Manal Tamimi: «Finché ci sarà l’occupazione, non ci sarà la pace»
Nabi Saleh è un villaggio di circa seicento abitanti nel cuore della
Cisgiordania, occupata da Israele dal 1967. Le sue case sorgono su una collina
circondata da uliveti, ma le risorse naturali sono da tempo sotto minaccia: nel
2009 i coloni del vicino insediamento israeliano si impossessarono di una delle
principali sorgenti d’acqua, dopo che già due terzi delle terre erano stati
confiscati. In risposta, il 9 dicembre di quell’anno gli abitanti organizzarono
la prima di una serie di manifestazioni settimanali che da allora, ogni venerdì,
continuano a svolgersi nonostante la repressione. Sin dall’inizio le donne hanno
avuto un ruolo centrale, partecipando alle decisioni e all’organizzazione delle
azioni dentro e fuori il villaggio.
Figura di riferimento di questo percorso è Manal Tamimi, attivista e membro del
Popular Struggle Coordination Committee (PSCC). La repressione ha inciso
profondamente anche sulla sua vita: è stata arrestata quattro volte e più volte
ferita; due dei suoi figli, Osama e Mohammed, hanno trascorso lunghi periodi in
prigione, dove hanno subito torture fisiche e psicologiche.
Dal suo intreccio di biografia e lotta collettiva prende forma un racconto che,
a partire dalla stagione della raccolta delle olive – rito antico che oggi si
compie all’ombra della violenza e delle confische – si allarga alla memoria, al
ruolo delle donne e alla sua esperienza di madre e attivista sotto occupazione.
Il testo che segue raccoglie le sue parole dirette, tratte da una lunga
conversazione avvenuta a distanza: da qui in avanti è la voce di Manal a
parlare.
CUSTODIRE LA TERRA
Quest’anno la raccolta delle olive è tra le più dure e violente che ricordiamo.
Eppure non sarebbe nemmeno un vero anno di produzione: in Palestina gli ulivi
seguono un ciclo biennale, un anno ricco e quello successivo quasi sterile.
Abbiamo deciso comunque di portare avanti la campagna, perché non è solo un
raccolto: è un atto di resistenza. Questa è terra palestinese, e i suoi
proprietari hanno il diritto di coltivarla e custodirla. I coloni non hanno
alcun titolo per occuparla.
> Dopo il 7 ottobre è cresciuta la pressione di una pratica nota come
> sheepwashing: coloni-pastori che, portando greggi di pecore, capre o mucche,
> occupano vaste aree di terreno. Così intere porzioni, anche di dieci
> chilometri quadrati, vengono trasformate in pascoli esclusivi, impedendo ai
> legittimi proprietari palestinesi di accedere ai loro campi.
In questa cornice di violenza si inseriscono anche le campagne di solidarietà.
La più ampia è Zaytoun25, una piattaforma che unisce istituzioni palestinesi
–come la Commissione per la Resistenza alla Colonizzazione e alla Guerra, dove
lavoro, il Ministero dell’Agricoltura e altri enti – con organizzazioni di base
come, ad esempio, la rete dei i comitati popolari e l’ISM, l’International
Solidarity Movement. Esistono anche iniziative indipendenti: Faz3a, alla quale
partecipo come volontaria. Nelle colline a sud di Hebron opera inoltre
l’organizzazione italiana Operazione colomba. Quando c’è un’attività sotto
l’ombrello di Zaytoun 25 partecipiamo tutti insieme; negli altri giorni ciascuno
segue la propria campagna. Così riusciamo a coprire il maggior numero possibile
di villaggi e campi, soprattutto quelli più esposti agli attacchi dei coloni.
TESTIMONIANZE E RESISTENZE
Nel nostro villaggio abbiamo scelto la resistenza nonviolenta dal 2009, ma la
partecipazione alla lotta palestinese è cominciata molto prima. Già nel 1976,
quando gli israeliani si impossessarono di un’ex-stazione di polizia britannica
trasformandola in parte dell’insediamento oggi chiamato Halamish, ebbero inizio
le confische. Da allora circa due terzi delle terre del villaggio sono stati
espropriati con vari pretesti.
Dal 1976 a oggi abbiamo perso 29 persone del villaggio. Sono questi i ricordi
peggiori: l’assassinio dei miei cugini, Rushdi Tamimi e Mustafa Tamimi. E poi “i
due Mohammed”: uno aveva quindici anni, l’altro era solo un bambino di due anni.
Tutto questo è avvenuto davanti ai nostri occhi. Nabi Saleh è piccolissimo, e in
fondo siamo tutti parte di un’unica famiglia: quando succede qualcosa, l’intero
villaggio è presente, tutti assistono, tutti sono testimoni.
Tra i miei ricordi peggiori, ci sono le innumerevoli incursioni notturne, o il
giorno in cui i soldati picchiarono mia madre, che al tempo aveva 67 anni. Fu un
ragazzo armato di appena vent’anni a colpirla.
Questi ricordi sono dolorosissimi, ma al tempo stesso sono diventati una spinta
per non arrenderci.
FERITE E LEGAMI: ESSERE ATTIVISTA, ESSERE MADRE
Ho tre figli maschi e una figlia. Essere al tempo stesso madre e attivista è
forse la sfida più dura. Da bambina vedevo i miei familiari resistere: alcuni
sono stati uccisi, altri hanno trascorso anni in prigione, altri ancora sono
stati costretti all’esilio. In quell’atmosfera l’attivismo non era una scelta,
ma un destino quasi inevitabile. Anch’io iniziai presto: ospitavamo i
combattenti, aiutavamo chi era in fuga. Durante la Prima Intifada arrivai
persino ad attraversare la frontiera con la Giordania per incontrare i leader in
esilio e riportare informazioni in Palestina. Quella era la mia vita, e mi
sembrava naturale, perché la responsabilità ricadeva solo su di me.
Con i figli è iniziato il vero conflitto interiore: proteggerli dal cammino che
avevo scelto o crescerli dentro quella stessa lotta? Alla fine capisci che
l’occupazione non colpisce solo chi resiste apertamente, ma ogni Palestinese.
Così abbiamo cominciato a insegnare loro, sin da piccoli, che la Palestina ha
bisogno di sacrificio.
Puoi prepararti al peggio, ma quando quel momento si presenta, tutto crolla.
Sono stata arrestata tre volte, ferita due, minacciata di morte. Una volta mi
dissero che mi avrebbero uccisa e, dieci minuti dopo, un cecchino sparò contro
di me: sarei potuta morire quel giorno. Ma nulla si avvicina al dolore di vedere
i propri figli arrestati e sapere che sono in prigione. Quando mio figlio Osama
fu catturato, l’avvocata mi informò che era stato portato in ospedale in seguito
alle torture subite. Una settimana dopo ricevetti un’altra chiamata: ancora in
ospedale, ancora per torture. Mio figlio Mohammed, invece, subì abusi
psicologici così gravi da perdere la memoria: non riconosceva più né me né sua
nonna.
In quei momenti mi sentivo una madre terribile. Mi chiedevo perché avessi messo
al mondo dei figli destinati alla sofferenza. Perché li avessi educati alla
resistenza. Non sarebbe stato meglio tenerli lontani da tutto questo? Ogni
giorno dormivo nei loro letti, cercando di riempire quei vuoti con un po’ del
mio amore. Durante il Ramadan apparecchiavo due piatti vuoti con due sedie,
cucinavo i loro piatti preferiti come se fossero lì, poi sparecchiavo e
ordinavo. Lavavo persino i loro vestiti, pur sapendo che non li avrebbero
indossati.
Questi episodi risalgono al 2017, eppure ogni volta che ne parlo rivivo lo
stesso dolore.
DONNE DI PALESTINA: TRA L’INTIFADA E NABI SALEH
La Prima Intifada fu una sollevazione popolare che coinvolse l’intera società
palestinese: tutte le forze politiche e la popolazione vi presero parte, e le
donne emersero come protagoniste, assumendo ruoli di guida sia nella comunità
sia sul campo. Molte furono imprigionate o uccise; contribuirono in ogni modo:
azioni dirette, primo soccorso, interventi per impedire arresti. In un attimo
decine di donne si mobilitavano per affrontare i soldati, aiutare gli uomini a
scappare; erano pronte a sacrificarsi pur di non lasciare che i soldati
arrestassero qualcuno.
Dopo gli accordi di Oslo, iniziò un processo di frammentazione che mirava a
indebolire la resistenza. In Palestina sorsero numerose ONG, sostenute da fondi
internazionali spesso condizionati. Molte donne che avevano avuto un ruolo
attivo nella Prima Intifada vi confluirono, perdendo progressivamente la
centralità politica conquistata nella lotta.
Con la Seconda Intifada, segnata da una dimensione prevalentemente militare, lo
spazio per le donne si ridusse ulteriormente: poche potevano imbracciare le armi
e molte leader, ormai legate al sistema dei finanziamenti esterni, temevano di
perderli partecipando alla resistenza. Così persero anche parte dell’influenza
acquisita. Fu solo nel 2005, con la nascita del movimento di resistenza
nonviolenta, che le donne ritrovarono la possibilità di partecipare attivamente,
recuperando un ruolo significativo all’interno della lotta.
A Nabi Saleh il ruolo delle donne è sempre stato centrale ed è proprio per
questo che siamo state prese di mira. Qualche tempo fa, sul Channel 14 –
un’emittente israeliana dei coloni – si è affermato che le donne di Nabi Saleh
dovrebbero essere eliminate con la violenza, perché rappresentano un modello per
le altre. La loro partecipazione, infatti, quando cresce, diventa sempre più
difficile da controllare. Così hanno cominciato a colpirci: circa quindici donne
sono state arrestate, molte decine ferite, e una è stata resa invalida per le
gravi lesioni subite.
UN PROCESSO SENZA PACE
Finché c’è occupazione, finché esistono oppressore e oppresso, non c’è pace.
Finché migliaia di palestinesi sono in carcere, soggetti a pulizia etnica
quotidiana, finché esistono rifugiati palestinesi all’estero cui è negato il
ritorno in Palestina non c’è pace. È lo stesso discorso per Gaza: si può parlare
di cessate il fuoco o di “ritorno alla normalità”, ma se poi continua il
genocidio e nulla cambia davvero, allora di che pace stiamo parlando?
Dall’Accordo di Oslo in poi l’oppressione non si è mai interrotta: violenza,
pulizia etnica, soprusi. Nulla è davvero cambiato. Le autorità palestinesi hanno
assunto parte della gestione, ma restano spesso paralizzate, schiacciate da un
lato dall’occupazione e dall’altro dalla dipendenza da finanziamenti occidentali
vincolati. Anche nelle scuole ci sono limitazioni: non possiamo mettere il nome
“Palestina” sui libri di testo, non possiamo parlare di Arafat, non possiamo
parlare di resistenza, di insediamenti, delle aree A, B e C. Perfino le cose più
elementari sono vietate.
> E restano le contraddizioni: si parla ancora della soluzione dei due Stati,
> mentre i palestinesi controllano ormai meno del 4% della Palestina storica.
> Come si può costruire uno Stato su quella porzione? Non è neppure un
> territorio unico: è frammentato da strade dei coloni, insediamenti, cancelli
> ai varchi dei villaggi.
Non possiamo avere un aeroporto, un porto; non possiamo andare a Gaza, né
avvicinarci alla moschea di Al-Aqsa; non possiamo visitare i territori del 1948
e il mare, che dista venti minuti da casa nostra. Quale pace, quale “due Stati”,
vengono evocati nei discorsi ufficiali all’ONU o nei parlamenti? Devono smettere
di parlare di processi di pace fintanto che non ci sia un cambiamento reale sul
territorio: fermare il genocidio, fermare la pulizia etnica, fermare la violenza
dei coloni, rimuovere gli insediamenti in Cisgiordania, garantire la libertà di
movimento e un’autonomia reale. Altrimenti ogni discorso di “riconciliazione” è
vago e privo di senso.
Assistiamo a cessate il fuoco su Gaza sottoscritti da molte parti, perfino dagli
Stati Uniti, che si presentano come garanti con l’autorità di fermare il
genocidio. Eppure Israele continua a violarli quotidianamente; ogni giorno
vediamo Palestinesi uccisi a Gaza e in Cisgiordania. Le aggressioni dei coloni e
gli insediamenti sono illegali secondo il diritto internazionale, ma quando
figure come Ben-Gvir dichiarano che il diritto internazionale non si applica a
Israele – che vale solo il “loro diritto” – tutto il quadro internazionale viene
smentito. In questo scenario non vediamo nessuno che abbia il coraggio di
applicare il diritto internazionale, né di liberare prigionieri come Marwan
Barghouti, leader palestinese considerato tale da milioni di persone. Di quale
pace stiamo parlando, allora?
CON LA PALESTINA, OLTRE LA PALESTINA
La solidarietà internazionale ci dà speranza. Ci dà forza, ci fa sentire che non
siamo soli, ma parte di una comunità umana più grande. Quando vediamo milioni di
persone in strada che gridano per la Palestina, che chiedono i nostri diritti,
capiamo che non siamo abbandonati. Penso, ad esempio, alla Flotilla: centinaia
di attivisti hanno messo a rischio la loro vita. Hanno accettato quel rischio
per la Palestina, così come noi lo affrontiamo ogni giorno. A volte ci sentiamo
persino noi in dovere di sostenere gli attivisti internazionali, non solo il
contrario.
Tuttavia, resta una contraddizione enorme. Non basta scendere in piazza con
cartelli e bandiere se poi, alle elezioni, si scelgono governi di destra,
filo-israeliani, o addirittura fascisti. È un paradosso: come puoi manifestare
per la libertà di un popolo e poi dare il voto a chi sostiene la sua
oppressione? Io spero che un giorno queste moltitudini, che oggi gridano per la
Palestina, trasformino quella energia in cambiamento politico, eleggendo leader
che non siano solo pro-Palestina, ma pro-umanità.
La copertina è di Manal Tamimi
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