Tag - Gemma Martini

Salute e genere nella migrazione: vulnerabilità costruite
Le donne rappresentano circa la metà della popolazione migrante a livello globale, eppure l’immigrazione femminile continua ad essere meno approfondita rispetto a quella maschile, pur presentando vulnerabilità specifiche legate alla condizione di genere.  Tali vulnerabilità, spesso evocate dalle istituzioni, vengono raramente descritte per quello che sono realmente: la vulnerabilità non è una condizione ontologica, ma il risultato concreto di politiche escludenti, leggi inadeguate e servizi inefficienti. La combinazione di discriminazione intersezionale e vulnerabilità sistemica rende le donne migranti uno dei gruppi più a rischio di marginalizzazione nell’Europa contemporanea 1. Questo articolo si occuperà di delineare la rilevanza del genere in ambito migratorio quando si affronta il tema della salute. Risulta dunque essenziale analizzare l’ordinamento giuridico italiano per valutare quanto lo Stato sia effettivamente garante del diritto alla salute, in particolare per le donne migranti 2. Ma cosa si intende per salute? L’organizzazione mondiale della sanità la definisce come “una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità 3”. La Costituzione italiana all’art. 32 stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, garantendo cure gratuite agli indigenti e vietando trattamenti sanitari obbligatori se non previsti dalla legge e nel rispetto della dignità umana. Il diritto alla salute, in quanto universale ed equo, è garantito anche agli individui irregolari attraverso l’accesso alle cure urgenti o essenziali, ovvero quelle prestazioni che non possono essere rinviate senza mettere in pericolo la salute o aggravare una malattia 4. Nell’esperienza concreta invece, si osservano profonde crepe sull’universalità del sistema, forti discrepanze nell’accesso ai servizi sanitari, gli ostacoli variano e si moltiplicano a seconda di fattori come età, etnia, religione, disabilità, istruzione, alfabetizzazione, orientamento sessuale o status giuridico. Le barriere linguistiche, culturali, religiose e giuridiche, unite a una forte disomogeneità territoriale nei servizi sanitari, rendono spesso inaccessibili i diritti sopra delineati. Ad esempio, le donne immigrate irregolari solo nel caso in cui siano in un accertato stato di gravidanza hanno diritto ad un permesso di soggiorno temporaneo, valido dal sesto mese di gravidanza fino al sesto mese di vita del/della bambino/a, che permette loro di iscriversi al SSN per quel periodo.  I PERCORSI DI ACCESSO DELLE DONNE MIGRANTI IN EUROPA E LE POSSIBILI CONSEGUENZE SULLA SALUTE I dati del Dossier Statico Immigrazione 5 mostrano che una larga parte dell’immigrazione femminile in Italia avviene attraverso il ricongiungimento familiare 6. Tuttavia, molte donne intraprendono autonomamente il percorso migratorio, senza il supporto di familiari o partner. Il loro percorso si distingue dalla componente maschile per alcune specifiche caratteristiche poiché, il più delle volte, è segnato da esperienze di violenza, sfruttamento, stupri, tratta, abusi e ricatti di varia natura a partire dal Paese d’origine, fino alle nostre città che le continuano a coinvolgere e ricattare. Le donne sole spesso vengono inglobate nel mercato del lavoro di cura, regolare o irregolare, settori ad alta usura fisica e bassa tutela contrattuale. Anche il procedimento del ricongiungimento familiare può però trasformarsi in una trappola per molte donne, legate al partner non solo economicamente ma anche giuridicamente. Questa dipendenza rende più difficile denunciare eventuali abusi e forme di segregazione sociale, mettendo a dura prova la loro salute psico-fisica. Le donne che accedono a questo canale entrano stabilmente nei sistemi sanitari dei Paesi europei, rendendo urgente una risposta strutturata e non solo emergenziale alla loro salute.  Anche la percezione della salute delle donne è generalmente diversa da quella degli uomini. La relazione tra genere e salute si potrebbe facilmente chiarire attraverso questa frase: “Il tipo e il ritmo di lavoro degli uomini minaccia la loro vita, mentre il tipo e il ritmo di lavoro del lavoro domestico femminile mette a rischio la qualità della vita delle donne 7”.  La percezione del lavoro domestico è, per cause indubbiamente patriarcali, notevolmente distorta poiché sottovaluta la pesantezza e la pericolosità, sia sul piano emotivo che psicologico, nonché in termini di inclusione sociale, di quel genere di professione, soprattutto se praticato da una donna migrante con un passato e un presente di violenze, traumi e segregazione.  Per l’uomo, immigrato e non, un importante fattore di rischio riguarda il lavoro, in quanto la componente migrante maschile è considerata in primis come risorsa economica; la donna invece è da sempre presa in considerazione in quanto moglie e madre, e, se facente parte del mercato del lavoro, come lavoratrice domestica, quindi, non a rischio. Questo viene confermato anche dal fatto che la protezione sanitaria specializzata che la donna ottiene è principalmente legata alla sfera della salute riproduttiva, alla gravidanza. Come sostiene infatti anche Francesca Alice Vianello, professoressa di sociologia del lavoro all’Università di Padova, la donna migrante viene spesso affiancata alla sola immagine di donna legata alla riproduzione biologica e di tutto l’insieme di professioni in Italia ancora genderizzate. La donna in Italia è utile unicamente a “produrre e riprodurre gli individui e la qualità della loro vita socio relazionale 8”, relegandola sempre più ad una sfera emotiva, astratta, poco tangibile e riconoscibile, che non ha nulla a che vedere con la produttività economica.  CORPO COME STRUMENTO DI EMANCIPAZIONE E LUOGO DI SOFFERENZA Le studiose Veronica Redini e Francesca Alice Vianello, parlano inoltre della centralità del corpo: un corpo doppiamente protagonista, sia come strumento di lavoro che come luogo dove la fatica si manifesta. È un corpo che cura, ma che spesso non può curarsi adeguatamente; un corpo che denuncia, attraverso dolori e malattie, la propria condizione di marginalità sociale ma che non viene riconosciuto, se non come riproduttivo 9. Le donne migranti, frequentemente, non sono adeguatamente informate sui propri diritti e sulle risorse sanitarie disponibili. Le differenze culturali si riflettono in vari aspetti della loro vita, inclusi gli stili di vita familiare, le pratiche quotidiane, le credenze e le modalità di interazione con i servizi sanitari. Queste differenze nascono da concezioni diverse del concetto di salute, dalle esperienze pregresse in altri sistemi sanitari e dalla conoscenza di pratiche tradizionali o alternative. La rappresentazione del corpo e della mente, il significato di “normalità” e le preferenze per determinati rimedi variano significativamente tra le diverse culture 10. In conclusione, parlare della salute delle donne migranti non può ridursi alla “sola” questione della violenza: affrontare questa realtà richiede un cambiamento di paradigma nelle politiche europee e nazionali, occorre superare la neutralità apparente delle leggi e costruire strumenti giuridici e sociali capaci di riconoscere la complessità delle identità e delle esperienze. Occorre, inoltre, non perpetuare le violenze già enormemente subite da soggettività femminili, riconoscendo i loro corpi e gli spazi che attraversano, investendo in una comunicazione chiara e inclusiva, che garantisca l’accesso e l’informazione adeguata a tutte le persone, non limitandosi a considerare il benessere relegato solo ad una dimensione fisica ma anche mentale, superando i confini delle case in cui vivono segregate. 1. Si veda i report: Il doppio ostacolo delle donne straniere nel percorso di emancipazione – Openpolis, 8 marzo 2024; Donne migranti protagoniste, ma svilite. Lo studio – Integrazionemigranti.gov.it, 23 febbraio 2023 ↩︎ 2. L’espressione ‘donna‘ si riferisce esclusivamente alle persone socializzate come tali, senza tener conto dell’identità di genere individuale di ciascun individuo ↩︎ 3. Preambolo alla costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, entrato in vigore il  7 aprile 1948 ↩︎ 4. Legge n. 833/1978 ↩︎ 5. Scheda di sintesi del Dossier ↩︎ 6. Direttiva 2003/86/CE ↩︎ 7. Tognetti Bordogna, 2008. ↩︎ 8. Francesca Alice Vianello, Veronica Redini, Federica Zaccagnini, Il lavoro che usura. Migrazioni femminili e salute occupazionale, 2022. ↩︎ 9. Ibidem. ↩︎ 10. Veronica Redini, Francesca Alice Vianello, Il dibattito socio-antropologico sulla salute delle e dei migranti, 2020 ↩︎
Maternità sotto accusa
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Università di Trento Master in Diritto e Politiche delle Migrazioni MATERNITÀ SOTTO ACCUSA MADRI MIGRANTI E VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA: UN’ANALISI DELLA PROCEDURA DI VALUTAZIONE DELL’IDONEITÀ GENITORIALE Tesi di master di Gemma Martini (A.A. 2024/2025) Scarica l’elaborato INTRODUZIONE La tesi analizza in chiave critica le modalità con cui viene valutata l’idoneità genitoriale delle madri migranti nei contesti istituzionali, evidenziando il rischio concreto di una vittimizzazione secondaria. Tale rischio emerge quando le donne, già vulnerabili per ragioni socioeconomiche, culturali o legate al percorso migratorio, si trovano a dover affrontare procedure valutative che, anziché riconoscere la complessità della loro condizione, ne accentuano la marginalizzazione. Il lavoro si apre con una ricostruzione teorica dei concetti di genitorialità, migrazione e bias culturale, osservandone l’impatto sulla condizione delle madri migranti. Viene quindi approfondita la cornice normativa e operativa entro cui i servizi sociali e i giudici italiani operano nelle valutazioni dell’idoneità genitoriale, con riferimento ai casi in cui le famiglie sono coinvolte in percorsi di tutela minorile. Attraverso l’analisi di documenti istituzionali, linee guida, casi di studio e letteratura scientifica nazionale e internazionale, la tesi evidenzia come il vissuto migratorio, la precarietà abitativa e lavorativa, le barriere linguistiche e i differenti modelli educativi possano essere letti dagli operatori come segnali di inadeguatezza genitoriale, piuttosto che come elementi contestuali da comprendere, accompagnare e sostenere. Questa lettura rischia di rafforzare stereotipi e pratiche valutative implicitamente discriminatorie, producendo forme di vittimizzazione secondaria istituzionalizzata. Particolare attenzione è riservata alla posizione delle madri migranti, spesso esposte a un duplice giudizio: in quanto madri e in quanto straniere. Le prassi valutative tendono a mettere in discussione la loro competenza educativa sulla base di criteri etnocentrici e culturalmente orientati, senza considerare adeguatamente le differenze culturali e i differenti approcci educativi. La tesi si conclude con una riflessione sui possibili approcci alternativi, attenti alla dimensione interculturale e alla valorizzazione dell’interdisciplinarità orientata alla costruzione di interventi realmente emancipanti. Viene proposta una maggiore integrazione tra servizi sociali, mediazione culturale e reti comunitarie, al fine di favorire una valutazione più equa e rispettosa dei diritti delle madri migranti e dei loro figli.
Reati culturalmente motivati: un approfondimento sulle mutilazioni genitali femminili
Questo articolo si concentra sull’analisi dei reati culturalmente motivati, con particolare attenzione al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, esaminandone le implicazioni culturali, giuridiche e internazionali all’interno delle società multiculturali. L’Italia, come molti altri Paesi europei, si può definire sempre più come “società multiculturale”. Secondo il professore di diritto penale Fabio Basile, quando si parla di cultura, si fa spesso riferimento ad una definizione “etnicamente qualificata”: un sistema complesso, composto da differenti visioni del mondo e modi di pensare, da concezioni diverse del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, del bene e del male. Queste modalità di percezione e interpretazione della realtà sono profondamente radicate e pervasive, e caratterizzano i gruppi sociali, evolvendosi e contaminandosi nel corso delle generazioni. Un aspetto cruciale, quando si affronta il tema dei pluralismo culturale, riguarda il “localismo” del diritto penale, infatti, questa materia, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, tende ad assumere una dimensione locale, riflettendo i valori e le norme proprie del contesto culturale in cui è applicato. Da qualche decennio, il diritto penale ha iniziato a confrontarsi con il pluralismo culturale delle società contemporanee, elaborando per la prima volta concetti come il “reato culturalmente orientato” che richiede “una valutazione, umana e sociale, culturalmente condizionata dei comportamenti presi in considerazione” 1. DEFINIZIONE DI REATO CULTURALMENTE MOTIVATO I concetti di cultural defense e di reato culturalmente motivato vengono utilizzati in ambito penalistico europeo per descrivere un comportamento compiuto da un soggetto appartenente a una cultura minoritaria, che, pur risultando penalmente rilevante secondo l’ordinamento giuridico del Paese ospitante, è considerato socialmente accettato, giustificato e incentivato dal Paese d’origine. Tali condotte generano un conflitto tra la norma penale dello Stato d’accoglienza e una norma culturale, spesso profondamente radicata e talvolta anche rinforzata dall’ordinamento giuridico del Paese d’origine. In ambito penalistico, questa divergenza è definita “antinomia impropria”. Nel diritto penale di ciascun Paese, la gestione del pluralismo culturale dipende dall’adesione a uno dei due modelli teorici prevalenti: il modello assimilazionista e il modello multiculturalista. Il primo impone agli immigrati l’abbandono della propria eredità culturale, richiedendo una piena conformità ai valori, alle norme e alle pratiche della società ospitante. Al contrario, il modello multiculturalista si fonda sul riconoscimento della diversità culturale e sulla legittimazione delle pratiche minoritarie, promuovendo strategie politiche tolleranti e progressiste, purché compatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Diverse democrazie occidentali hanno aderito formalmente al modello multiculturalista ponendo però dei limiti al suo esercizio: il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, per cui, ogni espressione culturale deve necessariamente armonizzarsi con i principi costituzionali e con le norme a tutela dell’individuo. I REATI CULTURALMENTE MOTIVATI: PERPLESSITÀ INTERPRETATIVE La crescente presenza di persone migranti nei Paesi europei, all’interno di società sempre più caratterizzate dal pluralismo culturale, solleva una serie di riflessioni anche in ambito penalistico. Una delle questioni più delicate riguarda il ruolo che le differenze culturali dell’imputato o imputata possono, o dovrebbero, avere nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto penale. Non si tratta di offrire una giustificazione automatica ai comportamenti penalmente rilevanti, ma di interrogarsi su come il sistema giuridico possa confrontarsi con condotte che, pur configurandosi come reati, trovano origine in sistemi normativi e valori culturali differenti da quelli della società di arrivo. In questo senso, il problema non è tanto la “cultura” come attenuante o esimente, quanto la complessità del giudizio quando esso coinvolge individui portatori di tradizioni e visioni del mondo diverse. Non esiste una risposta univoca, anche perché i contesti culturali sono molto eterogenei, così come lo sono i reati che possono emergere in un quadro multiculturale. È però possibile individuare alcune tipologie di condotte che pongono particolari difficoltà interpretative, soprattutto quando alla base vi siano pratiche legate a convinzioni culturali radicate. Tuttavia, si possono individuare alcune macro-categorie di reati che emergono con maggiore frequenza, analizzandone dettagliatamente uno nei prossimi paragrafi: * Reati intrafamiliari: in alcune culture, il capofamiglia detiene un’autorità assoluta che giustifica l’uso della violenza per punire comportamenti ritenuti devianti. * Reati d’onore: forme di violenza volte a ristabilire l’onore familiare o personale, spesso collegate a comportamenti sessuali o relazioni non conformi alle norme del gruppo di origine. * Riduzione in schiavitù e sfruttamento di minori: pratiche tradizionali che giustificano la sottomissione di minori. * Reati contro la libertà sessuale: in contesti in cui la donna non gode di autonomia si verificano abusi giustificati dal ruolo familiare o dal genere, anche nei confronti di minorenni. * Mutilazioni genitali femminili e pratiche rituali: condotte giustificate come riti di passaggio o segni di appartenenza, che causano danni permanenti. Nel contesto processuale, il background culturale dell’imputato può assumere rilievo probatorio, offrendo al giudice una chiave interpretativa per una più completa e veritiera ricostruzione dei fatti 2. LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI E IL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE Come accennato sopra, il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili rappresenta un chiaro esempio di reato culturalmente motivato. Nel 1955 l’Organizzazione Mondiale della sanità l’ha descritto includendo: “tutte le pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli organi genitali, compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche 3”. Sono state formalmente riconosciute 4 pratiche: * Tipo I: consiste nell’escissione del prepuzio, con o senza la rimozione del clitoride. * Tipo II: prevede l’escissione del prepuzio e del clitoride, insieme alla rimozione parziale o totale delle piccole labbra. * Tipo III: comporta l’escissione parziale o totale dei genitali esterni e la cucitura della vulva (infibulazione). * Tipo IV: include tutte le altre pratiche dannose sui genitali, come le ustioni, i tagli o l’uso di sostanze corrosive 4. La mutilazione genitale femminile (MGF) è una pratica profondamente radicata in molte società extraeuropee, diffusa in circa 40 Paesi nel mondo, principalmente in Africa, Medio Oriente e alcune aree dell’Asia. Nonostante sia riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani, continua ad essere perpetrata a causa di un complesso sistema di credenze e tradizioni che varia da contesto a contesto. Alla base della MGF vi sono molteplici motivazioni, spesso intrecciate tra loro, che affondano le radici in fattori culturali, religiosi e sociali. Uno degli elementi principali è l’identità culturale: la pratica viene vista come un rito di passaggio, un segno di appartenenza alla comunità. Le ragazze che vi si sottopongono sono considerate adulte, pure e degne di rispetto, mentre chi si rifiuta rischia l’emarginazione o la stigmatizzazione. Un altro motivo ricorrente è legato alla concezione della sessualità femminile. In alcune culture, si crede che la mutilazione rimuova una parte “maschile” del corpo della donna, purificandola e rendendola più femminile. Questa convinzione si lega al desiderio di controllare la sessualità femminile, vista come potenzialmente pericolosa per l’onore familiare. Di conseguenza, la pratica viene giustificata anche come strumento per garantire la verginità prematrimoniale e la fedeltà coniugale, rafforzando l’idea che il corpo della donna debba essere controllato in funzione del prestigio e della reputazione della famiglia. In alcune aree, inoltre, esistono credenze secondo cui i genitali esterni femminili sarebbero impuri, poco estetici o addirittura nocivi per la salute. In questo contesto, la MGF viene vista come una pratica igienica, che renderebbe il corpo femminile più sano e gradevole. A queste credenze si aggiungono altre convinzioni, come l’idea che la mutilazione possa aumentare la fertilità della donna o migliorare il piacere sessuale del marito, rafforzando così il suo valore nel matrimonio. Non da ultimo, la MGF è spesso ritenuta una condizione necessaria per il matrimonio: una donna non mutilata può essere considerata “impura”, “disobbediente” o “inadatta” a diventare moglie, con gravi conseguenze sociali per sé e per la sua famiglia 5. In sintesi, la MGF non è solo una pratica fisica, ma il risultato di un sistema culturale complesso, che collega il corpo femminile a concetti di purezza, onore, salute e appartenenza. Vi è dunque un sistema di credenze che sostiene che questa pratica migliori la salute e lo status sociale delle donne coinvolte.  A seguito dei flussi migratori, diversi Paesi occidentali si sono trovati a confrontarsi con pratiche come la mutilazione genitale femminile, ritenute particolarmente gravi in quanto considerate lesive dei diritti fondamentali delle donne, in particolare della loro integrità fisica e libertà personale.  Tali pratiche sono state oggetto di una netta condanna da parte della comunità internazionale: diversi atti, tra cui il Protocollo di Maputo, impongono agli Stati l’obbligo di vietarle espressamente attraverso misure legislative efficaci e strumenti adeguati di tutela. In ambito europeo, tali pratiche sono considerate penalmente condannabili in tutti gli Stati, anche se con modalità diverse: alcuni Paesi, come Svezia, Regno Unito, Norvegia, Belgio e Spagna, hanno adottato leggi specifiche per contrastare queste pratiche, mentre altri, come la Francia, pur senza una normativa specifica, fanno ricorso alle disposizioni generali sul reato di lesioni personali. Nonostante ciò, la Francia risulta essere il Paese europeo in cui si sono celebrati più procedimenti giudiziari in materia. Infine, si è discusso della possibilità che il consenso espresso dalla donna possa escludere la punibilità delle mutilazioni. Tuttavia, molte legislazioni escludono esplicitamente questa possibilità, ritenendo che nemmeno il consenso possa giustificare una pratica che lede diritti umani fondamentali. IL CASO STUDIO E LA RISPOSTA NORMATIVA ITALIANA: LA LEGGE 7/2006 E L’INTRODUZIONE DI REATI SPECIFICI NEL CODICE PENALE Un caso particolarmente rilevante e rappresentativo del possibile sforzo ricostruttivo del contesto di riferimento, si è verificato a Verona nel 2006, quando, due genitori nigeriani avevano richiesto a una connazionale di praticare la aruè, una forma di mutilazione rituale, su due neonate. In primo grado tutti furono condannati, ma in appello la Corte di Venezia assolse i genitori, ritenendo che non ci fosse la volontà di ledere le figlie, bensì l’intenzione di seguire un rituale culturale ritenuto necessario nella loro comunità. La decisione si basò anche su testimonianze di esperti (antropologi, mediatori culturali, membri della comunità religiosa), che aiutarono il giudice a comprendere il contesto sociale e culturale del gesto. Questa sentenza ha sollevato un ampio dibattito in quanto il confine tra il rispetto delle differenze e la tutela dei diritti fondamentali rimane sottile e profondamente controverso: da un lato, c’è chi considera questo caso un esempio positivo di apertura al dialogo interculturale, dall’altro, alcuni temono che legittimare pratiche lesive possa legittimare azioni pericolose, soprattutto in casi in cui siano coinvolti minori o vittime vulnerabili.  In Italia, con la legge 9 gennaio 2006, n. 7, lo Stato ha introdotto una normativa penale specifica per vietare e punire le mutilazioni genitali femminili, scegliendo quindi di adottare una legge ad hoc. In particolare, l’art. 9 della legge ha aggiunto al codice penale gli articoli 583-bis, che introduce i reati di “mutilazioni genitali” e “lesioni genitali”, e 583-ter, che prevede pene accessorie specifiche per i sanitari coinvolti. Il tratto distintivo di questa normativa è la particolare severità sanzionatoria. Le pene previste per questi reati sono infatti più elevate rispetto a quelle normalmente applicabili per le lesioni personali.  Questa scelta legislativa è stata criticata da alcuni giuristi. In particolare, si sostiene che il maggior rigore sanzionatorio non sia giustificato da una maggiore gravità del danno fisico prodotto, ma piuttosto dalla motivazione culturale del reato. Secondo questa interpretazione, la legge 7/2006 sarebbe una norma simbolica, volta più a riaffermare i valori della cultura occidentale e a stigmatizzare pratiche culturali “altre” piuttosto che a tutelare in modo effettivo i diritti delle vittime. Ne deriverebbe, in ultima analisi, un atteggiamento intollerante da parte del legislatore, che punisce più duramente proprio perché il fatto è legato a tradizioni culturali diverse da quelle dominanti, rischiando solo di accumulare e fortificare pregiudizi nei confronti di comunità straniere, in base alle loro provenienze.  1. Sentenza della Cassazione n. 19808 del 9 giugno 2006 ↩︎ 2. I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, di Fabio Basile, da Questione Giustizia ↩︎ 3. Si veda: “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, Relazione sulle mutilazioni genitali femminili, 27 ottobre 2021” ↩︎ 4. Le mutilazioni genitali femminili. Analisi delle implicazioni culturali e commento alla “Legge Consolo”, L. Tranquilli, L. Gentilucci, S. Talebi Chahvar ↩︎ 5. Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), di Fabio Basile, da Stato, Chiese e pluralismo confessionale ↩︎
Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informali
Questo testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere. Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del lavoro. Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado: la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi. A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile. Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo – creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.  Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità. Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive. Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni di servitù domestica. In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze, dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più restrittive e selettive 1”. La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro diritti. PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di reddito verso casa 2. Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con un sistema che non prevede tutele, né alternative. L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale, è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio. Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare autonomamente pratiche di autodifesa collettiva. IL CASO DEL RAGUSANO Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile. Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini, garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole. Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo radicate nel territorio. Un tema centrale è rappresentato dalle  condizioni abitative delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare:  tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale. Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali. Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena, marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana. Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente precarie. La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34% del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica, strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti, si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti dispone di almeno uno dei servizi primari. Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo. L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo di emancipazione dallo sfruttamento. Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di intere famiglie. La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione individuale e collettiva. L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale, ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta, attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e ricattabile. COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI? Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato della violenza sommersa. Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e controllo sul corpo delle donne. A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo “Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T. tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel silenzio. La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare controllo e dominio sessuale.  Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per ‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”. Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.  È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio, raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora in condizioni di sfruttamento. PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE FUTURE Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale, che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati. Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico. Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a ricostruire la propria autonomia. Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli, capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti, supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori e campagne di sensibilizzazione territoriali. Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità. 1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia  ↩︎ 2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎ 3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎