vittorie – tra cui, proprio qui vicino a dove siamo, su Nostrand Avenue, un edificio in cui gli inquilini hanno ottenuto il trasferimento dei diritti di gestione alla loro associazione per l’autogestione dello stabile. Le battaglie della CHTU hanno reso popolare la richiesta del blocco degli affitti: una rivendicazione centrale del programma di Zohran, del tutto impensabile senza un decennio di organizzazione capillare del movimento per la casa. Per molte e molti di noi, il punto di svolta è stata la pandemia da Covid-19 e il rent strike praticato durante il primo confinamento, a Los Angeles e a Brooklyn. E naturalmente la rivolta per George Floyd nella primavera 2020. L’esperienza del sindacato inquilini qui a New York ha beneficiato della scala e dei successi avuti a Los Angeles: c’è stata una vera e propria circolazione delle pratiche politiche tra le due città, nonché una circolazione di persone che si spostavano avanti e indietro – come nel mio caso e in quello di Tracy. di Marco (Flickr) CIRCOLAZIONE DELLE RESISTENZE E DELLA REPRESSIONE Tracy Rosenthal: Le lotte viaggiano, ma le tattiche di potere fanno lo stesso. Anche i nostri nemici circolano, producendo la congiunzione tra potere immobiliare e potere di polizia in entrambe le città. New York ha esportato la “broken windows policy a Los Angeles, il commissario Bill Bratton si è trasferito lì portando con sé quei metodi. Anche per questo vale la pena ricordare l’esperienza di LA: la Los Angels Tenant Union (LATU) è nata da un precedente ciclo di organizzazione degli abitanti delle case popolari contro la distruzione dell’edilizia pubblica durante l’èra Clinton. A Pico Aliso, difendere le abitazioni significava già costruire forme alternative di sicurezza comunitaria – trasformare vicoli bui e pieni di rifiuti in spazi comuni – perché il discorso ufficiale giustificava la demolizione in nome della “sicurezza”. Queste pratiche sono state portate avanti dall’Unión de Vecinos a Boyle Heights e poi su scala cittadina, con la consapevolezza che difendere l’edilizia pubblica richiedeva un movimento di massa. L’organizzazione degli inquilini ha sempre combinato due dinamiche: sottrarre potere ai proprietari e costruire la nostra capacità di controllo democratico sulle risorse e sul tempo. Diciamo spesso che vogliamo riprendere il controllo dell’affitto e reinvestirlo nelle nostre case invece che nelle tasche dei padroni, che sono spesso fondi finanziari. Durante la rivolta per George Floyd, era chiaro che avremmo avuto bisogno di sviluppare strumenti di coordinamento simili. A Los Angeles, infatti, l’unità tra potere di polizia, potere finanziario e speculazione immobiliare era molto visibile. La LAPD (Los Angeles Police Department) ha introdotto le gang injunctions, che concedevano ampia discrezionalità alla polizia proprio nelle aree prese di mira dalla speculazione immobiliare e dallo sfratto di massa. Le comunità che hanno combattuto per abolire queste misure conoscevano bene quell’alleanza. Poi è arrivata la pandemia, e molti non potevano più pagare l’affitto. La LATU ha allora organizzato il rent strike con lo slogan Food Not Rent, invitando le persone a usare le proprie risorse per nutrirsi invece che per pagare i proprietari. La crisi ha reso tutto chiarissimo: ogni altro motore di profitto si era fermato, eppure gli inquilini erano ancora obbligati a pagare un tributo mensile. Quella chiarezza ha dato energia a moltissime persone, attirandole nel movimento. La domanda dopo la rivolta era la stessa di sempre: come si trasforma un’esplosione di rabbia in un’azione coordinata e duratura? Matteo Polleri: La campagna elettorale di Zorhan si sviluppa dunque in un contesto profondamente marcato dalle lotte per la casa e dai tentativi di organizzazione seguiti alla sollevazione popolare per George Floyd… Ben Mabie: Esattamente, ma è importante sottolineare che non si tratta della prima elezione per il sindaco dopo la sollevazione per George Floyd, ma della seconda. La prima ha portato all’elezione del democratico Eric Adams, ex-poliziotto moderato, ma anche afroamericano cresciuto in un quartiere popolare e picchiato dalla polizia da ragazzo. Adams, nel 2020, riuscì a metabolizzare le diverse risposte che l’establishment Dem diede al movimento, posizionandosi insieme come uomo d’ordine e come critico degli abusi polizieschi, e offrendo così una formula capace di garantire la continuità del governo New York, basato sulla dipendenza dai valori fondiari per finanziare una base fiscale ristretta, la fedeltà alla finanza e al settore immobiliare e una strategia di bilancio per la riproduzione sociale incentrata sull’apparato repressivo – una riproduzione sociale “a basso costo” inaugurata negli anni Settanta e poi esportata altrove. Il tema dominante della sua campagna era la sicurezza: la città è insicura, in declino – la classica immagine di New York che diventa la Gotham City di Batman. Come sempre, il discorso sul crimine ha molte sfumature. Nei quartieri popolari di immigrati suona in modo diverso che nelle aree benestanti frustrate dal nuovo assetto post-pandemico dell’economia dei servizi. Per alcuni lavoratori disoccupati, si è trattato di strategie di sopravvivenza disperate (segnalate dall’aumento dei furti d’auto). E la strategia dominante è stata quella di sincronizzare queste preoccupazioni attraverso il linguaggio della sicurezza. La campagna di Zohran ha fatto l’opposto: ha spostato il dibattito verso il tema dell’accessibilità, del costo degli affitti, del caro vita – in breve, il tema affordability in una città in preda all’inflazione e alla speculazione. Abbiamo così capovolto l’idea stessa di sicurezza, chiedendo: sicurezza per chi, dove, e su quale base? Una delle principali vittorie della campagna è stata lo spostamento delle principali preoccupazioni degli elettori. Se si guardano i sondaggi (non come prova di un’ipotesi, ma come sintomo di un processo), il tema principale prima dell’ascesa di Zohran era la criminalità; dopo, è diventata la questione dell’accessibilità economica. Questo cambio di prospettiva è stato decisivo per costruire una coalizione sociale e un blocco elettorale capace di sbaragliare il vecchio sistema di potere. Matteo Polleri: Oltre a rappresentare il rifiuto di un candidato corrotto e accusato di violenza sessuale come Andrew Cuomo e una dura critica all’establishment democratico, la campagna di Zohran ha quindi tratto la sua forza dal legame con un ecosistema di movimenti, sindacati, collettivi, comitati, centri comunitari, associazioni, riviste e nuove forme di attivismo. Come si è prodotta quest’articolazione e che prospettive dischiude? Ben Mabie: Già nel 2020, l’elezione di Zohran alla State Assembly di New York è stato un effetto diretto della sollevazione popolare di quell’anno. All’epoca la sua campagna si basava su una piattaforma che proponeva il definanziamento della polizia e ha saputo articolare una visione in sintonia con la politica abolizionista di Black Lives Matter. Lui e altri quattro candidati dei DSA vinsero seggi a livello statale nel giugno 2020, quando le ceneri della sommossa erano ancora calde. La campagna elettorale degli ultimi mesi ha avuto un approccio diverso al tema della polizia (che vale la pena discutere criticamente), ma il rapporto con le lotte è simile. Zohran non era direttamente coinvolto nell’organizzazione locale del movimento degli inquilini, ma era un giovane quadro politico dei DSA, un militante attivo nei suoi organi deliberativi, impegnato nel lavoro politico ben prima di essere eletto. Il suo percorso passa per il movimento Occupy e matura nelle campagne elettorali di Bernie Sanders alle primarie democratiche. Va tuttavia notato che i successi dei candidati DSA sono arrivati quando sono riusciti a sintonizzarsi con processi sociali più ampi: con le forme di potere popolare territoriale, l’organizzazione di base e quei grandi movimenti sociali che hanno riaperto l’orizzonte stesso della politica. In breve: non avremmo avuto Zohran alla State Assembly senza la sollevazione del 2020 e non avremmo ora Zohran sindaco di New York senza le lotte per la stabilizzazione dei canoni di affitto dal 2019 in poi e l’organizzazione delle comunità immigrate nei quartieri contro i raid dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) voluti da Trump. Zohran ha saputo articolare un programma e una comunicazione coerente con la politica che queste esperienze di lotta hanno reso senso comune. Non bisogna tuttavia esagerare il livello di coordinamento tra tutte le esperienze di base che hanno contribuito alla vittoria elettorale e nemmeno dare l’idea che esista già una strategia coerente su come l’organizzazione dal basso si relazionerà a ciò che verrà dopo. Finora, il dibattito su come rapportarsi a una possibile amministrazione Zohran si è espresso soprattutto in termini dell’accountability e del support, del vincolo di mandato e del sostegno al sindaco, non come strategia di rottura complessiva. Più in generale, e questo vale non solo per New York ma per tutto il paese, abbiamo visto, soprattutto nel movimento sindacale, una ricomposizione della leadership in una linea che si sposta a sinistra. Ma questo spostamento non si è ancora tradotto in un’attività corrispondente o in una riorganizzazione alla base. ECOLOGIA DELLE LOTTE Tracy Rosenthal: Vorrei tornare sulla questione dell’ecologia delle lotte e delle comunità che sta dietro alla vittoria elettorale di Zohran. Forse un modo per affrontarla è ricordare una scena avvenuta durante il grande comizio finale, poco prima dell’inizio del voto, che si è tenuto a Forest Hills, il quartiere di Zohran, situato nel centro-sud del Queens. Il pubblico che si era radunato con lui non era composto solo dai politici liberali che la sua campagna ha trascinato verso un programma più a sinistra. C’erano molte figure provenienti proprio dall’ecologia di lotte e movimenti che stiamo descrivendo: sindacalisti e organizer del movimento per la casa, alcuni dei quali si sono poi candidati con successo, pur rimanendo radicati nei quartieri, militanti che hanno combattuto contro la speculazione edilizia, condotto scioperi dell’affitto vittoriosi. Sul palco erano presenti anche diversi membri dell’Amazon Labor Union, il sindacato dei lavoratori di Amazon del Queens, e i lavoratori del food delivery in bicicletta. Era una specie di panorama, un affresco delle molte forme di lotta che si sono sviluppate a New York negli ultimi anni, alimentando una campagna che ha attivato nuovi bacini elettorali, come le reti di organizzazione delle comunità asiatiche e latinoamericane di New York, talvolta attraverso organizzazioni formali, in altri casi attraverso infrastrutture come le moschee o le associazioni di quartiere. L’incontro del candidato dei DSA con questi altri elementi dei movimenti sociali è, credo, uno degli aspetti più significativi, insieme alla dimensione di partecipazione di massa che ha caratterizzato questa elezione. Matteo Polleri: Si tratta effettivamente di un evento storico: la vittoria di Zohran e del movimento dei canvassers che lo ha sostenuto dà speranza e slancio alla sinistra e ai movimenti in varie parti del mondo. La vittoria è stata peraltro schiacciante (oltre il 50% dei votanti) anche in molti quartieri popolari storicamente legati alle clientele dell’establishment democratico e alla dinastia politica dei Cuomo. Ma vincere le elezioni non equivale a “prendere” e tantomeno a “esercitare” il potere. Quali sono, ora, le sfide principali dal vostro punto di vista? Ben Mabie: La questione centrale per tutta l’ecologia di movimenti che ha creato le condizioni per l’ascesa di Zohran è: qual è la nostra strategia per avanzare nel nuovo rapporto di forza al livello metropolitano? Se continuiamo a pensare solo in termini di support e accountability, di sostegno al sindaco e di rispetto del mandato, non stiamo ancora affrontando la questione fondamentale: come rimettere in moto le persone attivatesi in questi mesi nel modo giusto. La scala della mobilitazione elettorale è stata notevole, e ci ricorda che ciò che sta accadendo è un vero e proprio movimento. Solo durante le primarie di giugno, circa 150.000 persone hanno fatto volontariato per la campagna di Zohran: siamo intorno all’1% della popolazione adulta di New York. La città ha un’alta densità sindacale, cresciuta rapidamente tra i lavoratori del settore terziario negli ultimi anni, ma qui siamo ben oltre. Quasi tutti quelli che incontravi durante il canvassing, quando si parlava dei propri percorsi, avevano partecipato alla rivolta per George Floyd; per molte e molti, però, questa campagna è stata la prima esperienza di organizzazione politica. > La sfida più urgente è come tradurre quella spinta (e il forte senso di > identificazione con Zohran, come persona e come programma) in spazi di > partecipazione capaci di sviluppare il potere popolare necessario ad > affrontare le sfide del suo mandato. La prima è la sfida dell’irruzione delle > classi popolari nell’apparato di governo metropolitano; la seconda riguarda il > contrattacco del capitale e della destra. Sul primo punto: quelle 150.000 persone non possono entrare tutte nell’ufficio del sindaco. Quell’ufficio, peraltro, non è una persona, ma un nodo in cui si stringono interessi istituzionali molteplici, tra cui la necessità di mantenere in crescita il valore immobiliare come parte della politica fiscale cittadina. Parliamo inoltre di quasi 300 nomine politiche da effettuare solo per la città: non abbiamo un gruppo dirigente o un serbatoio di quadri sufficiente per coprire quei ruoli, il che significa che molti finiranno per essere assegnati a figure burocratiche o a elementi dello status quo presenti nella coalizione. Questi porranno un’ampia serie di ostacoli, senza contare le relazioni gerarchiche e le strutture di comando che dominano il governo locale. Tradurre l’energia che viene dal basso in forza d’urto è dunque cruciale. Come dicevo, tuttavia, il dibattito si è mosso finora tra accountability e support. Ci sono stati appelli a entrare nelle organizzazioni, in particolare nei DSA, ma non è chiaro cosa si chieda concretamente alle persone di fare. Le strategie e gli strumenti oggi più diffusi nella sinistra (volantinaggi e porta a porta, candidature locali per fare pressione sui legislatori, varie forme di lobbying) potrebbero rivelarsi insufficienti di fronte alle sfide che ci attendono. Sul piano della composizione sociale, queste tattiche restano troppo distanti dal terreno della vita quotidiana e non riescono a unificare in un’organizzazione comune i diversi strati della classe lavoratrice che si sono attivati e riconosciuti nella campagna di Zohran. C’è quindi un problema tattico oltre che strategico: dobbiamo prepararci ad approfittare delle opportunità legate alla contrattazione nel settore pubblico, alla riduzione del potere della polizia, all’estensione della possibilità di bloccare o ridurre gli affitti e al contenimento del potere dei proprietari in città. Ci sarebbe molto da dire anche sul tema della polizia e su una possibile “sciopero del capitale” come risposta alla nuova tassazione… Tracy Rosenthal: Parto da un esempio legato al mio impegno nella Union of Pinnacle Tenants, la prima unione inquilini metropolitana e inter-borough di New York. Pinnacle è un palazzinaro che possiede quasi 9.000 appartamenti a New York (150 edifici) e il suo modello di business consiste nell’eludere la regolamentazione degli affitti, trascurandoli volontariamente, per spingere gli inquilini ad andarsene e poter poi applicare gli aumenti massimi consentiti, oppure con molestie e sfratti, o ancora trasformando gli appartamenti a canone regolato in condomini privati. I profitti promessi agli investitori andavano ben oltre ciò che la legge sull’affitto stabilizzato poteva garantire. Quando sono entrate in vigore le leggi del 2019 sugli affitti, alcune delle scappatoie di cui si servivano si sono chiuse. La combinazione tra questo e un portafoglio eccessivamente indebitato li ha portati al fallimento. Hanno smesso di pagare i mutui, la banca ha emesso un avviso di pignoramento per circa 500 milioni di dollari, e metà del portafoglio è finita in bancarotta per vendere edifici e coprire i debiti. È una situazione simile a quella del crollo di Sugar Hill Capital, un altro grande proprietario che aveva concentrato abitazioni a canone regolato a Harlem e Inwood e che è fallito trascinando con sé la Signature Bank. STRATEGIE DI CONTRASTO ALLA SPECULAZIONE EDILIZIA Quando penso alle 15.000 persone che vivono negli appartamenti di questo proprietario in fallimento, mi chiedo: quale ruolo deve giocare la città per affrontare questa crisi? Non riguarda solo questi edifici, sta succedendo in tutta la città. Il modo in cui New York gestisce queste situazioni è frammentario; mancano sia gli strumenti sia l’immaginazione politica. Il dipartimento per l’edilizia è, di fatto, una sorta di banca pubblica: tecnicamente può acquistare e sviluppare alloggi, ma ha la volontà di farlo? Certo che no. Storicamente, l’agenzia si è concentrata nel bloccare la proprietà e rivendere gli immobili a nonprofit landlords che, come sappiamo bene, spesso non sono altro che speculatori con un’immagine migliore. La promessa di un’amministrazione Zohran è di usare in modo diverso, più creativo, il potere delle agenzie municipali. La città potrebbe acquistare gli edifici e trasferirli al NYCHA Trust, che gestisce l’edilizia pubblica? Forse sì. Potrebbe comprare il debito e trasferire la proprietà agli inquilini? Anche questo è possibile. Ma perché la città possa reinventare i propri strumenti e usarli come mai prima d’ora, serve un movimento che imponga il rapporto di forza. L’organizzazione a livello dell’unione degli inquilini di Pinnacle è, per me, il veicolo per costruire quel potere e tradurlo in volontà politica. Ed è proprio questo che manca quando pensiamo soltanto in termini di accountability o support: manca una strategia politica di massa, capace di muovere le istituzioni dello Stato affinché facciano ciò che potrebbero fare, ma che, lasciate a sé stesse, non faranno mai. La lotta degli inquilini di Pinnacle rappresenta un tentativo di andare oltre l’alternativa tra sostegno al sindaco e rispetto del mandato, due tendenze che finiscono per feticizzare il livello esecutivo della leadership invece di pensare alle possibilità più ampie della lotta. Ci sono altri esempi, soprattutto nel movimento sindacale: dei gruppi di lavoratori del settore pubblico hanno iniziato a incontrarsi per mappare dove avviene realmente il processo decisionale. Come sappiamo, le politiche non si definiscono solo nel governo, ma spesso all’interno di forme istituzionali dello Stato isolate, o persino slegate, dal governo stesso. Questi gruppi stanno cercando di capire dove si creano i colli di bottiglia decisionali, dove si prendono le decisioni concrete e come sviluppare nuove forme di lotta collettiva che propugnino non solo i propri interessi, ma anche quelli della classe lavoratrice nel suo insieme, sfruttando quei nodi di potere. di Marco (Flickr) LE MINACCE DI TRUMP Matteo Polleri: C’è anche un’altra sfida, che ci costringe a spostare l’analisi al livello statale e federale. Trump ha già cercato di intervenire nel processo elettorale minacciando Zohran e appoggiando all’ultimo la candidatura di Cuomo. È possibile che ora attacchi direttamente la città… Tracy Rosenthal: Su questo punto, la prospettiva della West Coast può essere di nuovo interessante. Durante l’estate, Los Angeles è stata usata come banco di prova per l’impiego del Department of Homeland Security, della Border Patrol e dell’ICE in retate incredibilmente violente, e di fatto incostituzionali, contro persone immigrate in tutta la città. Il timore concreto è che Trump intervenga boots on the ground anche a New York, e che stia semplicemente aspettando che Zohran entri in carica per sguinzagliare i cani. Nel movimento per la casa di Los Angeles è stato impressionante vedere come le stesse strategie radicate sul territorio, che portano con sé relazioni di fiducia e solidarietà di lungo periodo, siano state attivate per difendere le persone dai raid dell’ICE, per esempio con presìdi davanti ai Home Depot e altri negozi, dove si è svolta circa metà delle retate perché lì lavorano molti immigrati vulnerabili che usano lo spazio pubblico per cercare lavoro. Credo che a New York dovremo riorientare quelle stesse capacità agli stessi fini. Ci sono poi delle domande aperte sul rapporto tra la NYPD (New York Police Department) e l’ICE. A Los Angeles la polizia non ha protetto i residenti dalle operazioni dell’ICE: è qualcosa che potremmo pretendere dal nuovo sindaco di New York. Zohran non l’ha promesso esplicitamente; qui entrano in gioco le contraddizioni dello Stato e l’uso delle sue fratture e contraddizioni interne. C’è spazio, tramite le lotte dal basso, per mettere diversi apparati statali gli uni contro gli altri? Ben Mabie: I dirigenti di diversi sindacati in città, sia di sinistra sia corporativi, si stanno incontrando per discutere cosa fare nell’eventualità, molto probabile, di un’“invasione” da parte delle polizie trumpiste. La CWA (Communication Workers of America), insieme ad altre unions e a organizzazioni per i diritti degli immigrati come Make the Road New York e altri gruppi di base nello Stato e in città hanno lanciato un’iniziativa con formazioni di massa per tutto il mese di novembre in ogni borough, per mettere insieme dirigenti sindacali e comunitari e costituire comitati di quartiere che possano diventare reti di risposta rapida quando ci sarà un salto di qualità nelle retate. Oggi la maggior parte degli arresti a New York avviene nel palazzo federale, ma è possibile che presto raid più ampi colpiscano i quartieri a più alta densità di immigrati. > La strategia è: dare potere ai militanti di base, far convergere persone da > questa ecologia di lotte. Il nodo, ovviamente, sarà: riusciremo a far sì che > queste grandi istituzioni si fidino dei propri aderenti, invece di comportarsi > da generali organizzando solo grandi mobilitazioni simboliche e diano loro il > segnale e gli strumenti per organizzarsi nel proprio quartiere contro le forze > repressive? Quanto a Zohran e a come navigherà in questa situazione, non è semplice fare previsioni. Ha già promesso di non condividere con l’ICE certe informazioni sensibili; ha annunciato una serie di misure legali e tecniche per limitarne l’operatività. Ci si può chiedere quali edifici l’ICE possa a quel punto prendere in locazione, ma, purtroppo, i palazzi federali non mancano in città. Più in generale, negli USA le forze dell’ordine godono di un’ampia autonomia dai meccanismi della governance liberaldemocratica, sono spesso separate da ogni forma di accountability. La strategia di Zohran non è tanto di “metterle in riga”, anche perché gli strumenti per farlo sono pochi, quanto provare a giocare sulle tensioni interne alla NYPD, contrapponendo il livello di base ai vertici. I vertici hanno interesse ad allargare la giurisdizione del NYPD (non solo nel controllo del crimine, ma con forme di onnipresenza sociale: intervento nelle scuole, nonché come ultima ratio nei servizi sociali e psichiatrici, mentre il personale di base della polizia non vuole farsi carico della crisi di salute mentale, della violenza domestica, della situazione dei senza dimora – vuole piuttosto “risolvere crimini”. L’idea è far leva sulle ambizioni giurisdizionali dei vertici contro l’aspirazione dei lavoratori della polizia a un campo più circoscritto. Funzionerà? Difficile a dirsi. Ci sono motivi di preoccupazione, anche perché in alcuni passaggi Zohran sembra essersi allineato con figure della leadership del NYPD impopolari tra la base. E, pur potendo nominare il capo della polizia, molti poteri del NYPD restano di fatto autonomi nel quotidiano, ben schermati da qualunque forma di controllo democratico. IL RICATTO FINANZIARIO Matteo Polleri: Avete insistito sull’eventuale controffensiva poliziesca di Trump. Ma ci sarà anche quella finanziaria. A questo proposito, è interessante che la campagna di Zohran si sia concentrata su questioni riproduttive (casa, trasporti, asili pubblici), dei settori chiave del capitalismo contemporaneo. Che possibilità ci sono di costruire una sorta di autonomia riproduttiva per la città? E che spazi vedete per un immaginario e una strategia municipalista? Ben Mabie: Un attacco finanziario non sarebbe certo inedito nella storia di New York. Il famoso bailout del 1975 rientra in una lunga storia di tagli ai fondi della città. Dato l’attuale equilibrio di potere a livello federale, dobbiamo aspettarci forti carenze di finanziamenti per istituzioni cittadine che dipendono da fondi federali e statali: edilizia pubblica, scuole, trasporti, etc. Una parte cruciale dell’infrastruttura sociale della città vive di quelle risorse esterne. Una sfida di fondo riguarda allora i poteri fiscali effettivi del sindaco. I suoi avversari ricordano spesso che il sindaco non può aumentare le tasse senza un accordo con il governo dello Stato di New York. È vero: dobbiamo essere realistici. Significa che la lotta si sposterà probabilmente sul livello statale, per fare pressione su chi controlla davvero le leve fiscali. E, come si è visto all’ultimo grande comizio prima del voto, la governatrice è stata di fatto contestata e interrotta più volte dal coro “Tax the rich!”, segno che la battaglia sta prendendo forma. La riproduzione sociale di New York dipende molto dai fondi esterni e i poteri fiscali limitati del sindaco sconsigliano una strategia di “socialismo in una sola città”. Ciò detto, si possono aprire spiragli: i tagli federali possono creare un mandato sociale per ampliare il sostegno statale, dando slancio a campagne redistributive e a nuove forme di tassazione. La crisi dell’accessibilità che seguirebbe potrebbe anche aprire a forme di radicalizzazione dello scontro – per esempio, municipalizzando alcune strutture abitative. Ma tutto dipenderà dalla capacità delle nostre organizzazioni e dei nostri movimenti di cogliere l’opportunità di quella crisi, invece di lasciare che si imponga un nuovo senso comune: l’idea che questi siano rischi “fatali” quando si sfida il consenso del capitale nel governo delle grandi metropoli. Tracy Rosenthal: C’è anche da considerare il livello del capitale immobiliare, il motore dell’investimento speculativo e dell’aumento dei valori fondiari che è essenziale per finanziare i programmi sociali della città di New York. È il meccanismo elementare di raccolta fondi metropolitana ed è la trappola in cui siamo finiti. Lo vediamo già con il collasso finanziario di Signature Bank e Pinnacle. Qual è la differenza tra un fallimento e uno “sciopero del capitale”? La differenza è sottile. In un certo senso, mettere fuori gioco i grandi proprietari è una buona pratica per la città: sono corporate slumlords che tengono gli inquilini in condizioni tecnicamente illegali rispetto alle normative. Farli fallire è un bene sociale. Ma questi proprietari stanno costruendo la narrazione secondo cui sarebbero stati “costretti dalle leggi” e non dal loro stesso modello speculativo che rende incompatibile un alloggio dignitoso con i profitti attesi. C’è quindi molto lavoro politico da fare per rendere leggibili sia i fallimenti del capitale sia ciò che appare come uno sciopero del capitale. Altrimenti, queste crisi verranno percepite come fallimenti dell’amministrazione, a meno che non si trovino modi per usare lo Stato in modo da evitare che producano nuove crisi nella vita quotidiana delle persone (oltre a quelle già in corso). di Marco (Flickr) ALZARE IL LIVELLO Alzare il livello del conflitto può essere un modo per affrontare sia l’offensiva federale sia quella del capitale. La proposta di freeze the rent è interessante perché può essere letta come una misura per alleggerire il carico sui lavoratori (“non potete permettervi un altro aumento”); e così spesso la presenta Zohran. Ma è anche un conflitto politico con i proprietari: afferma che abbiamo collettivamente il potere di limitare la rendita e la speculazione. Per noi, significa anche concepire la stabilizzazione degli affitti come una forma di contrattazione collettiva su scala metropolitana, un intervento nel rapporto tra inquilini e proprietari che sposta potere verso gli inquilini. Matteo Polleri: Una delle principali critiche rivolte alla campagna per le primarie di Zohran evidenzia le difficoltà nel guadagnare la fiducia delle comunità nere. I risultati elettorali del 4 novembre mostrano tuttavia una vittoria netta in quartieri a maggioranza nera come Harlem, Bedford-Stuyvesant, Brownsville e South Bronx. L’articolazione di una “molteplicità razziale” in movimento, per usare un’espressione di Michael Hardt, resta però naturalmente una questione aperta… Ben Mabie: C’è moltissimo da dire su questo punto. Come accennavamo, vi è anzitutto il ruolo svolto da Eric Adams, il sindaco uscente, che è riuscito a metabolizzare sia l’onda di mobilitazione per la riforma della polizia sia le paure delle élite rispetto alla proposta di defund the police. Zohran ha dunque ereditato un contesto in cui il definanziamento della polizia era diventato radioattivo sul piano elettorale; su questo punito, la sua campagna ha dovuto quadrare un cerchio difficile. La proposta di un Department of Community Safety (DCS) interloquisce con gli agenti di base sostenendo che non vogliono essere gli operatori di ultima istanza per la salute mentale e la protezione sociale. Allo stesso tempo, riprende una domanda del 2020: garantire condizioni quotidiane di sicurezza (casa, lavoro, alimenti) invece di governarle come materia di ordine pubblico. Il DCS ha senso solo alla luce di quel momento e delle sue rivendicazioni, ma Zohran ha anche chiarito che non taglierà i fondi della polizia. C’è quindi un rapporto complesso con il movimento abolizionista nero: il DCS apre possibilità di articolare politiche abolizioniste, ma ne fissa anche i limiti. Un altro punto: Adams e Cuomo hanno incarnato la macchina di cattura che ha a lungo strutturato i rapporti tra comunità nere e partito democratico, un vero centro di potere per alcune delle sue peggiori tendenze. La campagna di Zohran ha invece tratto energia dalle comunità immigrate delle outer boroughs, molte delle quali non sono catturate da quelle forme di clientelismo. Complessivamente, la campagna per Zohran ha ereditato una disarticolazione di lunga data della classe lavoratrice multirazziale negli USA, che ha prodotto strategie di sopravvivenza differenti. Le classi popolari nere in città come New York hanno subito il peso dell’offensiva neoliberale degli ultimi cinquant’anni, e certe strategie difensive hanno, in alcuni casi, comprensibilmente prevalso. > Ne risulta un paradosso: buona parte della radicalità dei movimenti > statunitensi viene dalle lotte nere contro la polizia, ma alcune istituzioni > di queste comunità sono anche le più integrate negli apparati del Partito > Democratico e hanno spesso funzionato da zavorra. Si tratta di dinamiche anche > generazionali, mediate in particolare attraverso le diverse chiese. Vale però > la pena notare che, già dalle primarie di giugno, Zohran ha vinto il voto dei > giovani neri. PRATICA DELLA TRADUZIONE INTERETNICA Tracy Rosenthal: Radicare la politica abolizionista nella vita dei quartieri è una prassi quotidiana. Spazi come Another World e organizzazioni come la Crown Heights Tenant Union sono i luoghi dove possiamo iniziare a costruire la “molteplicità razziale” di cui abbiamo bisogno. Qui il movimento gioca un ruolo decisivo. A New York, infatti, gli edifici sono spesso molto grandi e, grazie ai canoni stabilizzati, sono in genere multirazziali, mescolati per status migratorio, razza, istruzione e reddito. Una delle cose più importanti che fa il movimento è creare luoghi in cui si impara ad agire insieme attraverso le differenze, a partire da problemi comuni e dalla formazione di nuovi interessi e identità collettive. In questo quartiere abbiamo avuto assemblee con inquilini monolingui ebraici insieme a leader latinX, che si confrontano a loro volta con residenti neri di lunga data, ma anche inquilini giovani, molto istruiti e di diverse origini che decidono di unirsi alla lotta. È un lavoro di sutura non semplice, ma è il più importante: costruire forme di organizzazione trasversali alla composizione sociale e razziale. Ce ne serviranno molte di più nei prossimi anni se vogliamo cogliere le opportunità che abbiamo ora davanti. Accanto a questa politica quotidiana della traduzione, bisogna però anche individuare un nemico comune. Il nostro compito è aiutare gli inquilini a capire che il nemico è il proprietario, il palazzinaro, il fondo finanziario, e non il vicino accanto a loro, che è a sua volta vittima dello stesso sistema, che sia la persona senza casa in metropolitana o il vicino che fatica a pagare l’affitto. Il movimento per la casa ci permette di riformulare quelle tensioni a livello quotidiano, a trasformare il “panico del crimine” in richiesta di sicurezza sociale, l’ostilità orizzontale tra poveri in antagonismo verticale verso i proprietari. Questo è qualcosa che abbiamo costruito nella “guerra di trincea” condominio per condominio, casa popolare per casa popolare. La campagna di Zohran ha mostrato che queste esperienze possono essere articolate anche a un livello più ampio, tramite i media e le elezioni, ma non tutta l’energia scenderà dall’alto. L’organizzazione quotidiana dovrà continuare, e ci serviranno molte più “brigate” che si uniscano alla battaglia. La copertina è di Eden Janine and Jim (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Zohran Mamdani oltre le urne: genealogia e prospettive di lotta proviene da DINAMOpress.
Abolire la guerra, costruire la pace: un convegno sui conflitti contemporanei
La Società Italiana delle Storiche, in collaborazione con diverse istituzioni culturali e universitarie, promuove un convegno dal titolo Abolire la guerra, costruire la pace. Genere, giustizia internazionale, pratiche nonviolente nei conflitti contemporanei, che si svolgerà a Roma il 6 e 7 novembre presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea. L’evento si propone di mettere al centro temi cruciali come la giustizia internazionale, la crisi degli organismi sovranazionali, le sfide della diplomazia e la revisione dell’ordine mondiale ereditato dal Novecento. > I significati, gli usi e le intersezioni delle categorie di pace, guerra, > giustizia e diritti dei popoli saranno posti al centro del convegno che ha una > struttura significativamente multidisciplinare. I conflitti che stanno tragicamente segnando il tempo presente sono infatti affrontati sotto il profilo storico, giuridico, politologico e diplomatico. Questi temi saranno interrogati attraverso la lente della categoria di genere e dei Peace Feminist Studies che illumineranno aspetti diversi e meno presenti nel dibattito pubblico. C’è, infatti, un filo rosso che unisce l’oppressione storicamente esercitata sulle donne alla violenza dei conflitti bellici: a tenerle insieme è la struttura più intima del sistema di dominio storicamente edificato da un chiaro modello di potere maschile, oggi fortemente in auge con una sua specifica e aggiornata declinazione. STRUTTURA DEL CONVEGNO Come Spiega Vinzia Fiorino, presidente della SIS, il convengo, articolato in tre panel, inaugurerà i lavori con un focus sui temi della giustizia internazionale (e della sua crisi) e sulle diverse concezioni di giustizia, per poi concentrarsi sulla categoria di umanitarismo e sulla storia del femminismo pacifista, quindi sulle pratiche di resistenza nonviolenta e sulle attività diplomatiche. Irriso dai potenti leader internazionali, ormai comunemente chiamati autocrati, il diritto internazionale attraversa una crisi senza precedenti restando del tutto impotente e inefficace nel contenimento dei conflitti e persino verso ciò che è indicato come doppio standard, ossia, spiega Fiorino, «comportamenti opposti, assolutori o di condanna, a seconda dello stato responsabile di atti violenti e di aggressione». Le decisioni della Corte internazionale di giustizia, come quelle della Corte penale internazionale restano del tutto inevase, private di una domanda politica che ne consentirebbe la giusta applicazione. Accanto alla formulazione classica di giustizia, sono emerse importanti richieste di verità e si è affermata un’idea di giustizia riparativa per la quale l’apporto dei gruppi più o meno organizzati di donne è stato storicamente determinante. La restorative justice, pur non sostituendosi a quella tradizionale, propone un superamento del paradigma punitivo, va oltre la pena da infliggere, volge lo sguardo (anche) verso l’altro alla ricerca di modalità di intervento differenti; promuove un dialogo con i responsabili impegnandosi nel coinvolgimento dell’intera comunità in un rito collettivo di superamento del trauma. In un contesto dominato dalla perdita di senso di categorie un tempo più nitide quali pace, conflitti armati, guerra di aggressione, per chi ha organizzato l’evento «sarà anche importante interrogarsi su come sia cambiata nel tempo l’organizzazione degli aiuti e dei soccorsi alle popolazioni colpite dalle guerre”. Dunque, per quanto sfuggente e dai contorni non ben definiti, “l’umanitarismo internazionale, che ha conosciuto momenti importanti di consolidamento e di intervento operativo all’indomani del secondo conflitto mondiale, costituirà un giusto punto di osservazione per cogliere importanti cambiamenti nella sensibilità collettiva, nelle relazioni internazionali e nelle pratiche sociali rese operative da diversi organismi sovranazionali». FEMMINISMO E PACIFISMO La storia dei movimenti femministi internazionali si intreccia intimamente con quelli pacifisti: «riannodare i fili della memoria, per tornare agli interventi di taglio più storiografico, sarà importante anche per dare ai movimenti di oggi uno spessore che non hanno ancora ricevuto. La rivendicazione di un diverso equilibrio mondiale, il ripudio della violenza nelle relazioni private, sociali e politiche hanno strutturato gli stessi movimenti. Sarà importante approfondire il pensiero di importanti teoriche, come l’intellettuale antinterventista inglese Vernon Lee vissuta tra Otto e Novecento – così come confrontarsi con quello che risuona come un originale contributo alla riflessione teorica offerto dai diversi movimenti: l’aver legato in modo inscindibile i temi della politica internazionale e le ragioni del pacifismo con quelli del pieno riconoscimento dei diritti soggettivi delle donne». > Proseguendo su questa linea, le storiche e numerose esperienze di > interposizione nonviolenta e di resistenza alle sistematiche occupazioni > saranno al centro di specifici approfondimenti. Sotto questo profilo, il caso palestinese è quanto mai paradigmatico: «precisando, in primo luogo, che tutto non è iniziato con il deprecabile e orrendo attacco del 7 ottobre nei confronti dei civili israeliani e che questa semplificazione di una parte del giornalismo italiano appare scorretta e subdola, si darà spazio alla storia dei movimenti femministi che almeno dalla fine degli anni Settanta si oppongono a quello che è il nodo vero di tutto il conflitto cioè l’occupazione israeliana dei territori. Attraversati ovviamente da importanti mutamenti nel tempo, i movimenti femministi palestinesi per un verso hanno agito intersecando il contrasto alle occupazioni territoriali con la lotta a una cultura tradizionalista e patriarcale, per un altro hanno promosso originali pratiche di resistenza nonviolenta, di mutualismo sociale, di mantenimento della vita. A dispetto di una prevalente rappresentazione mediatica, molte e di rilievo sono state e sono le figure femminili protagoniste nel vivace e raffinato mondo intellettuale palestinese, pienamente consapevoli altresì dei processi di soggettivazione e di liberazione». Le esperienze storiche che hanno fortemente interconnesso il femminismo con il pacifismo suggeriscono di respingere radicalmente le logiche dei conflitti armati e dunque l’accettazione della guerra, oggi a tutti gli effetti divenuta e percepita come una comune condizione di normalità. Questo seminario, al contrario, «vuole ribadire l’inaccettabilità delle pratiche di sterminio per fame come mezzo di guerra divenuto legittimo; così come ripudia l’antica logica per cui i mezzi sono giustificati dai fini allorché i mezzi sono rappresentati dall’uccisione di civili e il fine dall’imposizione di una supremazia occidentale e dalla difesa dei suoi presunti e cosiddetti valori; ancora più inaccettabile risulta la logica per cui i massacri perpetrati contro gruppi di religione musulmana sarebbero giustificati da un fine nobilissimo, quale la liberazione delle donne; le quali al contrario – come è ben noto – sanno come fare per liberarsi autonomamente». Da sempre la Società italiana delle Storiche ha inteso la ricerca storica come attività scientifica e di promozione della didattica, ma anche come impegno civile e presenza attiva nel tessuto sociale. In passato in prima fila nel sostegno ai diritti civili, politici e sociali di tutti e segnatamente di quelli delle donne, la SIS conferma ora il suo impegno nel sostenere le ragioni del superamento dei conflitti armati, delle logiche di sopraffazione, in favore del dialogo e della costruzione di processi di pacificazione. > Sotto questo profilo, la riflessione proposta, evidenzia chiaramente Fiorino, > «vuole rimettere in discussione la logica manichea basata sulla coppia > amico/nemico, condannare qualsiasi forma di discriminazione e di stereotipo > culturale, respingere l’idea di sicurezza posta, su scala planetaria, in > termini di mero riarmo e militarizzazione. Ma soprattutto sarà importante avviare la discussione almeno su due punti chiave: in primo luogo, il rifiuto della semplicistica logica amico/nemico porta con sé, per usare le parole di Carla Lonzi, spostarsi su un altro piano, quindi cogliere le ragioni ultime della riattualizzazione delle guerre per combatterle dalla radice; rifiutare la sollecitazione di stare in favore di uno schieramento o di un altro ma respingere in toto la logica bellicista e gli interessi economici che spingono alla guerra prima e alla ricostruzione degli spazi distrutti poi. In secondo luogo, contrastare l’idea secondo cui la riproposizione delle ragioni dei processi di pacificazione e il rifiuto delle logiche di guerra siano necessariamente da derubricare come buone aspirazioni ma, ahinoi, del tutto irrealistiche; non si tratta di fare esercizio di buoni sentimenti, ma di sperimentare e sostenere che le alternative alla guerra e alla distruzione ci sono e sono possibili; che opporsi alla guerra non significa negare la conflittualità sociale ma elaborare sistemi nonviolenti per affrontarla; che l’opzione per la pace è prioritaria e alla portata di qualsiasi scelta politica lungimirante». La copertina è di Alioscia Castronovo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Abolire la guerra, costruire la pace: un convegno sui conflitti contemporanei proviene da DINAMOpress.
Manal Tamimi: «Finché ci sarà l’occupazione, non ci sarà la pace»
Nabi Saleh è un villaggio di circa seicento abitanti nel cuore della Cisgiordania, occupata da Israele dal 1967. Le sue case sorgono su una collina circondata da uliveti, ma le risorse naturali sono da tempo sotto minaccia: nel 2009 i coloni del vicino insediamento israeliano si impossessarono di una delle principali sorgenti d’acqua, dopo che già due terzi delle terre erano stati confiscati. In risposta, il 9 dicembre di quell’anno gli abitanti organizzarono la prima di una serie di manifestazioni settimanali che da allora, ogni venerdì, continuano a svolgersi nonostante la repressione. Sin dall’inizio le donne hanno avuto un ruolo centrale, partecipando alle decisioni e all’organizzazione delle azioni dentro e fuori il villaggio. Figura di riferimento di questo percorso è Manal Tamimi, attivista e membro del Popular Struggle Coordination Committee (PSCC). La repressione ha inciso profondamente anche sulla sua vita: è stata arrestata quattro volte e più volte ferita; due dei suoi figli, Osama e Mohammed, hanno trascorso lunghi periodi in prigione, dove hanno subito torture fisiche e psicologiche. Dal suo intreccio di biografia e lotta collettiva prende forma un racconto che, a partire dalla stagione della raccolta delle olive – rito antico che oggi si compie all’ombra della violenza e delle confische – si allarga alla memoria, al ruolo delle donne e alla sua esperienza di madre e attivista sotto occupazione. Il testo che segue raccoglie le sue parole dirette, tratte da una lunga conversazione avvenuta a distanza: da qui in avanti è la voce di Manal a parlare. CUSTODIRE LA TERRA Quest’anno la raccolta delle olive è tra le più dure e violente che ricordiamo. Eppure non sarebbe nemmeno un vero anno di produzione: in Palestina gli ulivi seguono un ciclo biennale, un anno ricco e quello successivo quasi sterile. Abbiamo deciso comunque di portare avanti la campagna, perché non è solo un raccolto: è un atto di resistenza. Questa è terra palestinese, e i suoi proprietari hanno il diritto di coltivarla e custodirla. I coloni non hanno alcun titolo per occuparla. > Dopo il 7 ottobre è cresciuta la pressione di una pratica nota come > sheepwashing: coloni-pastori che, portando greggi di pecore, capre o mucche, > occupano vaste aree di terreno. Così intere porzioni, anche di dieci > chilometri quadrati, vengono trasformate in pascoli esclusivi, impedendo ai > legittimi proprietari palestinesi di accedere ai loro campi. In questa cornice di violenza si inseriscono anche le campagne di solidarietà. La più ampia è Zaytoun25, una piattaforma che unisce istituzioni palestinesi –come la Commissione per la Resistenza alla Colonizzazione e alla Guerra, dove lavoro, il Ministero dell’Agricoltura e altri enti – con organizzazioni di base come, ad esempio, la rete dei i comitati popolari e l’ISM, l’International Solidarity Movement. Esistono anche iniziative indipendenti: Faz3a, alla quale partecipo come volontaria. Nelle colline a sud di Hebron opera inoltre l’organizzazione italiana Operazione colomba. Quando c’è un’attività sotto l’ombrello di Zaytoun 25 partecipiamo tutti insieme; negli altri giorni ciascuno segue la propria campagna. Così riusciamo a coprire il maggior numero possibile di villaggi e campi, soprattutto quelli più esposti agli attacchi dei coloni. TESTIMONIANZE E RESISTENZE Nel nostro villaggio abbiamo scelto la resistenza nonviolenta dal 2009, ma la partecipazione alla lotta palestinese è cominciata molto prima. Già nel 1976, quando gli israeliani si impossessarono di un’ex-stazione di polizia britannica trasformandola in parte dell’insediamento oggi chiamato Halamish, ebbero inizio le confische. Da allora circa due terzi delle terre del villaggio sono stati espropriati con vari pretesti. Dal 1976 a oggi abbiamo perso 29 persone del villaggio. Sono questi i ricordi peggiori: l’assassinio dei miei cugini, Rushdi Tamimi e Mustafa Tamimi. E poi “i due Mohammed”: uno aveva quindici anni, l’altro era solo un bambino di due anni. Tutto questo è avvenuto davanti ai nostri occhi. Nabi Saleh è piccolissimo, e in fondo siamo tutti parte di un’unica famiglia: quando succede qualcosa, l’intero villaggio è presente, tutti assistono, tutti sono testimoni. Tra i miei ricordi peggiori, ci sono le innumerevoli incursioni notturne, o il giorno in cui i soldati picchiarono mia madre, che al tempo aveva 67 anni. Fu un ragazzo armato di appena vent’anni a colpirla. Questi ricordi sono dolorosissimi, ma al tempo stesso sono diventati una spinta per non arrenderci. FERITE E LEGAMI: ESSERE ATTIVISTA, ESSERE MADRE Ho tre figli maschi e una figlia. Essere al tempo stesso madre e attivista è forse la sfida più dura. Da bambina vedevo i miei familiari resistere: alcuni sono stati uccisi, altri hanno trascorso anni in prigione, altri ancora sono stati costretti all’esilio. In quell’atmosfera l’attivismo non era una scelta, ma un destino quasi inevitabile. Anch’io iniziai presto: ospitavamo i combattenti, aiutavamo chi era in fuga. Durante la Prima Intifada arrivai persino ad attraversare la frontiera con la Giordania per incontrare i leader in esilio e riportare informazioni in Palestina. Quella era la mia vita, e mi sembrava naturale, perché la responsabilità ricadeva solo su di me. Con i figli è iniziato il vero conflitto interiore: proteggerli dal cammino che avevo scelto o crescerli dentro quella stessa lotta? Alla fine capisci che l’occupazione non colpisce solo chi resiste apertamente, ma ogni Palestinese. Così abbiamo cominciato a insegnare loro, sin da piccoli, che la Palestina ha bisogno di sacrificio. Puoi prepararti al peggio, ma quando quel momento si presenta, tutto crolla. Sono stata arrestata tre volte, ferita due, minacciata di morte. Una volta mi dissero che mi avrebbero uccisa e, dieci minuti dopo, un cecchino sparò contro di me: sarei potuta morire quel giorno. Ma nulla si avvicina al dolore di vedere i propri figli arrestati e sapere che sono in prigione. Quando mio figlio Osama fu catturato, l’avvocata mi informò che era stato portato in ospedale in seguito alle torture subite. Una settimana dopo ricevetti un’altra chiamata: ancora in ospedale, ancora per torture. Mio figlio Mohammed, invece, subì abusi psicologici così gravi da perdere la memoria: non riconosceva più né me né sua nonna. In quei momenti mi sentivo una madre terribile. Mi chiedevo perché avessi messo al mondo dei figli destinati alla sofferenza. Perché li avessi educati alla resistenza. Non sarebbe stato meglio tenerli lontani da tutto questo? Ogni giorno dormivo nei loro letti, cercando di riempire quei vuoti con un po’ del mio amore. Durante il Ramadan apparecchiavo due piatti vuoti con due sedie, cucinavo i loro piatti preferiti come se fossero lì, poi sparecchiavo e ordinavo. Lavavo persino i loro vestiti, pur sapendo che non li avrebbero indossati. Questi episodi risalgono al 2017, eppure ogni volta che ne parlo rivivo lo stesso dolore. DONNE DI PALESTINA: TRA L’INTIFADA E NABI SALEH La Prima Intifada fu una sollevazione popolare che coinvolse l’intera società palestinese: tutte le forze politiche e la popolazione vi presero parte, e le donne emersero come protagoniste, assumendo ruoli di guida sia nella comunità sia sul campo. Molte furono imprigionate o uccise; contribuirono in ogni modo: azioni dirette, primo soccorso, interventi per impedire arresti. In un attimo decine di donne si mobilitavano per affrontare i soldati, aiutare gli uomini a scappare; erano pronte a sacrificarsi pur di non lasciare che i soldati arrestassero qualcuno. Dopo gli accordi di Oslo, iniziò un processo di frammentazione che mirava a indebolire la resistenza. In Palestina sorsero numerose ONG, sostenute da fondi internazionali spesso condizionati. Molte donne che avevano avuto un ruolo attivo nella Prima Intifada vi confluirono, perdendo progressivamente la centralità politica conquistata nella lotta. Con la Seconda Intifada, segnata da una dimensione prevalentemente militare, lo spazio per le donne si ridusse ulteriormente: poche potevano imbracciare le armi e molte leader, ormai legate al sistema dei finanziamenti esterni, temevano di perderli partecipando alla resistenza. Così persero anche parte dell’influenza acquisita. Fu solo nel 2005, con la nascita del movimento di resistenza nonviolenta, che le donne ritrovarono la possibilità di partecipare attivamente, recuperando un ruolo significativo all’interno della lotta. A Nabi Saleh il ruolo delle donne è sempre stato centrale ed è proprio per questo che siamo state prese di mira. Qualche tempo fa, sul Channel 14 – un’emittente israeliana dei coloni – si è affermato che le donne di Nabi Saleh dovrebbero essere eliminate con la violenza, perché rappresentano un modello per le altre. La loro partecipazione, infatti, quando cresce, diventa sempre più difficile da controllare. Così hanno cominciato a colpirci: circa quindici donne sono state arrestate, molte decine ferite, e una è stata resa invalida per le gravi lesioni subite. UN PROCESSO SENZA PACE Finché c’è occupazione, finché esistono oppressore e oppresso, non c’è pace. Finché migliaia di palestinesi sono in carcere, soggetti a pulizia etnica quotidiana, finché esistono rifugiati palestinesi all’estero cui è negato il ritorno in Palestina non c’è pace. È lo stesso discorso per Gaza: si può parlare di cessate il fuoco o di “ritorno alla normalità”, ma se poi continua il genocidio e nulla cambia davvero, allora di che pace stiamo parlando? Dall’Accordo di Oslo in poi l’oppressione non si è mai interrotta: violenza, pulizia etnica, soprusi. Nulla è davvero cambiato. Le autorità palestinesi hanno assunto parte della gestione, ma restano spesso paralizzate, schiacciate da un lato dall’occupazione e dall’altro dalla dipendenza da finanziamenti occidentali vincolati. Anche nelle scuole ci sono limitazioni: non possiamo mettere il nome “Palestina” sui libri di testo, non possiamo parlare di Arafat, non possiamo parlare di resistenza, di insediamenti, delle aree A, B e C. Perfino le cose più elementari sono vietate. > E restano le contraddizioni: si parla ancora della soluzione dei due Stati, > mentre i palestinesi controllano ormai meno del 4% della Palestina storica. > Come si può costruire uno Stato su quella porzione? Non è neppure un > territorio unico: è frammentato da strade dei coloni, insediamenti, cancelli > ai varchi dei villaggi. Non possiamo avere un aeroporto, un porto; non possiamo andare a Gaza, né avvicinarci alla moschea di Al-Aqsa; non possiamo visitare i territori del 1948 e il mare, che dista venti minuti da casa nostra. Quale pace, quale “due Stati”, vengono evocati nei discorsi ufficiali all’ONU o nei parlamenti? Devono smettere di parlare di processi di pace fintanto che non ci sia un cambiamento reale sul territorio: fermare il genocidio, fermare la pulizia etnica, fermare la violenza dei coloni, rimuovere gli insediamenti in Cisgiordania, garantire la libertà di movimento e un’autonomia reale. Altrimenti ogni discorso di “riconciliazione” è vago e privo di senso. Assistiamo a cessate il fuoco su Gaza sottoscritti da molte parti, perfino dagli Stati Uniti, che si presentano come garanti con l’autorità di fermare il genocidio. Eppure Israele continua a violarli quotidianamente; ogni giorno vediamo Palestinesi uccisi a Gaza e in Cisgiordania. Le aggressioni dei coloni e gli insediamenti sono illegali secondo il diritto internazionale, ma quando figure come Ben-Gvir dichiarano che il diritto internazionale non si applica a Israele – che vale solo il “loro diritto” – tutto il quadro internazionale viene smentito. In questo scenario non vediamo nessuno che abbia il coraggio di applicare il diritto internazionale, né di liberare prigionieri come Marwan Barghouti, leader palestinese considerato tale da milioni di persone. Di quale pace stiamo parlando, allora? CON LA PALESTINA, OLTRE LA PALESTINA La solidarietà internazionale ci dà speranza. Ci dà forza, ci fa sentire che non siamo soli, ma parte di una comunità umana più grande. Quando vediamo milioni di persone in strada che gridano per la Palestina, che chiedono i nostri diritti, capiamo che non siamo abbandonati. Penso, ad esempio, alla Flotilla: centinaia di attivisti hanno messo a rischio la loro vita. Hanno accettato quel rischio per la Palestina, così come noi lo affrontiamo ogni giorno. A volte ci sentiamo persino noi in dovere di sostenere gli attivisti internazionali, non solo il contrario. Tuttavia, resta una contraddizione enorme. Non basta scendere in piazza con cartelli e bandiere se poi, alle elezioni, si scelgono governi di destra, filo-israeliani, o addirittura fascisti. È un paradosso: come puoi manifestare per la libertà di un popolo e poi dare il voto a chi sostiene la sua oppressione? Io spero che un giorno queste moltitudini, che oggi gridano per la Palestina, trasformino quella energia in cambiamento politico, eleggendo leader che non siano solo pro-Palestina, ma pro-umanità. La copertina è di Manal Tamimi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Manal Tamimi: «Finché ci sarà l’occupazione, non ci sarà la pace» proviene da DINAMOpress.
Se perfino Il Sole 24 Ore…
Quando perfino Il Sole 24 Ore – giornale di Confindustria e ossatura ideologica del capitalismo produttivo italiano – entra in conflitto con il potere politico, significa che la macchina dell’egemonia si è incrinata. Quel quotidiano non è soltanto un prodotto editoriale: è il luogo simbolico in cui la borghesia nazionale […] L'articolo Se perfino Il Sole 24 Ore… su Contropiano.
Sumud: vivere e raccontare la Palestina
Nella luce obliqua del mattino, il villaggio di Al-Ma’sara appare silenzioso, con ulivi e terrazze che digradano verso la valle. È uno dei tanti luoghi in Palestina dove la vita contadina si intreccia con una storia di occupazione e resistenza nonviolenta. È qui che Mohamad Zwahra ha mosso i primi passi, non ancora da giornalista ma come figlio della terra, con le mani immerse nel suolo e le veglie collettive per difenderlo. «Sono cresciuto in una famiglia di agricoltori. Mio nonno era contadino e pastore, e fin dall’età di sei anni ho imparato da lui cosa significa stare saldi sulla terra. Coltivavamo, proteggevamo il terreno, e la nostra vita quotidiana era legata a quella terra e agli animali che allevavamo». Fu durante le marce popolari nonviolente a Al-Ma’sara che Mohamad riconobbe il nesso tra testimonianza e impegno civile: «Ho capito che la resistenza è anche nel restare radicati alla nostra terra. Queste prime esperienze hanno plasmato la mia convinzione che avessi la responsabilità di documentare, di condividere la nostra storia con il mondo attraverso il giornalismo e il cinema». È una trasformazione: da testimone a narratore. Da “essere” nel villaggio a “raccontare” il villaggio, non in maniera neutra, ma con la consapevolezza che il potere visivo, del film, dell’immagine, della parola, può spingere il confine dell’attenzione globale. LA TELECAMERA, SCUDO DALL’OBLIO Se la terra è stata la prima scuola, la telecamera è diventata per Mohamad Zwahra l’arma più preziosa. «Quello di reporter non è mai stato solo un lavoro: era, ed è ancora, una forma di resistenza. Farsi testimone significa essere presenti per documentare il momento prima che venga cancellato». Un atto non neutrale. Non si tratta di “osservare” ma di impedire la sparizione: delle persone, delle storie, dei luoghi. Ogni immagine scattata diventa un frammento di verità che resiste al tentativo di rendere invisibile la vita palestinese. «L’immagine diventa sia uno scudo sia una testimonianza. Ogni foto e ogni ripresa è una prova della nostra esistenza, un messaggio alle prossime generazioni che noi non siamo rimasti in silenzio». C’è, in questo sguardo, la consapevolezza che l’occupazione non opera soltanto nello spazio fisico – la terra confiscata, le case demolite, i check-point – ma anche nello spazio simbolico della memoria. La fotografia, il video, diventano allora atti di archiviazione viva, contro l’oblio programmato operato da Israele. Così la telecamera, in mano a Mohamad, non è strumento “esterno” alla lotta, ma parte di essa. È da questa convinzione che nasce anche uno dei suoi lavori più significativi, On My Land, un film che intreccia memoria personale e testimonianza collettiva. Attraverso immagini dirette della Cisgiordania, On My Land rompe il filtro delle narrazioni mediate e restituisce al pubblico la crudezza e la delicatezza del vivere sotto occupazione. «In On My Land ho cercato di mostrare immagini reali di ciò che accade in Cisgiordania, perché mi sono accorto che molte persone in Europa ne sanno poco. Quando il pubblico ha visto il film, ha reagito con forti emozioni ed empatia. Questo mi ha confermato che il cinema e la fotografia possono essere un ponte di comprensione e un modo per correggere immagini distorte». di Mohamad Zwahra AL-MA’SARA: UNA STORIA PALESTINESE Dal 2006 il piccolo villaggio di Al-Ma’sara, a sud di Betlemme, è entrato nelle cronache come uno dei simboli della resistenza popolare nonviolenta. Ogni settimana, le e gli abitanti si univano ad attivisti internazionali e israeliani per marciare contro il muro e gli insediamenti. Nonostante la repressione, gli arresti, i gas lacrimogeni, le manifestazioni continuarono per anni, fino a diventare parte dell’identità stessa del villaggio. «Le marce oggi sono meno frequenti, ma lo spirito della resistenza vive nella nostra vita quotidiana – coltivando la terra, insegnando ai nostri figli, costruendo progetti comunitari che rafforzano la nostra fermezza». Dopo l’ultima aggressione israeliana contro Gaza, anche in Cisgiordania lo scenario si è fatto più cupo: la pressione è aumentata e la violenza dei coloni ha trovato nuovo spazio e legittimazione. «Oggi, la situazione in Cisgiordania è ancora più pericolosa. I coloni hanno praticamente preso il controllo: equipaggiati con armi fornite dal governo, sono incoraggiati a impossessarsi di quanta più terra palestinese possibile. L’occupazione non si basa solo sulla presenza militare diretta; sostiene i coloni per espandere gli insediamenti, confiscare terreni agricoli e imporre nuove strade che frammentano il nostro territorio. I checkpoint e i cancelli hanno definito la nostra vita. Rendono quasi impossibile spostarsi da una casa all’altra. I villaggi e le città sono tagliati fuori l’uno dall’altro, mentre i varchi chiudono i nostri ingressi e stabiliscono quando possiamo entrare o uscire dalle nostre terre. Oggi un palestinese lascia casa senza sapere se tornerà. Ore di attesa, umiliazioni, attacchi quotidiani dei coloni: anche il viaggio più semplice diventa un rischio». Il termine che Mohamad non teme di usare è netto: apartheid. «Quello che viviamo è un sistema di apartheid: confische di terre, coloni ovunque, strade che si espandono per servire solo gli insediamenti, e una violenza sistematica – pastori cacciati, greggi rubate, case e auto incendiate, famiglie attaccate. Tutto questo spesso avviene nel silenzio, senza che il mondo se ne accorga». Il cuore della resistenza, in Palestina, spesso batte nel ritmo antico degli ulivi. Ma anche la raccolta delle olive, momento che tradizionalmente unisce le famiglie, oggi si trasforma in campo di battaglia. «Quest’anno la stagione della raccolta delle olive potrebbe essere una delle più difficili. I contadini temono per i raccolti, le famiglie temono per la propria sicurezza anche solo camminando verso i campi. È per questo che ci stiamo preparando a lanciare la campagna Faz3a per sostenere i contadini». “Faz3a”, che in arabo evoca il gesto di accorrere in aiuto, è un modo per rinsaldare i legami di comunità, per colmare il vuoto tra paura e speranza. «Nonostante la violenza e la disperazione, il nostro sostegno reciproco diventa una forma di resistenza. Ci permette di dire al mondo che qui c’è un popolo che rifiuta di morire in silenzio». di Mohamad Zwahra LA RESISTENZA COME QUOTIDIANITÀ Per chi osserva da lontano, non c’è nulla di eroico, in apparenza, in un seme piantato nella terra, o in una casa che resta in piedi malgrado le minacce di demolizione. Eppure, in questo contesto, dichiarazioni di continuità, messaggi di presenza. «Qui la resistenza non è un’opzione aggiuntiva: è uno stile di vita. Viviamo sotto pressione costante, ma resistere significa piantare un albero, raccontare una storia, alzare la bandiera palestinese, restare nella propria casa e proteggere la propria terra». In questo orizzonte nasce Almasra Press, una piccola iniziativa giovanile trasformata in piattaforma di narrazione collettiva. «Abbiamo iniziato documentando ciò che accadeva nel nostro villaggio e nelle comunità vicine, per condividerlo direttamente con il mondo. L’obiettivo era creare un media locale, fatto dalla gente e per la gente, per contrastare la distorsione e il silenzio. Ci siamo concentrati sul dare voce ai contadini e alle famiglie comuni, che sono i più colpiti dall’occupazione». Fare giornalismo in Palestina, però, significa esporsi a rischi concreti e quotidiani. L’elenco che Mohamad snocciola è tanto crudo quanto immediato: «Le sfide sono enormi: arresti, attacchi diretti con proiettili e gas lacrimogeni, restrizioni ai movimenti, mancanza di risorse. Molte volte, anche i media globali marginalizzano le nostre voci o le censurano per ragioni politiche. Nonostante tutto questo, la nuova generazione di giornalisti palestinesi resta determinata a dire la verità». Il mestiere di giornalista in Palestina è anche un atto collettivo: non si fa mai da soli. Per questo Mohamad sottolinea l’importanza di reti di sostegno che vadano oltre i confini. «La solidarietà internazionale è vitale. Quando i giornalisti di tutto il mondo si schierano con noi, ci offrono protezione morale e politica e fanno pressione sui governi perché smettano di prenderci di mira. La solidarietà significa che non siamo lasciati soli di fronte all’occupazione: facciamo parte di una famiglia professionale globale che difende la verità». Un richiamo a un fronte comune, in cui il giornalismo palestinese è parte integrante di un movimento mondiale per la libertà d’informazione. di Mohamad Zwahra SUMUD: UNA VOCE TRANSNAZIONALE C’è una parola che ritorna spesso nel discorso di Mohamad Zwahra: sumud. Non è mai stato un concetto astratto. «Per me, Sumud significa restare saldi nella propria terra nonostante tutto. Significa continuare a vivere una vita normale in condizioni anormali: piantare, ridere, sognare, anche sotto assedio. Trovo speranza nei bambini che ridono nonostante le difficoltà, nei contadini che tornano ogni stagione alla loro terra, nelle donne che tengono forti le famiglie anche nelle condizioni più dure. Cerco di portare questa speranza nei miei film e nelle mie fotografie, per mostrare al mondo che non siamo solo vittime: siamo un popolo di dignità e di speranza». È un messaggio che ribalta la narrazione dominante: il popolo palestinese non è soltanto definito dal dolore che subisce, ma dalla dignità con cui lo affronta dalla capacità di trasformarlo in energia vitale e creativa. «Voglio continuare a realizzare film che documentino la vita delle persone nei villaggi e nelle aree marginalizzate, e sviluppare la Sumud Platform – un’iniziativa che unisce giornalismo comunitario e produzione culturale per dare voce ai giovani palestinesi – in un progetto più ampio, guidato dai giovani stessi. Il mio sogno è usare il cinema come ponte per connettermi con il mondo e costruire una memoria visiva che preservi la nostra storia per le generazioni future». Ed è da questo legame con il mondo che il sumud incontra la solidarietà internazionale. «Per noi che viviamo in Cisgiordania, una parte fondamentale della speranza e della forza che ci permette di andare avanti nasce dalla solidarietà che percepiamo e sentiamo arrivare da ogni angolo della terra. Non sono soltanto le grandi manifestazioni o le campagne internazionali a darci coraggio: persino i gesti più semplici, come qualcuno che espone una bandiera palestinese sulla propria auto o la appende a una finestra, hanno per noi un valore immenso. Possono sembrare piccoli segni a chi li compie, ma per noi che viviamo sotto occupazione sono una conferma preziosa che non siamo soli. Personalmente, ogni volta che mi capita di visitare l’Europa e passeggiare per le sue strade, vedere una bandiera palestinese sventolare da una casa o dipinta su un muro mi riempie di gioia profonda e mi dona nuova forza per continuare». Con la nuova ondata di distruzione a Gaza, il sumud palestinese ha iniziato a risuonare anche oltre confine. «La Global Sumud Flotilla è un esempio potente di questa connessione. Ha offerto una risposta concreta a chi, nel mondo, si chiede: “Che cosa possiamo fare per aiutare?”. Mostra chiaramente che è possibile agire, stare al nostro fianco, amplificare la nostra voce. Ogni gesto di solidarietà, grande o piccolo, diventa parte della nostra resistenza. Alimenta la nostra speranza, rafforza il nostro sumud e ci ricorda che la Palestina non vive soltanto nei nostri cuori, ma anche in quelli di persone ovunque nel mondo». Tutte le immagini sono state concesse da Mohamad Zwahra SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Sumud: vivere e raccontare la Palestina proviene da DINAMOpress.
‘Ho deciso di combattere con la penna’: la storia di Mennah, da Gaza all’Italia con un diploma e un sogno
Incontro Mennah Mohammed, una ragazza di 18 anni, una calda domenica di luglio. Ci sentiamo online alle tre e mezza di pomeriggio. Sono emozionata. Dal trucco leggero sul suo giovane volto e dalla kefiah sistemata sulle spalle, capisco che anche … Leggi tutto L'articolo ‘Ho deciso di combattere con la penna’: la storia di Mennah, da Gaza all’Italia con un diploma e un sogno sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il servo … di Smotrich
Matteo Salvini sì è fatto intervistare da una tv israeliana per esprimere pieno sostegno al genocidio in corso a Gaza. Naturalmente ha anche detto che chi manifesta per la Palestina oggi non sa quello che fa, ma in fondo questa è la cosa meno grave. Il leghista ha schierato se […] L'articolo Il servo … di Smotrich su Contropiano.
“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Immagine in evidenza: Jathan Sadowski, credits: Jathan Sadowski Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa caduta dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle  dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.  CHI È JATHAN SADOWSKI Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione. L’ERA DEL CAPITALISMO TECNOLOGICO Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali. Il secondo presupposto vuole le tecnologie come forma di legislazione che crei regole, definisca diritti, stabilisca cosa è consentito e – a monte – delinei il tipo di società in cui viviamo. Con un impatto anche sul mondo fisico. I magazzini automatizzati sono ambienti costruiti per i robot e non per l’uomo, le strade su cui viaggiano le automobili a guida autonoma sono pensate per quel tipo di veicolo e, ancora, qualsiasi tecnologia futura avrà bisogno di un ambiente fisico adeguato e inedito. Per definire il capitalismo tecnologico, Sadowski fa riferimento a un’idea ampia che si sofferma sugli algoritmi discriminatori, sulle piattaforme che trattano i dati degli utenti, anche i più sensibili, e sulle Big Tech che stipulano ricchi contratti con corpi militari. Tutto ciò porta in superficie le connessioni tra tecnologia e potere, così come mette in risalto la natura politica e le ricadute economico-sociali delle tecnologie. Ciò che andrebbe osservato, e questo è un punto centrale nella narrazione di Sadowski, è il contesto nel quale alcune innovazioni vengono incentivate e altre scartate. Il ruolo dei venture capitalist nell’innovazione capitalista I venture capitalist, investitori privati che finanziano imprese in cambio di quote societarie, definiscono l’innovazione in base a ciò che si adatta ai rispettivi portafogli di investimento e allineano il progresso ai loro obiettivi di profitto. Un modello – critica l’autore – sostenuto da sussidi governativi e agevolazioni fiscali e incentrato sull’ipercrescita (hypergrowth), selezionando startup e tecnologie che possono scalare e dominare il mercato esponenzialmente in breve tempo. Per Sadowski la Silicon Valley siede al tavolo della roulette, decide su quale numero si fermerà la pallina e decide quanto scommettere. Può capitare che la mano non sia vincente ma – sul lungo periodo e sulla quantità di mani giocate – il saldo per i venture capitalist è sempre positivo.   Anche quando il mercato crolla, i venture capitalist al vertice sono in gran parte immuni dai rischi e ottengono comunque profitti significativi. Questo processo crea un “realismo dell’innovazione”, al cui interno il venture capital sembra l’unica via praticabile per sostenere l’innovazione. Dati come capitale e la politica della datificazione L’autore sostiene che le metafore popolari quali “i dati sono il nuovo petrolio” oscurano la vera natura dei dati, che non sono una risorsa naturale, ma sono sempre manufatti. Le aziende inquadrano i dati come una risorsa preziosa, disponibile universalmente e soggetta alle dinamiche di mercato, ma ciò vale solo per quelle imprese che possiedono le tecnologie speciali per scoprirli, estrarli, elaborarli e capitalizzarli. I dati sono una forma di capitale essenziale per la produzione, estrazione e circolazione del valore nei sistemi digitali. Questo spinge le aziende a creare e catturare quanti più dati possibile, da tutte le fonti e con ogni mezzo.  Le acquisizioni aziendali, come l’acquisto di DoubleClick da parte di Google, LinkedIn da parte di Microsoft, WhatsApp da parte di Facebook (ora Meta, ndr) e OneMedical da parte di Amazon, sono spesso fusioni di dati. Una smania per la datificazione che trasforma le persone in dati. Ciò trova conferma, secondo l’autore, per esempio nella ricerca sulla visione artificiale che tende a categorizzare gli esseri umani al pari di oggetti da rilevare, identificare e tracciare, spogliandoli così del loro contesto sociale e della loro umanità. Un’astrazione che fa cadere eventuali resistenze etiche in chi implementa tecnologie di sorveglianza e giustifica – seppure indirettamente – la creazione di oligopoli che trovano forma nelle Big Tech, organizzazioni che fondano le rispettive potenze sui dati, sulla capacità computazionale e sul loro peso geopolitico che le mette in condizione di presentare le tecnologie prodotte al pari di asset strategici nazionali. Il ruolo dei “meccanici” e dei “luddisti” Per il professor Sadowski le parole “mechanic” e “luddite” sono da intendere in un contesto critico. Entrambi, in senso metaforico, incarnano un modo di vivere il capitalismo tecnologico. I “mechanic”, i meccanici, sono le persone che coltivano curiosità su come il mondo funziona, mentre i “luddite” (i luddisti) hanno posizioni più consapevoli delle funzioni intrinseche della tecnologia.  Il termine luddista prende origine dal movimento nato nel Regno Unito durante i primi anni del 1800 che, preoccupato dagli impatti dei macchinari industriali sul lavoro degli artigiani, ha ingaggiato una lotta contro le fabbriche, accusandole di peggiorare le condizioni di vita.  Tanto all’epoca quanto oggi, i luddisti non sono refrattari alle tecnologie in quanto tali ma alle loro implicazioni. Il luddismo odierno è un movimento molto più complesso di quello che, nel XIX secolo, il governo britannico ha represso con la violenza e con leggi ad hoc. In sintesi, il meccanico comprende come funziona un sistema, mentre il luddista sa perché è stato costruito, a quali scopi serve e quando dovrebbe essere smantellato o distrutto. Entrambi i modelli, sostiene Sadowski, sono cruciali per una critica puntuale del tecno-capitalismo.  INTERVISTA CON L’AUTORE Abbiamo approfondito queste posizioni con l’autore del libro. Nel libro emerge un panorama in cui le tecnologie sono sempre più opache (il fenomeno della “scatola nera”), complesse e dominate da interessi aziendali e statali che limitano l’agire umano. Si tratta di uno sviluppo contemporaneo o di un modello ricorrente? “L’idea delle tecnologie come una ‘scatola nera’ esiste da tempo ed è stata a lungo rilevante. È un modello ricorrente nel modo in cui le tecnologie sono progettate e utilizzate. Una scatola nera in cui possiamo vedere gli input e gli output di una tecnologia, di un sistema o di un’organizzazione, ma non possiamo vedere o capire come la cosa effettivamente operi. Se mai, la scatola è diventata semplicemente più opaca col passare del tempo. Che si tratti di intelligenza artificiale o di strumenti finanziari, i meccanismi interni di questi sistemi, che hanno un enorme potere nella società, sono schermati da strati di opacità. Certo, questi sistemi astratti sono complessi, ma sono anche mistificati per design. Ci viene detto che solo pochi eletti sanno come sono stati creati, e ancora meno sanno come effettivamente funzionino. Il risultato è che alla grande maggioranza delle persone viene impedito di conquistare la posizione minacciosa di sapere come le cose funzionano, dire di no al modo in cui funzionano ora e poi pretendere che funzionino diversamente. Consideriamo un modello di machine learning che sta alla base di un sistema di AI. Ora non possiamo nemmeno vedere o comprendere gli input che entrano nel modello perché si tratta di dataset enormi raccolti tramite scraping automatico del web e altre forme di raccolta dati. Nessun essere umano ha mai effettivamente spulciato questi dataset nella loro interezza. Forse qualcuno ha visto solo parti dei dati, o ha solo un’idea generale di che tipo di dati siano inclusi nel dataset. Ma, funzionalmente, il dataset (o input nel sistema) è anch’esso una scatola nera. Le operazioni del modello di machine learning sono anch’esse ‘black-boxed’ poiché questi sistemi computazionali hanno strati nascosti di calcoli probabilistici in cui neppure il creatore della tecnologia sa esattamente cosa stia succedendo. Per di più, persino gli output di questi sistemi sono ora scatole nere: le decisioni prese da questi sistemi di AI e, le loro conseguenze sulla vita delle persone, sono nascoste alla vista del pubblico.  Un decennio fa (era il 2016, nda), il giurista Frank Pasquale scrisse un eccellente libro intitolato The Black Box Society in cui spiegava come le scatole nere si stiano moltiplicando nelle nostre vite grazie a modi tecnici, legali, politici e sociali. Le scatole nere mantengono nascoste le operazioni di questi sistemi.  Quindi, sebbene il fenomeno delle tecnologie a scatola nera sia un modello ricorrente, possiamo sempre più vedere come quelle scatole stanno ora diventando ancora più grandi, inglobando più parti del sistema”. Parliamo dei venture capitalist che plasmano il capitalismo tecnologico anche gonfiando in modo artificioso gli asset speculativi. Come possiamo spezzare questo ciclo dell’hype? Cosa servirebbe per orientare l’innovazione verso il benessere sociale piuttosto che verso l’accumulazione di capitale? “Le nostre aspettative sul futuro sono molto importanti per influenzare dove allocare le risorse e per modellare come e perché costruiamo le tecnologie. Le aspettative sono anche performative del futuro. Andrebbero pensate come prove generali per futuri potenziali che non sono ancora arrivati. Le nostre aspettative creano anticipazione riguardo al futuro e possono aiutare a motivare l’azione nel presente. È per questo che la Silicon Valley spende così tanto tempo e denaro cercando di modellare le nostre aspettative in modi molto specifici che si allineano ai loro desideri e favoriscono i loro interessi. Ecco cosa sono i cicli dell’hype: sono il business della gestione delle aspettative. Gli investimenti speculativi – come quelli che sono la specialità dei venture capitalist e degli imprenditori tecnologici – dipendono dall’hype, dal creare aspettative e motivare all’azione. Questa speculazione è un modo di ricavare valore e profitto da cose che non sono ancora accadute e che potrebbero non accadere mai. Il futuro potrebbe sempre non materializzarsi nel modo in cui la Silicon Valley lo immagina, ma proprio questa incertezza è un elemento cruciale della performance. Significa che la partecipazione del pubblico è necessaria. Nel mio libro chiamo questo il Tinkerbell Effect: le tecnologie speculative esistono solo se ci crediamo abbastanza e battiamo le mani abbastanza forte. Se smettiamo di crederci e smettiamo di applaudire, allora possono cominciare a svanire, diventando sempre più immateriali fino a sparire. Anche investire miliardi di dollari non garantisce la realizzazione di un sogno se le persone smettono di alimentarlo con la loro energia psichica. Gli esempi ci sono, si chiamano Metaverso (un ricordo lontano), Web3 oppure Google Glass (in realtà mai visti davvero sul mercato). Questa natura effimera dell’hype è anche un punto chiave di intervento. Attualmente, molti dei benefici della tecnologia avvengono in modo accidentale e ‘a cascata’. Il loro scopo principale è catturare mercati e creare profitti per grandi aziende. Ci viene detto che questo è l’unico modo possibile e che non dovremmo aspettarci nulla di diverso o migliore. Ma potremmo fare molta strada per orientare l’innovazione in direzioni diverse semplicemente avendo aspettative più alte su come le tecnologie vengono create e a quali scopi servono”. I dati tendono a ridurre le persone a oggetti. Questo processo, intrinseco ai sistemi di intelligenza artificiale, è oggi estremamente rilevante. Quali interventi politici e sociali ritiene necessari per garantire che le tecnologie basate sui dati vengano sviluppate in modi che rispettino la dignità umana? A suo avviso, quali aspetti del capitale umano dovrebbero rimanere al di fuori della portata della datificazione? “Le nuove tecnologie possono catturare quantità di dati così vaste da risultare incomprensibili, ma quei dati sul mondo resteranno sempre incompleti. Nessun sensore o sistema di scraping può assorbire e registrare dati su tutto. Ogni sensore, invece, è progettato per raccogliere dati su aspetti iper-specifici. Ciò può sembrare banale, come un termometro che può restituire un numero sulla temperatura, ma non può dirti che cosa si provi davvero con quel clima. Oppure può essere più significativo, come un algoritmo di riconoscimento facciale che può identificare la geometria di un volto, ma non può cogliere l’umanità soggettiva e il contesto sociale della persona. I dati non potranno mai rappresentare ogni fibra dell’essere di un individuo, né rendere conto di ogni sfumatura della sua vita complessa.  Ma non è questo lo scopo né il valore dei dati. Il punto è trasformare soggetti umani integrati in oggetti di dati frammentati. Infatti, ci sono sistemi che hanno l’obiettivo di conoscerci in modo inquietante e invasivo, di assemblare questi dati e usarli per alimentare algoritmi di targeting iper-personalizzati. Se questi sistemi non stanno cercando di comporre un nostro profilo completo e accurato possibile, allora qual è lo scopo? Ecco però un punto importante: chi estrae dati non si interessa a noi come individui isolati, ma come collettivi relazionali. I nostri modi di pensare la raccolta e l’analisi dei dati tendono a basarsi su idee molto dirette e individualistiche di sorveglianza e informazione.  Ma oggi dobbiamo aggiornare il nostro modo di pensare la datificazione – e le possibili forme di intervento sociopolitico in questi sistemi guidati dai dati – per includere ciò che la giurista Salomé Viljoen chiama ‘relazioni “orizzontali’, che non si collocano a livello individuale, ma a scala di popolazione. Si tratta di flussi di dati che collegano molte persone, scorrono attraverso le reti in modi tali che le fonti, i raccoglitori, gli utilizzatori e le conseguenze dei dati si mescolano in forme impossibili da tracciare se continuiamo a ragionare in termini di relazioni più dirette e individualistiche.  Nel libro spiego che questa realtà delle reti di dati orizzontali indebolisce l’efficacia di interventi troppo concentrati sulla scala dei diritti individuali, piuttosto che sulla giustizia collettiva. Se vogliamo salvaguardare la dignità umana contro la datificazione disumanizzante, allora possiamo farlo solo riconoscendo come i diritti e la sicurezza di tutti i gruppi siano interconnessi attraverso queste reti guidate dai dati. In altre parole, la dignità e la sicurezza di un gruppo di persone colpite da sorveglianza e automazione è legata alla dignità e alla sicurezza di tutte le persone all’interno di questi vasti sistemi sociotecnici che letteralmente connettono ciascuno di noi”. Nel libro esprime il concetto di “AI Potemkin” per descrivere l’illusione di un’automazione che in realtà nasconde enormi quantità di lavoro umano. Un inganno per utenti, investitori e opinione pubblica: che cosa è esattamente questa illusione? “Ci sono tantissime affermazioni altisonanti sulle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale. Ci viene fatto credere che queste tecnologie ‘intelligenti’ funzionino unicamente grazie ai loro enormi dataset e alle reti neurali.  In realtà, molte di queste tecnologie non funzionano – e non possono funzionare – nel modo in cui i loro sostenitori dichiarano. La tecnologia non è abbastanza avanzata. Al contrario, molti sistemi dipendono pesantemente dal lavoro umano per colmare le lacune delle loro capacità. In altre parole, il lavoro cognitivo che è essenziale per queste presunte macchine pensanti, proviene in realtà da uffici pieni di lavoratori (mal retribuiti) in popolari destinazioni di outsourcing come le Filippine, l’India o il Kenya. Ci sono stati diversi esempi di alto profilo, come la startup Builder.AI, che affermava di automatizzare il processo di creazione di app e siti web. Un’indagine ha rivelato che il sofisticato ‘sistema di AI’ della startup sostenuta da Microsoft e valutata 1,5 miliardi di dollari  era in realtà alimentato da centinaia di ingegneri software in India, istruiti a fingersi l’AI della società quando interagivano con i clienti. Esempi come questo sono così frequenti che ho coniato il termine AI Potemkin per descriverli. Potemkin si riferisce a una facciata progettata per nascondere la realtà di una situazione (da il villaggio Potemkin, ndr). L’AI Potemkin è collegata al concetto di ‘black boxing’, ma spinge l’occultamento fino alla vera e propria ingannevolezza. Lo scopo non è solo nascondere la realtà, ma mentire sulla realtà delle capacità di una tecnologia, per poter affermare che un sistema sia più potente e prezioso di quanto non sia in realtà. Invece di riconoscere e valorizzare pienamente il lavoro umano, da cui queste tecnologie dipendono, le aziende possono continuare a ignorare e svalutare i componenti umani indispensabili dei loro sistemi. Con così tanti soldi e così poco scetticismo che vengono pompati nel settore tecnologico, l’inganno dell’AI Potemkin continua a crescere a ogni nuovo ciclo di hype della Silicon Valley”. Per concludere, il capitale può eliminare il lavoro umano senza finire, alla lunga, per distruggere sé stesso? “Il capitalismo è un sistema definito da molte contraddizioni che minacciano costantemente di distruggerne le fondamenta e lo gettano di continuo in cicli di crisi. Una contraddizione importante che individuo nel libro è la ricerca del capitale di costruire quella che chiamo la ‘macchina del valore perpetuo’. In breve, questa macchina sarebbe un modo per creare e catturare una quantità infinita di plusvalore senza dover dipendere dal lavoro umano per produrlo. Il capitale persegue questa ricerca da centinaia di anni. Ha motivato enormi quantità di investimenti e innovazioni, nonostante non si sia mai avvicinato a realizzare davvero il sogno di produrre plusvalore senza le persone. Ciò che rende questa una contraddizione è il fatto che gli esseri umani non sono una componente accessoria della produzione di valore; il lavoro umano è parte integrante della produzione di plusvalore. L’AI è l’ultimo – e forse il più grande – tentativo di creare finalmente una macchina del valore perpetuo. Gran parte del discorso sull’automazione, e ora sull’intelligenza artificiale, si concentra sulle affermazioni secondo cui il lavoro umano verrà sostituito da lavoratori robotici, con l’assunzione che si tratti di una sostituzione diretta dei corpi organici con sistemi artificiali, entrambi intenti a fare esattamente la stessa cosa, solo in modi diversi e con intensità diverse. Tuttavia, a un livello fondamentale, l’idea di una macchina del valore perpetuo non può riuscire, perché si basa su un fraintendimento del rapporto tra la produzione di valore e il funzionamento della tecnologia. Il capitale equipara una relazione – gli esseri umani che usano strumenti per produrre valore – a un’altra relazione completamente diversa: gli strumenti che producono valore (con o senza esseri umani). Dal punto di vista del capitale, il problema degli esseri umani è che non sono macchine. Aziende come Amazon non vogliono rinunciare alla fantasia di una macchina del valore perpetuo, ma sanno anche che ci sono molte più alternative che sostituire direttamente gli uomini con le macchine: si possono anche gestire i lavoratori tramite le macchine, renderli subordinati alle macchine e, in ultima analisi, farli diventare sempre più simili a macchine. Questo è un punto cruciale per ripensare il potere dell’AI per il capitalismo e per capire perché le aziende stanno riversando più di mille miliardi di dollari nella costruzione dell’AI. Ai loro occhi, il futuro del capitalismo dipende dall’uso dell’AI per sostituire gli esseri umani come unica fonte di plusvalore o, se questo obiettivo fallisse, dall’obbligare i lavoratori a trasformarsi in oggetti, semplici estensioni delle macchine, costringendo le persone a diventare sempre più meccaniche nel modo in cui lavorano e vivono”. L'articolo “Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo proviene da Guerre di Rete.
Politica, identità e migrazione: intervista a un migrante curdo in Italia
Quella che segue è un’intervista di qualche mese fa a un ragazzo di origine curda, attualmente richiedente asilo in Italia. 18 anni appena compiuti, lavoro in nero da poco trasformato a tempo determinato, una passione per l’impegno politico (maturata nel paese d’origine e che lui stesso ci tiene a lasciare indefinita, ma comunque a non chiamarla assolutamente “militanza”). La storia di questo ragazzo curdo si presenta quindi come un racconto stratificato. Ma più da vicino: la storia di una crescita e di una maturazione individuale, intersecata indissolubilmente alla consapevolezza e alla traduzione nel pratico e nel quotidiano dei risvolti sociali, culturali e politici che hanno visto come protagonista il popolo curdo. All’interno di questa storia personale, si trova dunque un piccolo pezzo della storia di un preciso gruppo socio-culturale. Ma più nello specifico: la sua lotta per l’indipendenza dalla Turchia e nel suo passaggio intermedio, il suo tentativo di vedersi riconosciuto e rappresentato democraticamente nella Grande Assemblea Nazionale (il Parlamento turco che ha sede ad Ankara). Senza dimenticare ovviamente anche i collegamenti con altre minoranze curde che insistono sulla stessa zona geografica e transnazionale come, ad esempio, quella curdo-siriana, prepotentemente emersa sullo scenario geopolitico durante la Guerra civile del 2011 e che ha dato vita a esperienze di lotta armata come le YPG, le Unità di Difesa del Popolo, attive nella zona di Kobane e non solo. Per intenderci, a meno di 150 km da dove si colloca l’inizio di questa storia. Ben lontano da forme caricaturali di rappresentazione di questa identità storica, politica e culturale, la storia di questo ragazzo turco-curdo è quindi la narrazione di chi, per affermare se stesso, si è trovato – e si trova – quotidianamente costretto a combattere. Non solo come giovane migrante ma anche e soprattutto, a partire dai primi anni di scuola, dalle prime esperienze di vita e quindi, dalla prima infanzia vissuta in Turchia; ovvero da ben prima di riconoscersi in una precisa parte politica, come nel suo caso, nel HDP (Partito Democratico dei Popoli), i cui leader sono stati arrestati (fuori da qualsiasi forma di confronto democratico con il governo turco) nel novembre 2016, con il pretesto di un attacco bomba di fronte alla sede della polizia della città di Diyarbakir, nel sud-est del paese, ovvero la parte a predominanza curda della Turchia. Raccolta in una singola intervista (sicuramente troppo breve e personale per potersi dire rappresentativa dell’intera situazione), la storia di questo ragazzo è dunque la storia di chi, per sopravvivere come curdo, non può far altro che vedersi e raccontarsi “dal basso”, innanzitutto come un piccolo pezzo di un quadro culturale, politico ed economico, enormemente più grande e complesso. Per cominciare questa intervista, ti va di presentarti? Mi chiamo Berat e sono nato nel 2007 in un piccolo villaggio a circa 100 km dal confine tra la Turchia e la Siria. Il mio villaggio d’origine si chiama Sadakalar e si trova precisamente nella Turchia centro-orientale. Sono nato in un villaggio curdo ma rimasto lì poco perché, quando avevo circa due anni, assieme alla mia famiglia mi sono trasferito a Pazarcik: una città molto più grande a circa 25 km dal mio villaggio d’origine. Com’è la vita di un giovane ragazzo curdo in Italia? Come sai, tante persone curde che sono in nord Italia come me, provengono da lì. Da quella stessa zona della Turchia. Per farti capire, ho addirittura dei parenti stretti che vivono nei dintorni di dove abito adesso. In un certo senso, è come se un pezzo di Kurdistan fosse venuto via con me. Per il resto, in Italia ho trovato lavoro quasi subito. E in generale devo dire che mi trovo abbastanza bene. Se un pezzo di Kurdistan è venuto via con te, cosa significa per te essere curdo? Per quanto mi riguarda, la cultura curda significa calore, famiglia, vicinanza. La mia identità ovviamente è anche legata tantissimo alla mia prima lingua, il curdo appunto. Mia nonna, ad esempio, non parla turco e non l’ha mai parlato, parla solo curdo. Però a Pazarcik, se vai all’ospedale oppure durante le lezioni a scuola, devi parlare per forza turco. E questo è un problema perché nel caso dell’ospedale, potresti anche non essere curato. O perlomeno, non bene. Sicuramente non con la stessa assistenza che riceverebbe una persona di origine turca. La cultura e l’identità curda non vengono accettate in Turchia? Hai voglia di dirmi meglio che significa questa cosa? Lo Stato turco non riconosce il Kurdistan, figuriamoci i curdi che sono circa 60 milioni, sparpagliati in tutta la zona. Per noi, il Kurdistan, invece esiste, è una realtà. E vivere dentro questa realtà, è come essere sempre considerati cittadini di seconda categoria perché come ti dicevo, la nostra identità, in Turchia, non viene assolutamente riconosciuta. Anzi, spesso è una cosa che ti porti dietro con grande fatica e sofferenza perché è come se una parte di te non potesse mai davvero esistere. Ma c’è, e la popolazione curda ne è la prova vivente. Questa cosa succede solo in Turchia o anche altrove? Questa cosa purtroppo, non succede solo in Turchia. Anche all’estero è la stessa cosa. Ti faccio un esempio: l’anno scorso, in una città in Germania, una cantante di origine curda è stata aggredita da una passante turca perché la lingua curda la stava offendendo. E quindi, quella signora turca l’ha aggredita in mezzo alla strada. E questo è solo un esempio, potrei fartene altri che mi riguardano più da vicino ma preferisco non farlo. Ti va di raccontarmi qualcosa legato a questa situazione? Le due popolazioni in Turchia vivono praticamente separate. Per farti capire meglio, durante la mia infanzia tutti i miei amici erano curdi oppure aleviti [corrente mussulmana di derivazione sciita, nda] che solitamente sono un po’ più aperti. Di mentalità ma non solo, anche di pensiero politico, che è praticamente opposto a quello dei nazionalisti turchi che governano il paese. In Turchia quindi vivete separati? Turchi da una parte e curdi dall’altra? Ovviamente nelle città più grandi non si può far altro che mischiarsi, ma la tendenza è quella di vivere separati. E questo, a volte, può essere un grosso problema. Non ho bisogno di spiegarti perché, puoi capirlo facilmente da solo. Dal punto di vista personale, tu come hai vissuto questa separazione? Quando ero bambino a Pazarcik, mi capitava spesso che altri bambini turchi mi prendessero in giro e mi dicessero che dovevo andarmene via perché la mia famiglia era curda. Ad esempio, anche sul lavoro, in una fabbrica dove ho lavorato per qualche mese, venivano considerati di più i turchi. Nel senso che le nostre opinioni, come lavoratori di origine curda, non erano minimamente prese in considerazione. Hai voglia di raccontarmi un evento in particolare? Durante un turno di lavoro, una volta mi ricordo di aver parlato apertamente a favore del partito filo-curdo HDP (Partito Democratico dei Popoli). In quell’occasione, ero stato immediatamente avvertito da un collega curdo che per quella cosa, mi avrebbero potuto licenziare. Ed era meglio non farlo più, soprattutto se avessi voluto mantenere il mio lavoro e non passare dei guai. In pratica, non ero libero di esprimere apertamente il mio pensiero politico. Perché era meglio non farlo? Per farti capire meglio, il capo di questo Partito di cui stavo parlando si chiama Selahattin Demirtaş ed è stato messo in prigione nel novembre del 2016 perché stava avendo un grande successo tra i curdi (e non solo, anche tra i turchi aveva tanti elettori). C’era molta speranza e come avrai capito, anche io ero un suo sostenitore. Tuttavia, a seguito di una serie di attacchi da parte del governo, ha dovuto lasciare il suo incarico. Perché ha dovuto lasciare la politica? L’hanno incolpato di supportare le rivolte in Rojava, soprattutto quella di Kobane durante la fine dell’estate 2014. In più, c’è stata una serie di attacchi bomba a Istanbul e in tutta la Turchia, per i quali hanno incolpato direttamente i curdi. Per molto tempo c’è stato un clima di forte tensione. Adesso chi guida il Partito Democratico dei Popoli è la moglie Başak, che continua il lavoro di suo marito di rappresentanza del popolo curdo. Tu cosa ne pensi della decisione del PKK di proporre allo stato turco il “cessate il fuoco”? Rispetto a quello che è successo all’interno del PKK, per prima cosa ti devo dire che Öcalan non è più la figura centrale e c’è tanta gente che non è d’accordo con lui. Per questo motivo, non credo che deporre le armi sia la cosa che vogliono fare tutti. Sicuramente dopo l’arresto del sindaco di Istanbul e il tentativo di colpo di stato del 2016, che ha causato una grossa mobilitazione politica e una repressione violenta da parte della polizia, molti curdi possono aver pensato che l’opposizione turca (ad esempio quella che sosteneva il sindaco arrestato dalla polizia di Erdoğan) poteva essere un alleato. Ma io non credo. In queste cose, credo si debba essere più realisti e guardare i fatti. Tu hai mai partecipato a manifestazioni di protesta? Dal punto di vista della mia partecipazione personale, Pazarcik era una città piccola per cui le proteste non erano così grosse. Sicuramente nelle città più popolose il movimento di protesta curdo è molto più forte e sicuramente più organizzato di quanto non lo fosse nella città dove vivevo. Torno un attimo sulla differenza tra curdi e turchi. Hai voglia di approfondire questo tema? Rispetto alla differenza tra un curdo e un turco, quello che ti posso dire è che molte volte non te ne rendi neanche conto. Nel senso che non ci fai davvero caso, se uno è turco e un altro è curdo. Magari te ne accorgi dall’accento, dal genere musicale che ascolti, oppure anche dal modo di vestire, soprattutto durante i matrimoni; ad esempio. I vestiti tradizionali curdi sono più legati ad altri paesi dell’Asia centro meridionale, come ad esempio l’Afghanistan. Quelli turchi invece, solitamente sono più occidentali. Durante le celebrazioni cerimoniali quindi, è più facile. Ma credimi, nella vita di tutti i giorni è quasi sempre impossibile distinguere un curdo da un turco. Come mai hai parlato proprio di matrimoni? La questione dei matrimoni è molto forte nella cultura curda perché è ancora la famiglia che organizza il matrimonio. Tra l’altro, il legame di sangue tra i due sposi è dato per scontato. Nel senso che ci si sposa quasi sempre con un parente. Anche lontano, ma comunque l’importante è che faccia parte della famiglia allargata. Come ragazzo curdo, te lo dico: questa secondo me, culturalmente parlando, è una delle cose che sono rimaste di più e che rimarrà più a lungo. Adesso cambiamo argomento. Che lavori hai fatto prima di arrivare in Italia? Dal punto di vista del lavoro, i curdi sono impegnati soprattutto nei lavori manuali, quelli più faticosi e che vengono pagati meno in fabbrica oppure in agricoltura. Entrambi lavori che ho già fatto in passato. Ma adesso, con la migrazione di massa, molti curdi come me si sono spostati per raggiungere luoghi dove possono vivere in condizioni migliori. Anche il terremoto del 2023 è stata una forte causa di migrazione, soprattutto per i più giovani che si sono trovati senza un futuro, se non quello dello sfruttamento. Pensi che la migrazione avrà degli effetti sulla tua appartenenza culturale? Se devo pensare alla mia appartenenza alla cultura curda, devo dire che probabilmente sono uno degli ultimi che la vedrà ancora. Già i miei fratelli più piccoli non parlano curdo ed è molto probabile non lo impareranno mai. L’impressione che mi sono fatto è che, per quanto riguarda la mia famiglia, la cultura curda sia destinata a scomparire. A pensarci bene, devo dire che la cosa mi rende molto triste, ma la verità è che nella nostra vita quotidiana l’identità curda è molto spezzettata. Come ti dicevo, in casa i più piccoli parlano solo turco. Solo io, i miei genitori e il fratello più grande continuiamo a parlare curdo ma lo facciamo tra di noi. Hai ancora contatti con persone curde che vivono in Turchia? Quando mi capita di telefonare ai pochi amici che sono rimasti a Pazarcik non parliamo quasi mai di politica perché preferiamo parlare di altro. Questioni un po’ più materiali come, ad esempio, il lavoro. Discutiamo tanto anche della crisi economica che c’è adesso in Turchia perché quella che vivono i ragazzi della mia generazione è una situazione difficilissima. Le persone che sono rimaste dopo il terremoto stanno veramente soffrendo molto. Per noi curdi è un momento difficile ed è anche difficile ribellarsi e protestare per far valere i propri diritti. Per cui, ecco, la situazione è molto problematica. E rispetto a quelli che sono migrati in Europa? Per il resto dei miei amici che sono emigrati in Europa (soprattutto Germania, Italia e Inghilterra), l’identità curda rimane attiva principalmente attraverso celebrazioni religiose e racconti del passato. La verità è che c’è molta voglia di integrarsi e di migliorare le proprie condizioni di vita. I ragazzi della mia generazione tendenzialmente vorrebbero rimanere in Europa, sopratutto quelli che sono arrivati con tutta la loro famiglia. Quelli che invece sono arrivati in Europa da soli, è più facile che vogliano ritornare in Turchia, un domani non lontano. Il motivo è che fanno molto più fatica ad avere una vita stabile e tranquilla, soprattutto con i documenti che sono molto difficili da ottenere. Hai voglia di condividere cosa pensi rispetto al tuo futuro? Sinceramente non troppa. Come sai bene, preferisco pensare al presente. Ti ringrazio per l’intervista. In bocca al lupo. Grazie a te. L’immagine di copertina è di Milos Skakal SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Politica, identità e migrazione: intervista a un migrante curdo in Italia proviene da DINAMOpress.