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Il servo … di Smotrich
Matteo Salvini sì è fatto intervistare da una tv israeliana per esprimere pieno sostegno al genocidio in corso a Gaza. Naturalmente ha anche detto che chi manifesta per la Palestina oggi non sa quello che fa, ma in fondo questa è la cosa meno grave. Il leghista ha schierato se […] L'articolo Il servo … di Smotrich su Contropiano.
“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Immagine in evidenza: Jathan Sadowski, credits: Jathan Sadowski Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa caduta dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle  dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.  CHI È JATHAN SADOWSKI Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione. L’ERA DEL CAPITALISMO TECNOLOGICO Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali. Il secondo presupposto vuole le tecnologie come forma di legislazione che crei regole, definisca diritti, stabilisca cosa è consentito e – a monte – delinei il tipo di società in cui viviamo. Con un impatto anche sul mondo fisico. I magazzini automatizzati sono ambienti costruiti per i robot e non per l’uomo, le strade su cui viaggiano le automobili a guida autonoma sono pensate per quel tipo di veicolo e, ancora, qualsiasi tecnologia futura avrà bisogno di un ambiente fisico adeguato e inedito. Per definire il capitalismo tecnologico, Sadowski fa riferimento a un’idea ampia che si sofferma sugli algoritmi discriminatori, sulle piattaforme che trattano i dati degli utenti, anche i più sensibili, e sulle Big Tech che stipulano ricchi contratti con corpi militari. Tutto ciò porta in superficie le connessioni tra tecnologia e potere, così come mette in risalto la natura politica e le ricadute economico-sociali delle tecnologie. Ciò che andrebbe osservato, e questo è un punto centrale nella narrazione di Sadowski, è il contesto nel quale alcune innovazioni vengono incentivate e altre scartate. Il ruolo dei venture capitalist nell’innovazione capitalista I venture capitalist, investitori privati che finanziano imprese in cambio di quote societarie, definiscono l’innovazione in base a ciò che si adatta ai rispettivi portafogli di investimento e allineano il progresso ai loro obiettivi di profitto. Un modello – critica l’autore – sostenuto da sussidi governativi e agevolazioni fiscali e incentrato sull’ipercrescita (hypergrowth), selezionando startup e tecnologie che possono scalare e dominare il mercato esponenzialmente in breve tempo. Per Sadowski la Silicon Valley siede al tavolo della roulette, decide su quale numero si fermerà la pallina e decide quanto scommettere. Può capitare che la mano non sia vincente ma – sul lungo periodo e sulla quantità di mani giocate – il saldo per i venture capitalist è sempre positivo.   Anche quando il mercato crolla, i venture capitalist al vertice sono in gran parte immuni dai rischi e ottengono comunque profitti significativi. Questo processo crea un “realismo dell’innovazione”, al cui interno il venture capital sembra l’unica via praticabile per sostenere l’innovazione. Dati come capitale e la politica della datificazione L’autore sostiene che le metafore popolari quali “i dati sono il nuovo petrolio” oscurano la vera natura dei dati, che non sono una risorsa naturale, ma sono sempre manufatti. Le aziende inquadrano i dati come una risorsa preziosa, disponibile universalmente e soggetta alle dinamiche di mercato, ma ciò vale solo per quelle imprese che possiedono le tecnologie speciali per scoprirli, estrarli, elaborarli e capitalizzarli. I dati sono una forma di capitale essenziale per la produzione, estrazione e circolazione del valore nei sistemi digitali. Questo spinge le aziende a creare e catturare quanti più dati possibile, da tutte le fonti e con ogni mezzo.  Le acquisizioni aziendali, come l’acquisto di DoubleClick da parte di Google, LinkedIn da parte di Microsoft, WhatsApp da parte di Facebook (ora Meta, ndr) e OneMedical da parte di Amazon, sono spesso fusioni di dati. Una smania per la datificazione che trasforma le persone in dati. Ciò trova conferma, secondo l’autore, per esempio nella ricerca sulla visione artificiale che tende a categorizzare gli esseri umani al pari di oggetti da rilevare, identificare e tracciare, spogliandoli così del loro contesto sociale e della loro umanità. Un’astrazione che fa cadere eventuali resistenze etiche in chi implementa tecnologie di sorveglianza e giustifica – seppure indirettamente – la creazione di oligopoli che trovano forma nelle Big Tech, organizzazioni che fondano le rispettive potenze sui dati, sulla capacità computazionale e sul loro peso geopolitico che le mette in condizione di presentare le tecnologie prodotte al pari di asset strategici nazionali. Il ruolo dei “meccanici” e dei “luddisti” Per il professor Sadowski le parole “mechanic” e “luddite” sono da intendere in un contesto critico. Entrambi, in senso metaforico, incarnano un modo di vivere il capitalismo tecnologico. I “mechanic”, i meccanici, sono le persone che coltivano curiosità su come il mondo funziona, mentre i “luddite” (i luddisti) hanno posizioni più consapevoli delle funzioni intrinseche della tecnologia.  Il termine luddista prende origine dal movimento nato nel Regno Unito durante i primi anni del 1800 che, preoccupato dagli impatti dei macchinari industriali sul lavoro degli artigiani, ha ingaggiato una lotta contro le fabbriche, accusandole di peggiorare le condizioni di vita.  Tanto all’epoca quanto oggi, i luddisti non sono refrattari alle tecnologie in quanto tali ma alle loro implicazioni. Il luddismo odierno è un movimento molto più complesso di quello che, nel XIX secolo, il governo britannico ha represso con la violenza e con leggi ad hoc. In sintesi, il meccanico comprende come funziona un sistema, mentre il luddista sa perché è stato costruito, a quali scopi serve e quando dovrebbe essere smantellato o distrutto. Entrambi i modelli, sostiene Sadowski, sono cruciali per una critica puntuale del tecno-capitalismo.  INTERVISTA CON L’AUTORE Abbiamo approfondito queste posizioni con l’autore del libro. Nel libro emerge un panorama in cui le tecnologie sono sempre più opache (il fenomeno della “scatola nera”), complesse e dominate da interessi aziendali e statali che limitano l’agire umano. Si tratta di uno sviluppo contemporaneo o di un modello ricorrente? “L’idea delle tecnologie come una ‘scatola nera’ esiste da tempo ed è stata a lungo rilevante. È un modello ricorrente nel modo in cui le tecnologie sono progettate e utilizzate. Una scatola nera in cui possiamo vedere gli input e gli output di una tecnologia, di un sistema o di un’organizzazione, ma non possiamo vedere o capire come la cosa effettivamente operi. Se mai, la scatola è diventata semplicemente più opaca col passare del tempo. Che si tratti di intelligenza artificiale o di strumenti finanziari, i meccanismi interni di questi sistemi, che hanno un enorme potere nella società, sono schermati da strati di opacità. Certo, questi sistemi astratti sono complessi, ma sono anche mistificati per design. Ci viene detto che solo pochi eletti sanno come sono stati creati, e ancora meno sanno come effettivamente funzionino. Il risultato è che alla grande maggioranza delle persone viene impedito di conquistare la posizione minacciosa di sapere come le cose funzionano, dire di no al modo in cui funzionano ora e poi pretendere che funzionino diversamente. Consideriamo un modello di machine learning che sta alla base di un sistema di AI. Ora non possiamo nemmeno vedere o comprendere gli input che entrano nel modello perché si tratta di dataset enormi raccolti tramite scraping automatico del web e altre forme di raccolta dati. Nessun essere umano ha mai effettivamente spulciato questi dataset nella loro interezza. Forse qualcuno ha visto solo parti dei dati, o ha solo un’idea generale di che tipo di dati siano inclusi nel dataset. Ma, funzionalmente, il dataset (o input nel sistema) è anch’esso una scatola nera. Le operazioni del modello di machine learning sono anch’esse ‘black-boxed’ poiché questi sistemi computazionali hanno strati nascosti di calcoli probabilistici in cui neppure il creatore della tecnologia sa esattamente cosa stia succedendo. Per di più, persino gli output di questi sistemi sono ora scatole nere: le decisioni prese da questi sistemi di AI e, le loro conseguenze sulla vita delle persone, sono nascoste alla vista del pubblico.  Un decennio fa (era il 2016, nda), il giurista Frank Pasquale scrisse un eccellente libro intitolato The Black Box Society in cui spiegava come le scatole nere si stiano moltiplicando nelle nostre vite grazie a modi tecnici, legali, politici e sociali. Le scatole nere mantengono nascoste le operazioni di questi sistemi.  Quindi, sebbene il fenomeno delle tecnologie a scatola nera sia un modello ricorrente, possiamo sempre più vedere come quelle scatole stanno ora diventando ancora più grandi, inglobando più parti del sistema”. Parliamo dei venture capitalist che plasmano il capitalismo tecnologico anche gonfiando in modo artificioso gli asset speculativi. Come possiamo spezzare questo ciclo dell’hype? Cosa servirebbe per orientare l’innovazione verso il benessere sociale piuttosto che verso l’accumulazione di capitale? “Le nostre aspettative sul futuro sono molto importanti per influenzare dove allocare le risorse e per modellare come e perché costruiamo le tecnologie. Le aspettative sono anche performative del futuro. Andrebbero pensate come prove generali per futuri potenziali che non sono ancora arrivati. Le nostre aspettative creano anticipazione riguardo al futuro e possono aiutare a motivare l’azione nel presente. È per questo che la Silicon Valley spende così tanto tempo e denaro cercando di modellare le nostre aspettative in modi molto specifici che si allineano ai loro desideri e favoriscono i loro interessi. Ecco cosa sono i cicli dell’hype: sono il business della gestione delle aspettative. Gli investimenti speculativi – come quelli che sono la specialità dei venture capitalist e degli imprenditori tecnologici – dipendono dall’hype, dal creare aspettative e motivare all’azione. Questa speculazione è un modo di ricavare valore e profitto da cose che non sono ancora accadute e che potrebbero non accadere mai. Il futuro potrebbe sempre non materializzarsi nel modo in cui la Silicon Valley lo immagina, ma proprio questa incertezza è un elemento cruciale della performance. Significa che la partecipazione del pubblico è necessaria. Nel mio libro chiamo questo il Tinkerbell Effect: le tecnologie speculative esistono solo se ci crediamo abbastanza e battiamo le mani abbastanza forte. Se smettiamo di crederci e smettiamo di applaudire, allora possono cominciare a svanire, diventando sempre più immateriali fino a sparire. Anche investire miliardi di dollari non garantisce la realizzazione di un sogno se le persone smettono di alimentarlo con la loro energia psichica. Gli esempi ci sono, si chiamano Metaverso (un ricordo lontano), Web3 oppure Google Glass (in realtà mai visti davvero sul mercato). Questa natura effimera dell’hype è anche un punto chiave di intervento. Attualmente, molti dei benefici della tecnologia avvengono in modo accidentale e ‘a cascata’. Il loro scopo principale è catturare mercati e creare profitti per grandi aziende. Ci viene detto che questo è l’unico modo possibile e che non dovremmo aspettarci nulla di diverso o migliore. Ma potremmo fare molta strada per orientare l’innovazione in direzioni diverse semplicemente avendo aspettative più alte su come le tecnologie vengono create e a quali scopi servono”. I dati tendono a ridurre le persone a oggetti. Questo processo, intrinseco ai sistemi di intelligenza artificiale, è oggi estremamente rilevante. Quali interventi politici e sociali ritiene necessari per garantire che le tecnologie basate sui dati vengano sviluppate in modi che rispettino la dignità umana? A suo avviso, quali aspetti del capitale umano dovrebbero rimanere al di fuori della portata della datificazione? “Le nuove tecnologie possono catturare quantità di dati così vaste da risultare incomprensibili, ma quei dati sul mondo resteranno sempre incompleti. Nessun sensore o sistema di scraping può assorbire e registrare dati su tutto. Ogni sensore, invece, è progettato per raccogliere dati su aspetti iper-specifici. Ciò può sembrare banale, come un termometro che può restituire un numero sulla temperatura, ma non può dirti che cosa si provi davvero con quel clima. Oppure può essere più significativo, come un algoritmo di riconoscimento facciale che può identificare la geometria di un volto, ma non può cogliere l’umanità soggettiva e il contesto sociale della persona. I dati non potranno mai rappresentare ogni fibra dell’essere di un individuo, né rendere conto di ogni sfumatura della sua vita complessa.  Ma non è questo lo scopo né il valore dei dati. Il punto è trasformare soggetti umani integrati in oggetti di dati frammentati. Infatti, ci sono sistemi che hanno l’obiettivo di conoscerci in modo inquietante e invasivo, di assemblare questi dati e usarli per alimentare algoritmi di targeting iper-personalizzati. Se questi sistemi non stanno cercando di comporre un nostro profilo completo e accurato possibile, allora qual è lo scopo? Ecco però un punto importante: chi estrae dati non si interessa a noi come individui isolati, ma come collettivi relazionali. I nostri modi di pensare la raccolta e l’analisi dei dati tendono a basarsi su idee molto dirette e individualistiche di sorveglianza e informazione.  Ma oggi dobbiamo aggiornare il nostro modo di pensare la datificazione – e le possibili forme di intervento sociopolitico in questi sistemi guidati dai dati – per includere ciò che la giurista Salomé Viljoen chiama ‘relazioni “orizzontali’, che non si collocano a livello individuale, ma a scala di popolazione. Si tratta di flussi di dati che collegano molte persone, scorrono attraverso le reti in modi tali che le fonti, i raccoglitori, gli utilizzatori e le conseguenze dei dati si mescolano in forme impossibili da tracciare se continuiamo a ragionare in termini di relazioni più dirette e individualistiche.  Nel libro spiego che questa realtà delle reti di dati orizzontali indebolisce l’efficacia di interventi troppo concentrati sulla scala dei diritti individuali, piuttosto che sulla giustizia collettiva. Se vogliamo salvaguardare la dignità umana contro la datificazione disumanizzante, allora possiamo farlo solo riconoscendo come i diritti e la sicurezza di tutti i gruppi siano interconnessi attraverso queste reti guidate dai dati. In altre parole, la dignità e la sicurezza di un gruppo di persone colpite da sorveglianza e automazione è legata alla dignità e alla sicurezza di tutte le persone all’interno di questi vasti sistemi sociotecnici che letteralmente connettono ciascuno di noi”. Nel libro esprime il concetto di “AI Potemkin” per descrivere l’illusione di un’automazione che in realtà nasconde enormi quantità di lavoro umano. Un inganno per utenti, investitori e opinione pubblica: che cosa è esattamente questa illusione? “Ci sono tantissime affermazioni altisonanti sulle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale. Ci viene fatto credere che queste tecnologie ‘intelligenti’ funzionino unicamente grazie ai loro enormi dataset e alle reti neurali.  In realtà, molte di queste tecnologie non funzionano – e non possono funzionare – nel modo in cui i loro sostenitori dichiarano. La tecnologia non è abbastanza avanzata. Al contrario, molti sistemi dipendono pesantemente dal lavoro umano per colmare le lacune delle loro capacità. In altre parole, il lavoro cognitivo che è essenziale per queste presunte macchine pensanti, proviene in realtà da uffici pieni di lavoratori (mal retribuiti) in popolari destinazioni di outsourcing come le Filippine, l’India o il Kenya. Ci sono stati diversi esempi di alto profilo, come la startup Builder.AI, che affermava di automatizzare il processo di creazione di app e siti web. Un’indagine ha rivelato che il sofisticato ‘sistema di AI’ della startup sostenuta da Microsoft e valutata 1,5 miliardi di dollari  era in realtà alimentato da centinaia di ingegneri software in India, istruiti a fingersi l’AI della società quando interagivano con i clienti. Esempi come questo sono così frequenti che ho coniato il termine AI Potemkin per descriverli. Potemkin si riferisce a una facciata progettata per nascondere la realtà di una situazione (da il villaggio Potemkin, ndr). L’AI Potemkin è collegata al concetto di ‘black boxing’, ma spinge l’occultamento fino alla vera e propria ingannevolezza. Lo scopo non è solo nascondere la realtà, ma mentire sulla realtà delle capacità di una tecnologia, per poter affermare che un sistema sia più potente e prezioso di quanto non sia in realtà. Invece di riconoscere e valorizzare pienamente il lavoro umano, da cui queste tecnologie dipendono, le aziende possono continuare a ignorare e svalutare i componenti umani indispensabili dei loro sistemi. Con così tanti soldi e così poco scetticismo che vengono pompati nel settore tecnologico, l’inganno dell’AI Potemkin continua a crescere a ogni nuovo ciclo di hype della Silicon Valley”. Per concludere, il capitale può eliminare il lavoro umano senza finire, alla lunga, per distruggere sé stesso? “Il capitalismo è un sistema definito da molte contraddizioni che minacciano costantemente di distruggerne le fondamenta e lo gettano di continuo in cicli di crisi. Una contraddizione importante che individuo nel libro è la ricerca del capitale di costruire quella che chiamo la ‘macchina del valore perpetuo’. In breve, questa macchina sarebbe un modo per creare e catturare una quantità infinita di plusvalore senza dover dipendere dal lavoro umano per produrlo. Il capitale persegue questa ricerca da centinaia di anni. Ha motivato enormi quantità di investimenti e innovazioni, nonostante non si sia mai avvicinato a realizzare davvero il sogno di produrre plusvalore senza le persone. Ciò che rende questa una contraddizione è il fatto che gli esseri umani non sono una componente accessoria della produzione di valore; il lavoro umano è parte integrante della produzione di plusvalore. L’AI è l’ultimo – e forse il più grande – tentativo di creare finalmente una macchina del valore perpetuo. Gran parte del discorso sull’automazione, e ora sull’intelligenza artificiale, si concentra sulle affermazioni secondo cui il lavoro umano verrà sostituito da lavoratori robotici, con l’assunzione che si tratti di una sostituzione diretta dei corpi organici con sistemi artificiali, entrambi intenti a fare esattamente la stessa cosa, solo in modi diversi e con intensità diverse. Tuttavia, a un livello fondamentale, l’idea di una macchina del valore perpetuo non può riuscire, perché si basa su un fraintendimento del rapporto tra la produzione di valore e il funzionamento della tecnologia. Il capitale equipara una relazione – gli esseri umani che usano strumenti per produrre valore – a un’altra relazione completamente diversa: gli strumenti che producono valore (con o senza esseri umani). Dal punto di vista del capitale, il problema degli esseri umani è che non sono macchine. Aziende come Amazon non vogliono rinunciare alla fantasia di una macchina del valore perpetuo, ma sanno anche che ci sono molte più alternative che sostituire direttamente gli uomini con le macchine: si possono anche gestire i lavoratori tramite le macchine, renderli subordinati alle macchine e, in ultima analisi, farli diventare sempre più simili a macchine. Questo è un punto cruciale per ripensare il potere dell’AI per il capitalismo e per capire perché le aziende stanno riversando più di mille miliardi di dollari nella costruzione dell’AI. Ai loro occhi, il futuro del capitalismo dipende dall’uso dell’AI per sostituire gli esseri umani come unica fonte di plusvalore o, se questo obiettivo fallisse, dall’obbligare i lavoratori a trasformarsi in oggetti, semplici estensioni delle macchine, costringendo le persone a diventare sempre più meccaniche nel modo in cui lavorano e vivono”. L'articolo “Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo proviene da Guerre di Rete.
Politica, identità e migrazione: intervista a un migrante curdo in Italia
Quella che segue è un’intervista di qualche mese fa a un ragazzo di origine curda, attualmente richiedente asilo in Italia. 18 anni appena compiuti, lavoro in nero da poco trasformato a tempo determinato, una passione per l’impegno politico (maturata nel paese d’origine e che lui stesso ci tiene a lasciare indefinita, ma comunque a non chiamarla assolutamente “militanza”). La storia di questo ragazzo curdo si presenta quindi come un racconto stratificato. Ma più da vicino: la storia di una crescita e di una maturazione individuale, intersecata indissolubilmente alla consapevolezza e alla traduzione nel pratico e nel quotidiano dei risvolti sociali, culturali e politici che hanno visto come protagonista il popolo curdo. All’interno di questa storia personale, si trova dunque un piccolo pezzo della storia di un preciso gruppo socio-culturale. Ma più nello specifico: la sua lotta per l’indipendenza dalla Turchia e nel suo passaggio intermedio, il suo tentativo di vedersi riconosciuto e rappresentato democraticamente nella Grande Assemblea Nazionale (il Parlamento turco che ha sede ad Ankara). Senza dimenticare ovviamente anche i collegamenti con altre minoranze curde che insistono sulla stessa zona geografica e transnazionale come, ad esempio, quella curdo-siriana, prepotentemente emersa sullo scenario geopolitico durante la Guerra civile del 2011 e che ha dato vita a esperienze di lotta armata come le YPG, le Unità di Difesa del Popolo, attive nella zona di Kobane e non solo. Per intenderci, a meno di 150 km da dove si colloca l’inizio di questa storia. Ben lontano da forme caricaturali di rappresentazione di questa identità storica, politica e culturale, la storia di questo ragazzo turco-curdo è quindi la narrazione di chi, per affermare se stesso, si è trovato – e si trova – quotidianamente costretto a combattere. Non solo come giovane migrante ma anche e soprattutto, a partire dai primi anni di scuola, dalle prime esperienze di vita e quindi, dalla prima infanzia vissuta in Turchia; ovvero da ben prima di riconoscersi in una precisa parte politica, come nel suo caso, nel HDP (Partito Democratico dei Popoli), i cui leader sono stati arrestati (fuori da qualsiasi forma di confronto democratico con il governo turco) nel novembre 2016, con il pretesto di un attacco bomba di fronte alla sede della polizia della città di Diyarbakir, nel sud-est del paese, ovvero la parte a predominanza curda della Turchia. Raccolta in una singola intervista (sicuramente troppo breve e personale per potersi dire rappresentativa dell’intera situazione), la storia di questo ragazzo è dunque la storia di chi, per sopravvivere come curdo, non può far altro che vedersi e raccontarsi “dal basso”, innanzitutto come un piccolo pezzo di un quadro culturale, politico ed economico, enormemente più grande e complesso. Per cominciare questa intervista, ti va di presentarti? Mi chiamo Berat e sono nato nel 2007 in un piccolo villaggio a circa 100 km dal confine tra la Turchia e la Siria. Il mio villaggio d’origine si chiama Sadakalar e si trova precisamente nella Turchia centro-orientale. Sono nato in un villaggio curdo ma rimasto lì poco perché, quando avevo circa due anni, assieme alla mia famiglia mi sono trasferito a Pazarcik: una città molto più grande a circa 25 km dal mio villaggio d’origine. Com’è la vita di un giovane ragazzo curdo in Italia? Come sai, tante persone curde che sono in nord Italia come me, provengono da lì. Da quella stessa zona della Turchia. Per farti capire, ho addirittura dei parenti stretti che vivono nei dintorni di dove abito adesso. In un certo senso, è come se un pezzo di Kurdistan fosse venuto via con me. Per il resto, in Italia ho trovato lavoro quasi subito. E in generale devo dire che mi trovo abbastanza bene. Se un pezzo di Kurdistan è venuto via con te, cosa significa per te essere curdo? Per quanto mi riguarda, la cultura curda significa calore, famiglia, vicinanza. La mia identità ovviamente è anche legata tantissimo alla mia prima lingua, il curdo appunto. Mia nonna, ad esempio, non parla turco e non l’ha mai parlato, parla solo curdo. Però a Pazarcik, se vai all’ospedale oppure durante le lezioni a scuola, devi parlare per forza turco. E questo è un problema perché nel caso dell’ospedale, potresti anche non essere curato. O perlomeno, non bene. Sicuramente non con la stessa assistenza che riceverebbe una persona di origine turca. La cultura e l’identità curda non vengono accettate in Turchia? Hai voglia di dirmi meglio che significa questa cosa? Lo Stato turco non riconosce il Kurdistan, figuriamoci i curdi che sono circa 60 milioni, sparpagliati in tutta la zona. Per noi, il Kurdistan, invece esiste, è una realtà. E vivere dentro questa realtà, è come essere sempre considerati cittadini di seconda categoria perché come ti dicevo, la nostra identità, in Turchia, non viene assolutamente riconosciuta. Anzi, spesso è una cosa che ti porti dietro con grande fatica e sofferenza perché è come se una parte di te non potesse mai davvero esistere. Ma c’è, e la popolazione curda ne è la prova vivente. Questa cosa succede solo in Turchia o anche altrove? Questa cosa purtroppo, non succede solo in Turchia. Anche all’estero è la stessa cosa. Ti faccio un esempio: l’anno scorso, in una città in Germania, una cantante di origine curda è stata aggredita da una passante turca perché la lingua curda la stava offendendo. E quindi, quella signora turca l’ha aggredita in mezzo alla strada. E questo è solo un esempio, potrei fartene altri che mi riguardano più da vicino ma preferisco non farlo. Ti va di raccontarmi qualcosa legato a questa situazione? Le due popolazioni in Turchia vivono praticamente separate. Per farti capire meglio, durante la mia infanzia tutti i miei amici erano curdi oppure aleviti [corrente mussulmana di derivazione sciita, nda] che solitamente sono un po’ più aperti. Di mentalità ma non solo, anche di pensiero politico, che è praticamente opposto a quello dei nazionalisti turchi che governano il paese. In Turchia quindi vivete separati? Turchi da una parte e curdi dall’altra? Ovviamente nelle città più grandi non si può far altro che mischiarsi, ma la tendenza è quella di vivere separati. E questo, a volte, può essere un grosso problema. Non ho bisogno di spiegarti perché, puoi capirlo facilmente da solo. Dal punto di vista personale, tu come hai vissuto questa separazione? Quando ero bambino a Pazarcik, mi capitava spesso che altri bambini turchi mi prendessero in giro e mi dicessero che dovevo andarmene via perché la mia famiglia era curda. Ad esempio, anche sul lavoro, in una fabbrica dove ho lavorato per qualche mese, venivano considerati di più i turchi. Nel senso che le nostre opinioni, come lavoratori di origine curda, non erano minimamente prese in considerazione. Hai voglia di raccontarmi un evento in particolare? Durante un turno di lavoro, una volta mi ricordo di aver parlato apertamente a favore del partito filo-curdo HDP (Partito Democratico dei Popoli). In quell’occasione, ero stato immediatamente avvertito da un collega curdo che per quella cosa, mi avrebbero potuto licenziare. Ed era meglio non farlo più, soprattutto se avessi voluto mantenere il mio lavoro e non passare dei guai. In pratica, non ero libero di esprimere apertamente il mio pensiero politico. Perché era meglio non farlo? Per farti capire meglio, il capo di questo Partito di cui stavo parlando si chiama Selahattin Demirtaş ed è stato messo in prigione nel novembre del 2016 perché stava avendo un grande successo tra i curdi (e non solo, anche tra i turchi aveva tanti elettori). C’era molta speranza e come avrai capito, anche io ero un suo sostenitore. Tuttavia, a seguito di una serie di attacchi da parte del governo, ha dovuto lasciare il suo incarico. Perché ha dovuto lasciare la politica? L’hanno incolpato di supportare le rivolte in Rojava, soprattutto quella di Kobane durante la fine dell’estate 2014. In più, c’è stata una serie di attacchi bomba a Istanbul e in tutta la Turchia, per i quali hanno incolpato direttamente i curdi. Per molto tempo c’è stato un clima di forte tensione. Adesso chi guida il Partito Democratico dei Popoli è la moglie Başak, che continua il lavoro di suo marito di rappresentanza del popolo curdo. Tu cosa ne pensi della decisione del PKK di proporre allo stato turco il “cessate il fuoco”? Rispetto a quello che è successo all’interno del PKK, per prima cosa ti devo dire che Öcalan non è più la figura centrale e c’è tanta gente che non è d’accordo con lui. Per questo motivo, non credo che deporre le armi sia la cosa che vogliono fare tutti. Sicuramente dopo l’arresto del sindaco di Istanbul e il tentativo di colpo di stato del 2016, che ha causato una grossa mobilitazione politica e una repressione violenta da parte della polizia, molti curdi possono aver pensato che l’opposizione turca (ad esempio quella che sosteneva il sindaco arrestato dalla polizia di Erdoğan) poteva essere un alleato. Ma io non credo. In queste cose, credo si debba essere più realisti e guardare i fatti. Tu hai mai partecipato a manifestazioni di protesta? Dal punto di vista della mia partecipazione personale, Pazarcik era una città piccola per cui le proteste non erano così grosse. Sicuramente nelle città più popolose il movimento di protesta curdo è molto più forte e sicuramente più organizzato di quanto non lo fosse nella città dove vivevo. Torno un attimo sulla differenza tra curdi e turchi. Hai voglia di approfondire questo tema? Rispetto alla differenza tra un curdo e un turco, quello che ti posso dire è che molte volte non te ne rendi neanche conto. Nel senso che non ci fai davvero caso, se uno è turco e un altro è curdo. Magari te ne accorgi dall’accento, dal genere musicale che ascolti, oppure anche dal modo di vestire, soprattutto durante i matrimoni; ad esempio. I vestiti tradizionali curdi sono più legati ad altri paesi dell’Asia centro meridionale, come ad esempio l’Afghanistan. Quelli turchi invece, solitamente sono più occidentali. Durante le celebrazioni cerimoniali quindi, è più facile. Ma credimi, nella vita di tutti i giorni è quasi sempre impossibile distinguere un curdo da un turco. Come mai hai parlato proprio di matrimoni? La questione dei matrimoni è molto forte nella cultura curda perché è ancora la famiglia che organizza il matrimonio. Tra l’altro, il legame di sangue tra i due sposi è dato per scontato. Nel senso che ci si sposa quasi sempre con un parente. Anche lontano, ma comunque l’importante è che faccia parte della famiglia allargata. Come ragazzo curdo, te lo dico: questa secondo me, culturalmente parlando, è una delle cose che sono rimaste di più e che rimarrà più a lungo. Adesso cambiamo argomento. Che lavori hai fatto prima di arrivare in Italia? Dal punto di vista del lavoro, i curdi sono impegnati soprattutto nei lavori manuali, quelli più faticosi e che vengono pagati meno in fabbrica oppure in agricoltura. Entrambi lavori che ho già fatto in passato. Ma adesso, con la migrazione di massa, molti curdi come me si sono spostati per raggiungere luoghi dove possono vivere in condizioni migliori. Anche il terremoto del 2023 è stata una forte causa di migrazione, soprattutto per i più giovani che si sono trovati senza un futuro, se non quello dello sfruttamento. Pensi che la migrazione avrà degli effetti sulla tua appartenenza culturale? Se devo pensare alla mia appartenenza alla cultura curda, devo dire che probabilmente sono uno degli ultimi che la vedrà ancora. Già i miei fratelli più piccoli non parlano curdo ed è molto probabile non lo impareranno mai. L’impressione che mi sono fatto è che, per quanto riguarda la mia famiglia, la cultura curda sia destinata a scomparire. A pensarci bene, devo dire che la cosa mi rende molto triste, ma la verità è che nella nostra vita quotidiana l’identità curda è molto spezzettata. Come ti dicevo, in casa i più piccoli parlano solo turco. Solo io, i miei genitori e il fratello più grande continuiamo a parlare curdo ma lo facciamo tra di noi. Hai ancora contatti con persone curde che vivono in Turchia? Quando mi capita di telefonare ai pochi amici che sono rimasti a Pazarcik non parliamo quasi mai di politica perché preferiamo parlare di altro. Questioni un po’ più materiali come, ad esempio, il lavoro. Discutiamo tanto anche della crisi economica che c’è adesso in Turchia perché quella che vivono i ragazzi della mia generazione è una situazione difficilissima. Le persone che sono rimaste dopo il terremoto stanno veramente soffrendo molto. Per noi curdi è un momento difficile ed è anche difficile ribellarsi e protestare per far valere i propri diritti. Per cui, ecco, la situazione è molto problematica. E rispetto a quelli che sono migrati in Europa? Per il resto dei miei amici che sono emigrati in Europa (soprattutto Germania, Italia e Inghilterra), l’identità curda rimane attiva principalmente attraverso celebrazioni religiose e racconti del passato. La verità è che c’è molta voglia di integrarsi e di migliorare le proprie condizioni di vita. I ragazzi della mia generazione tendenzialmente vorrebbero rimanere in Europa, sopratutto quelli che sono arrivati con tutta la loro famiglia. Quelli che invece sono arrivati in Europa da soli, è più facile che vogliano ritornare in Turchia, un domani non lontano. Il motivo è che fanno molto più fatica ad avere una vita stabile e tranquilla, soprattutto con i documenti che sono molto difficili da ottenere. Hai voglia di condividere cosa pensi rispetto al tuo futuro? Sinceramente non troppa. Come sai bene, preferisco pensare al presente. Ti ringrazio per l’intervista. In bocca al lupo. Grazie a te. L’immagine di copertina è di Milos Skakal SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Politica, identità e migrazione: intervista a un migrante curdo in Italia proviene da DINAMOpress.