Gli ulivi non muoiono in silenzio
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“Siamo le olive e gli alberi delle olive.
Quando ci sparano,
non moriamo,
cresciamo nei cuori.
Quando ci strappano la terra,
ci aggrappiamo alle radici,
e la terra ci risponde con la voce degli ulivi.
Non siamo ospiti qui,
siamo la terra stessa che resiste“
(Mahmoud Darwish)
Ci sono alberi che crescono in fretta, che fioriscono e sfioriscono nel giro di
una stagione. E poi c’è l’ulivo. L’ulivo non ha fretta. Sa che il tempo non si
misura in anni, ma in generazioni: chi lo pianta non lo fa per sé, ma per i
figli, per i nipoti, per chi verrà dopo. È un gesto di fiducia nel futuro.
In Palestina, dove ogni lembo di terra è attraversato da ferite e memoria,
l’ulivo è più di un albero: è una radice che tiene salda l’identità. “L’ulivo è
la preghiera della terra”, scrive Elias Sanbar. Un mormorio antico, che resiste
anche quando tutto intorno si spezza, una memoria che respira.
Gli ulivi punteggiano le colline di Jenin, di Nablus, di Betlemme. Alcuni hanno
secoli, altri più di un millennio.
Ogni famiglia custodisce i propri alberi come si custodisce una storia: con
affetto, con cura, con rispetto. Raccontano di raccolti, di mani che intrecciano
rami, di bambini che imparano a conoscere la terra guardando i nonni chinarsi
tra le foglie.
Nel cuore delle colline di Nablus, a Jenin, nei villaggi intorno a Hebron, le
donne raccolgono i frutti con le dita umide d’olio e d’attesa. L’olio che ne
nasce non è solo alimento: è luce, è rito, è dote, è preghiera. Si unge il pane,
si unge il neonato. Si unge la morte.
Ogni famiglia palestinese custodisce l’olio in ampolle come si conserva il
sangue degli avi. E quando si parte, si porta con sé un piccolo flacone, come un
pezzo di casa.
“Se la terra palestinese avesse voce, parlerebbe con la lingua dell’ulivo”,
scrive Mahmoud Darwish.
Ma da anni ormai, gli ulivi vengono abbattuti. A decine, a centinaia, a
migliaia. Le motoseghe arrivano all’alba, accompagnate da ruspe e soldati. I
coloni scendono dalle colline armati di fiamme e silenzi. A volte è il Muro a
decidere. A volte una strada “di sicurezza”. A volte il puro arbitrio. Solo tra
il 2020 e il 2023, secondo le Nazioni Unite, oltre 35.000 ulivi palestinesi sono
stati sradicati. Dal 1967, più di 800.000 alberi sono stati distrutti, come se
si potesse cancellare la terra togliendole le radici.
A Burin, una mattina di ottobre, il vecchio Salem torna a guardare la collina
dove aveva piantato i suoi ulivi cinquant’anni fa. Li aveva chiamati uno a uno
con i nomi dei suoi figli. Trova solo ceppi anneriti, rami spezzati, olio
disperso nella polvere. “Non hanno tagliato alberi, hanno tagliato la mia lingua
– mormora – Perché non so più come spiegare ai miei nipoti chi siamo”.
A Al-Walaja, vicino a Betlemme, per costruire il Muro sono stati abbattuti più
di 1.300 ulivi. Alcuni, secolari, sono stati trapiantati altrove: nei giardini
delle città israeliane. Usati come decorazione. Come trofei di una conquista.
È una guerra che non fa rumore, ma colpisce al cuore. Perché l’ulivo dice una
sola cosa, semplice e irriducibile: “Io sono qui da sempre. E da sempre curo
questa terra”. Per questo gli ulivi vengono presi di mira. Perché parlano, senza
bisogno di parole.
A Yanun, nel distretto di Nablus, i contadini ogni anno tornano a piantare nuovi
alberelli. Sanno che non daranno frutto subito. Sanno che potrebbero essere
bruciati, spezzati. Ma piantano lo stesso. Come atto di fede. Come gesto
d’amore. Come resistenza.
In una testimonianza raccolta da B’Tselem, un contadino dice: “Quando pianto un
ulivo, non penso a me. Penso a mio figlio. E al figlio di mio figlio. Se anche
lo sradicheranno, loro sapranno che noi c’eravamo”.
Gli ulivi non muoiono in silenzio. Scricchiolano sotto i colpi, si spezzano con
un suono che assomiglia a un grido. E il loro odore di resina bruciata resta
nell’aria per giorni. Chi passa di lì lo respira, come si respira un lutto. “Se
l’ulivo sapesse chi lo ha piantato – ha scritto Mahmoud Darwish -, il suo olio
diventerebbe lacrime”.
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> L’ipocrisia dei “riconoscimenti” dello stato di Palestina
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