Tag - Comunicati stampa e appelli

Appello di docenti, ricercatori e ricercatrici universitari/e per la liberazione di Mohamed Shahin
Mohamed Shahin è trattenuto nel CPR di Caltanissetta e a rischio di espulsione verso l’Egitto, Paese in cui sarebbe esposto al rischio concreto di persecuzioni, detenzione arbitraria e persino alla pena di morte. La sua colpa è di essersi mobilitato a fianco del popolo palestinese e di aver pronunciato delle opinioni, poi ritrattate, ritenute sufficienti dal ministero dell’Interno per disporre la revoca del suo permesso di soggiorno, il trattenimento e l’avvio della procedura di espulsione. Attorno alla vicenda di Mohamed Shahin si è mobilitata una vasta rete di realtà sociali, religiose e politiche torinesi e non solo, che sono scese in piazza per chiedere la sua liberazione ricordando come la moschea di via Saluzzo, da lui guidata, sia da sempre un presidio di apertura, cooperazione e dialogo interculturale. Si è mossa anche la comunità accademica, che ha pubblicato un appello per la sua liberazione: «Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico. È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario. Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione contro il refoulement. Chiediamo pertanto: * La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione. * La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici nazionali e internazionali. * La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico, culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle persone coinvolte. * La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani. Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali». Clicca qui per firmare e leggere le adesioni
Agadez, il limbo nel deserto: cinque anni di attesa e silenzio per i rifugiati intrappolati nel “centro umanitario”
Da oltre cinque anni, quasi duemila rifugiati e richiedenti asilo vivono intrappolati nel deserto del Niger, nel “centro umanitario” di Agadez. Sono persone fuggite da guerre, persecuzioni, violenze; persone che hanno attraversato confini dove hanno subìto abusi in Algeria e in Libia, che sono sopravvissute ai respingimenti e ai rastrellamenti, e che oggi si ritrovano abbandonate in un luogo che, più che un rifugio, somiglia a una prigione a cielo aperto. Una vicenda che come redazione seguiamo con attenzione dal novembre 2024, in contatto diretto con le persone che si trovano nel centro. L’appello pubblicato il 25 novembre scorso 1 ci offre l’occasione di continuare a tenere gli occhi aperti su Agadez e di rilanciare la loro voce: una voce stremata ma ostinata, che continua a chiedere solo ciò che dovrebbe essere garantito a chiunque – dignità, protezione, futuro. Agadez è distante quindici chilometri dalla città, isolato nel nulla. Il campo, costruito con fondi europei e italiani, si presenta come un progetto umanitario, ma chi lo abita lo descrive come un luogo di confinamento: tende consumate dal vento del deserto, prefabbricati che non proteggono né dal sole né dalle tempeste di sabbia, un accesso irregolare a servizi essenziali come acqua potabile, cure mediche, elettricità, istruzione. Dal 2025, perfino l’assistenza alimentare è stata ridotta: solo alcune categorie, considerate “vulnerabili”, ricevono ancora un sostegno regolare. Gli altri, quelli che l’UNHCR non ha inserito in liste di priorità, sopravvivono come possono. La protesta, iniziata il 22 settembre 2024, ha oltrepassato l’anno. Per mesi gli abitanti del campo hanno organizzato sit-in, marce, lettere aperte, scioperi della fame: sempre pacifici, sempre ignorati. Il loro slogan, «We don’t want to stay here», è un grido semplice e limpido: non chiedono privilegi, ma di essere liberati da un’attesa infinita che li consuma. La risposta delle autorità è stata troppo però spesso la criminalizzazione del dissenso. A marzo 2025 otto rappresentanti dei rifugiati sono stati arrestati durante una protesta. Sono stati rilasciati dopo dieci giorni, ma l’episodio ha lasciato un segno profondo: molti hanno perso lo status di protezione, altri vivono nella paura di subire la stessa sorte. Il “centro umanitario” di Agadez è un simbolo potente dell’esternalizzazione delle frontiere europee. Qui, nel cuore del deserto, si materializzano le contraddizioni di un sistema che, in nome della sicurezza e del controllo migratorio, preferisce trattenere le persone lontano dai propri confini – anche quando questo significa lasciarle vivere per anni in condizioni disumane. La retorica della “protezione internazionale” si sgretola davanti alla realtà: non si tratta di accoglienza, ma di sospensione della vita. Di un tempo morto imposto a uomini, donne, bambini che non hanno alcuna prospettiva di reinsediamento né possibilità di integrarsi nel Niger. L’appello chiede di ascoltare finalmente le loro voci, di riconoscere che quanto accade ad Agadez non è un’emergenza ma una scelta politica. Chiede che si aprano percorsi di reinsediamento reali, che si garantiscano condizioni minime di vita dignitosa, che si ponga fine a un sistema che confonde la gestione con l’abbandono. Chiede, soprattutto, di vedere i rifugiati per ciò che sono: persone che hanno perso tutto e che ora rischiano di perdere anche la speranza. Agadez non è un episodio isolato: è un ingranaggio di un meccanismo che sposta sempre più lontano la responsabilità, rendendo invisibili le vite che schiaccia. Raccontare ciò che accade nel deserto del Niger significa rompere un silenzio conveniente, riportare al centro ciò che troppo spesso resta ai margini: la dignità umana come principio non negoziabile. 1. Leggi l’appello sul blog di Davide Tommasin ↩︎
Quattro anni di ingiustizia: libertà per Abdulrahman Al Khalidi
Da oltre 4 anni Abdulrahman Al Khalidi 1 è rinchiuso nel centro di detenzione di Busmantsi, a Sofia, in Bulgaria. Anni di privazione, isolamento e ingiustizia: il caso di detenzione amministrativa più lungo nella storia dell’Unione Europea, simbolo di un sistema che calpesta il diritto e la dignità umana. Insieme ad altre venti organizzazioni internazionali, abbiamo rinnovato la nostra richiesta: rilascio immediato di Abdulrahman e trasferimento in un paese terzo sicuro. Abdulrahman è un prigioniero politico saudita, un padre di due bambini – una dei quali gravemente malata – che non vede da troppo tempo. Vive in un limbo giudiziario senza fine, minacciato ogni giorno dal rischio di deportazione verso l’Arabia Saudita, dove lo attende la pena di morte. Ma in questi anni, anche dietro le sbarre, Abdulrahman ha trasformato la sua prigionia in una lotta collettiva per la libertà di tutte e tutti. La sua voce, che resiste al silenzio, parla anche per noi. Non lo lasceremo solo. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’appello, tradotto in italiano, sottoscritto da oltre venti organizzazioni internazionali per chiedere giustizia e libertà per Abdulrahman Al Khalidi. APPELLO CONGIUNTO PER LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI UN DIFENSORE DEI DIRITTI UMANI SAUDITA DETENUTO IN BULGARIA DA OLTRE QUATTRO ANNI Noi, le organizzazioni della società civile firmatarie, siamo profondamente preoccupate per l’imminente minaccia di espulsione dalla Bulgaria verso l’Arabia Saudita che grava sul difensore dei diritti umani saudita Abdulrahman AlBakr al-Khalidi, dopo oltre quattro anni di detenzione, dove correrebbe un rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani a causa del suo attivismo pacifico. Esortiamo le autorità bulgare a sospendere immediatamente l’espulsione di al-Khalidi in conformità con i loro obblighi giuridici ai sensi del diritto internazionale, europeo e nazionale, a rilasciarlo dalla detenzione e a concedergli protezione internazionale attraverso un processo di asilo equo e imparziale. Al-Khalidi è intrappolato in un lungo processo di asilo in Bulgaria dal novembre 2021 e dal 2024 è soggetto a un ordine di espulsione. Il 15 luglio 2025 la Corte amministrativa suprema bulgara ha respinto il ricorso di al-Khalidi contro il suo ordine di detenzione, mettendolo in imminente pericolo. Al-Khalidi ha iniziato la sua attività pacifica durante la Primavera araba del 2011, aderendo all’Associazione saudita per i diritti civili e politici (ACPRA) e partecipando a proteste in favore delle riforme. A seguito di un’ondata di arresti di altri attivisti nel 2013, e dopo essere stato convocato per un interrogatorio, è fuggito dall’Arabia Saudita e ha continuato la sua attività di advocacy in esilio. In seguito ha aderito al progetto “Electronic Bees Army” del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, volto a contrastare la disinformazione di Stato. Nel 2021, di fronte alle crescenti minacce in Turchia, al-Khalidi ha deciso di chiedere asilo nell’Unione Europea. Tuttavia, è stato arrestato all’arrivo in Bulgaria poco dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro il 23 ottobre 2021. Da allora ha trascorso oltre quattro anni in detenzione – che secondo i dati pubblici della Corte europea dei diritti dell’uomo è uno dei periodi più lunghi per qualsiasi richiedente asilo in Europa – la maggior parte dei quali in condizioni dure e degradanti nel centro di detenzione di Busmantsi a Sofia. Il 26 settembre 2025, la Direzione per l’immigrazione ha deciso di prorogare la detenzione di al-Khalidi per altri sei mesi. Il 16 novembre 2021 al-Khalidi ha presentato domanda di asilo in Bulgaria, citando il rischio di gravi violazioni dei diritti umani in caso di ritorno in Arabia Saudita. Tuttavia, l’Agenzia statale bulgara per i rifugiati ha respinto la sua domanda, sostenendo che l’Arabia Saudita avesse “adottato misure per democratizzare la società”. Il suo ricorso è ancora in corso. Nonostante diverse sentenze a suo favore, comprese sentenze definitive che ne ordinavano il rilascio, le autorità bulgare le hanno ignorate o aggirate. Nel febbraio 2024 l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha emesso un ordine di espulsione nei confronti di al-Khalidi, definendolo, senza prove, una “minaccia alla sicurezza nazionale”. Questo ordine, successivamente confermato dal Tribunale amministrativo di Sofia, viola il principio internazionale di non respingimento, poiché esiste un rischio ben documentato che, se rimpatriato in Arabia Saudita, al-Khalidi subirebbe torture, un processo iniquo e forse la pena di morte. Durante la detenzione, al-Khalidi avrebbe subito ripetuti maltrattamenti, tra cui pressioni psicologiche e abusi fisici. Nel marzo 2024 il difensore dei diritti umani ha riferito di essere stato brutalmente picchiato da agenti di polizia. Ha tentato il suicidio, ha intrapreso uno sciopero della fame durato più di 100 giorni e gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico complesso (C-PTSD). Nonostante le preoccupazioni sollevate dai tribunali bulgari, dagli esperti delle Nazioni Unite, dalle ONG e dai membri del Parlamento europeo, le autorità bulgare continuano a detenerlo illegalmente e a minacciarlo di espulsione. Uno studio sulla repressione transnazionale dei difensori dei diritti umani 2, pubblicato il 12 giugno 2025 dalla sottocommissione per i diritti umani (DROI) del Parlamento europeo, ha evidenziato il caso di al-Khalidi come esempio chiave della tattica della detenzione utilizzata nella repressione fisica transnazionale. L’espulsione di al-Khalidi verso l’Arabia Saudita costituirebbe una grave violazione degli impegni assunti dalla Bulgaria ai sensi del diritto internazionale, dell’Unione europea (UE) e del diritto interno, compresa la sua stessa costituzione, che stabilisce che la Bulgaria deve concedere asilo agli stranieri perseguitati per le loro opinioni e attività in difesa dei diritti e delle libertà riconosciuti a livello internazionale. NOI, LE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE, CHIEDIAMO QUINDI ALLE AUTORITÀ BULGARE DI: 1. rilasciare immediatamente e incondizionatamente Abdulrahman al-Khalidi in conformità con le sentenze emesse dai tribunali bulgari; 2. garantire che non sarà espulso in Arabia Saudita o in qualsiasi altro paese in cui rischia di essere respinto; 3. facilitare il suo reinsediamento in un paese terzo sicuro, in coordinamento con i partner internazionali; 4. avviare un’indagine indipendente sui maltrattamenti subiti durante la detenzione, compreso il pestaggio del marzo 2024, e assicurare i responsabili alla giustizia; e 5. garantire che il sistema di asilo bulgaro sia conforme agli standard dell’UE e internazionali in materia di diritti umani, prevenendo future violazioni di questo tipo. PER QUANTO RIGUARDA L’UNIONE EUROPEA (UE), CHIEDIAMO: 1. alla Commissione europea di valutare la sospensione o la riprogrammazione di qualsiasi sostegno europeo legato ai centri di detenzione pre-espulsione in Bulgaria fino a quando non sarà garantita la piena conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 2. alla Commissione europea di condurre una revisione di qualsiasi possibile sostegno della Commissione europea legato al centro di detenzione di Busmantsi per valutarne la conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 3. al Parlamento europeo (commissioni LIBE/DROI) di tenere una sessione urgente e organizzare una missione di accertamento dei fatti presso il centro di detenzione di Busmantsi; e 4. al Consiglio (gruppo FREMP) di includere questo caso nell’ordine del giorno; Qui le organizzazioni firmatarie Comunicati stampa e appelli PETIZIONE PER ABDULRAHMAN AL-KHALIDI RINCHIUSO NEL CENTRO DI DETENZIONE DI BUSMANTSI (SOFIA) Firma e condividi l'appello per il riconoscimento della protezione internazionale al giornalista e attivista 24 Maggio 2025 1. La pagina autore su Melting Pot ↩︎ 2. Transnational repression of human rights defenders: The impacts on civic space and the responsibility of host states ↩︎
20K è morto, viva 20K
Pubblichiamo il testo collettivo con cui il Progetto 20k ripercorre la fine della propria esperienza politica nata e cresciuta alla frontiera di Ventimiglia. Nel luglio 2024 una casa bruciava nell’entroterra di Ventimiglia. Era quella che da qualche anno tuttǝ noi chiamavamo CDP, casa del popolo. Lo spazio, che avremmo voluto safe, solidale e accogliente, dove decine di persone negli anni hanno trascorso periodi più o meno lunghi, mentre si sfidava collettivamente quella maledetta frontiera. Anni vissuti in un flusso costante di relazioni, emozioni, conflitti, alleanze, incomprensioni, gioia, rabbia, che hanno cambiato radicalmente tuttǝ coloro che li hanno vissuti. Anni che hanno generato legami profondi, frutto della vita in comune mentre si cospirava assieme per la libertà di movimento; anni in cui sprazzi di libertà si sono aperti, ma anche violentemente richiusi, in quel sistema razzista, patriarcale, classista, abilista e omicida che è il confine. Quello che le persone hanno portato e vissuto, anche in quella casa, ognunǝ con le proprie differenti storie politiche e personali, non riusciremo a riportarlo in queste poche righe. Tuttavia, riteniamo importante una presa di parola collettiva, per quanto frutto di un ragionamento faticoso, lento e turbolento. C’è voluto del tempo, e a distanza di quattordici mesi, possiamo dirci che quella notte – dopo otto anni di lotta – finiva il progetto, il collettivo, la rete o, come ci piace chiamarlo, semplicemente 20k. Ph: Progetto20k Ma oggi possiamo anche ammettere che quelle fiamme non sono state un “incidente”, un “attacco” o la conseguenza di un “conflitto”, piuttosto l’ultimo atto del disgregarsi di un progetto politico. L’apice di una progressiva mancanza di responsabilizzazione reciproca: responsabilità del progetto, di chi ne faceva parte, delle relazioni con le altre realtà sul territorio, delle persone incontrate in frontiera. Reciprocità e solidarietà non come gesto caritatevole dall’alto verso il basso, ma come azione relazionale orientata al benessere collettivo; come atto politico e trasformativo. Responsabilizzazione reciproca come pratica di cura che, in un luogo ostile e violento come la frontiera, ha bisogno di costanti momenti collettivi di ripensamento, autocritica, analisi, che purtroppo non siamo più riuscitǝ a mettere in pratica. Nel tempo, infatti, è iniziata a sfumare l’importanza della condivisione precisa e puntuale delle pratiche e dei saperi collettivi tra le persone che attraversavano il progetto. Abbiamo lasciato che l’autogestione diventasse assenza di regole condivise e che molte responsabilità ricadessero sulle spalle di pochǝ compagnǝ. Abbiamo perpetrato il nostro razzismo interiorizzato e le dinamiche patriarcali all’interno del collettivo, fallendo spesso nello scardinarli e lasciando ferite che sono diventate fratture difficili da ricomporre. Abbiamo smesso di domandarci cosa fosse necessario fare affinché il progetto, contaminandosi e trasformandosi continuamente, potesse continuare a produrre una piccola, ma comunque significativa e necessaria, frattura in quel maledetto confine. Abbiamo smesso di chiederci come stavamo. I progetti politici hanno un inizio e una fine, ne siamo consapevoli. Seppur in ritardo, abbiamo provato a scrivere queste righe, perché pensiamo che lasciar cadere tutto nell’oblio non renda giustizia a quelle gocce di speranza che in questi otto anni sono piovute nel mare di merda che è la frontiera: spazi di lotta, solidarietà e condivisione; momenti di presa di parola collettiva; innumerevoli attraversamenti del confine. Progetto20k si è concluso e dei tanti fili tessuti siamo giuntǝ al punto in cui guardiamo con emozioni contrastanti la maglia rimastaci in mano. La frontiera, invece, è sempre lì e continua a produrre violenza, morte, segregazione e sfruttamento. Nonostante ciò, siamo felici di vedere che altri progetti collettivi continuino a sfidarla, che nuove energie si stiano muovendo, che focolai di resistenza continuino ad ardere. Individualmente e in altri collettivi, ognunǝ di noi proverà a continuare a dare il suo contributo perché un giorno quel confine non esista più per nessunǝ, perché tutte le frontiere cessino di dettare i destini delle persone. Lǝ compagnǝ di ciò che era Progetto20k
Dall’Albania all’Europa: aboliamo i centri di detenzione
Il Network Against Migrant Detention rilancia la mobilitazione in Albania contro i CPR e la detenzione amministrativa. Dal 31 ottobre al 2 novembre, tra Tirana e Shëngjin, si terranno diverse iniziative pubbliche tra cui una marcia verso il CPR di Gjadër e un’assemblea transnazionale per rafforzare la lotta comune contro le politiche di confinamento e deportazione. “Per questo chiamiamo a mobilitarsi insieme, oltre i confini, per il suo completo smantellamento”, scrive nell’appello il Network. Martedì 30 settembre ad ore 18.30 si terrà un’assemblea transnazionale online per costruire la mobilitazione. Per informazioni e ricevere il link della call si può scrivere a: againstmigrantdetention@gmail.com o al profilo Instagram. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention) L’APPELLO Il 1° e 2 novembre come Network Against Migrant Detention torneremo in Albania durante l’anniversario dell’accordo Rama–Meloni, che permette all’Italia di costruire e gestire CPR in territorio albanese. Questi centri non sono solo incostituzionali: rappresentano un progetto coloniale che, con la complicità del governo albanese, segna un pericoloso precedente che l’Europa intende replicare attraverso il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo. L’Albania diventa così un laboratorio di esternalizzazione, in cui sperimentare pratiche carcerarie e politiche di deportazione che vediamo emergere un po’ ovunque.  In queste settimane, manifestazioni di massa e scioperi sociali stanno bloccando diverse città in Europa, in particolare in Italia, per opporsi al genocidio in Palestina. La lotta per la libertà della Palestina è infatti diventata un simbolo politico capace di esprimere un rifiuto più ampio di tutte quelle politiche fasciste e securitarie che legittimano l’uso sistematico della violenza contro alcuni soggetti e reprimono ogni forma di dissenso. Israele, infatti, è il regime coloniale che in maniera più sistematica ha fatto ricorso alla detenzione amministrativa per imporre un controllo sulla popolazione palestinese. Lo stesso tipo di violenza lo ritroviamo esercitato in molti altri contesti contro le persone in movimento attraverso i confini globali. Dagli Stati Uniti all’Europa, dal Nord Africa al Rwanda, le immagini di deportazioni, respingimenti e detenzioni illegali si moltiplicano, mentre governi di estrema destra in tutto il mondo alimentano la retorica securitaria basata su confini chiusi, rimpatri forzati e deportazioni di massa. La detenzione amministrativa si consolida così come pilastro centrale di questo modello repressivo, fondato sulla reclusione, l’espulsione e la negazione dei diritti. In tutta Europa, il regime delle frontiere sta subendo una profonda ristrutturazione. Spinto da agende politiche sempre più autoritarie, il sistema migratorio dell’UE si sta orientando verso una gestione rapida, esternalizzata e fortemente militarizzata. Il quadro giuridico che rende possibile questa trasformazione è il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, che accelera pericolosamente le procedure di frontiera e normalizza la detenzione come strumento ordinario di gestione della mobilità. Accanto a questo, l’UE e i singoli stati membri stanno sperimentando le cosiddette “soluzioni innovative”. La proposta di modifica da parte della Commissione Europea della Direttiva Rimpatri, che introdurrebbe i Return Hubs e le liste dei Paesi Sicuri, segue e amplifica in termini concreti la logica introdotta dal Patto: rendere le persone sempre più deportabili, invisibili e detenibili. Insieme, questi strumenti contribuiscono a smantellare un diritto d’asilo già fragile, costringendo le persone migranti a una precarietà ancora più profonda, escluse dal welfare e dai servizi pubblici, ed esposte a uno sfruttamento più feroce da parte di mercati che continuano a richiedere manodopera a basso costo. Questa tendenza è riaffermata dal progressivo rafforzamento di Frontex, simboleggiato dall’apertura della nuova Frontex Academy a Varsavia, che mira ad aumentare il controllo securitario dei confini esterni, senza creare canali legali di accesso, costringendo così le persone migranti a intraprendere viaggi sempre più pericolosi. Eppure, nonostante la repressione, ogni giorno emergono forme di resistenza nei centri di detenzione in tutta Europa: scioperi della fame, rifiuto delle identificazioni, solidarietà reciproca, denunce pubbliche della violenza sistemica. Queste lotte dimostrano che i CPR non sono spazi di controllo totale, ma luoghi di conflitto. La lotta per la libertà di movimento e per l’autodeterminazione delle persone migranti rappresenta un’importante barriera contro la crescente militarizzazione di un regime di guerra globale che si manifesta oggi in genocidi, bombardamenti aerei indiscriminati, frontiere militarizzate, retate di massa e deportazioni su larga scala.  In questo contesto, segnato dal tramonto della democrazia liberale, abbiamo bisogno di connettere le lotte territoriali contro la detenzione amministrativa e dare vita a forme di resistenza conflittuale capaci di produrre una nuova idea di democrazia. Dobbiamo rafforzare una prospettiva transnazionale ed europea che vada oltre le mobilitazioni locali e nazionali: una prospettiva capace di condividere pratiche, costruire reti, coordinare strategie per abolire il regime europeo e globale di apartheid e confinamento. Abbiamo quindi scelto di unirci, insieme a compagnx albanesi,  italianx, europex  e transnazionalx, in una lotta decoloniale e solidale: per dire al popolo albanese che non è solo, che resistere è possibile, che la protesta deve crescere anche dove la cultura della resistenza è stata sistematicamente repressa. In gioco non c’è solo l’Albania o l’Italia, ma il futuro dell’Europa tutta. Da qui deve partire un processo di radicale democratizzazione dello spazio europeo e mediterraneo in cui viviamo.
La Corte di giustizia dell’Ue boccia il “modello Albania”
Il Tavolo Asilo e Immigrazione 1 ha dichiarato che con la decisione di oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito un principio chiaro: uno stato membro non può designare un Paese di “origine sicuro” senza garantire un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente, né può mantenere tale designazione se nel paese non è assicurata protezione a tutta la popolazione, senza eccezioni. Si tratta di una decisione dirompente, che smentisce in modo radicale la linea del governo italiano. Il cosiddetto “modello Albania”, ideato per esternalizzare le procedure di frontiera verso centri collocati fuori dal territorio nazionale ma sotto giurisdizione italiana, è stato costruito e mantenuto su basi giuridiche oggi dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione europea. La sentenza colpisce al cuore uno degli assi portanti dell’intero impianto: la possibilità di processare richieste di asilo in procedura accelerata, basandosi sulla presunzione automatica di sicurezza del paese d’origine. Non è più possibile, alla luce della pronuncia, utilizzare atti legislativi opachi e privi di fonti verificabili per giustificare il respingimento veloce delle domande di protezione; e non è ammissibile trattare come “sicuro” un paese che non offre garanzie a tutte le persone. È esattamente quanto avvenuto nei trasferimenti verso l’Albania e ciò rende evidente che ogni ripresa di questa pratica comporterebbe gravi violazioni e un elevato rischio di annullamento da parte dei tribunali. Il Tavolo Asilo e Immigrazione sollecita il governo a non riattivare il protocollo Italia-Albania: una richiesta avanzata dal Tai fin da prima dell’avvio delle operazioni e che ora diventa più forte nella cornice di questa sentenza. Nell’ultimo anno l’esecutivo ha più volte cercato di piegare le sentenze al proprio racconto, presentando come legittimazione ciò che non lo era affatto. Questa volta la pronuncia della Corte è inequivocabile ed è difficile immaginare che possa essere strumentalizzata. L’architettura giuridica del modello viene demolita. C’è un altro fronte giuridico ancora aperto e riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai centri di permanenza per il rimpatrio (CPR): la questione è oggetto di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Si tratta di un iter che richiederà almeno due anni. Nel frattempo, anche il nuovo modello è stato oggetto di molteplici censure giudiziali ed è incompatibile con i diritti umani, come raccontato nel report “Ferite di confine” recentemente diffuso dal Tai. Il “modello Albania”, anche nella sua seconda fase, va dismesso immediatamente. Il Tavolo asilo e immigrazione chiede al governo di prendere atto della pronuncia, cessare ogni iniziativa orientata alla riattivazione del protocollo e ricondurre la politica migratoria all’interno del diritto internazionale ed europeo, e delle garanzie costituzionali. PER APPROFONDIRE: * Comunicato stampa della CGUE: “Protezione internazionale: la designazione di un paese terzo come «paese di origine sicuro» deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo” * Leggi il report “Ferite di Confine” in pdf 1. A Buon Diritto, ACLI, Action Aid, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Avvocato di Strada Onlus, Caritas Italiana, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CIR, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, Comunità di Sant’Egidio, Comunità Papa Giovanni XXIII, CoNNGI, Emergency, Ero Straniero, Europasilo, FCEI, Fondazione Migrantes, Forum per cambiare l’ordine delle cose, International Rescue Committee Italia, INTERSOS, Legambiente, Medici del Mondo Italia, Medici per i Diritti Umani, Movimento Italiani senza Cittadinanza, Medici Senza Frontiere Italia, Oxfam Italia, Re.Co.Sol, Red Nova, Refugees Welcome Italia, Save the Children, Senza Confine, SIMM, UIL, UNIRE ↩︎
«Chiudere il Cpr di Ponte Galeria»: le associazioni aderiscono all’Azione popolare
A Buon Diritto, ActionAid, Antigone Lazio, Arci, ASGI, Baobab Experience, Casa dei Diritti Sociali, CGIL Roma e Lazio, CILD, Cittadinanzattiva, Medici Senza Frontiere, Nonna Roma, Oxfam Italia, Progetto Diritti, Psichiatria Democratica, SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, Spazi Circolari annunciano la loro adesione all’Azione popolare per la chiusura immediata del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma. La recente sentenza n. 96/2025 della Corte costituzionale ha ribadito ciò che il mondo del diritto e della società civile denunciano da anni: i Cpr rappresentano una grave violazione dello Stato di diritto e dei principi costituzionali. A Ponte Galeria, l’unico Cpr in Italia che trattiene anche donne, si assiste quotidianamente a situazioni di abbandono terapeutico, sofferenza psicologica e lesione della dignità umana. Abbiamo deciso di intervenire in questa specifica battaglia per la chiusura del Cpr di Ponte Galeria perché in questo “buco nero”, oltre al catalogo degli orrori che riguarda tutti i centri, si evidenzia una carenza ancor più grave: la presenza di donne trattenute e il conclamato abbandono terapeutico delle persone con vulnerabilità psicologica», scrivono le associazioni. Abbiamo scelto di aderire formalmente all’Azione popolare promossa da un gruppo di personalità romane del mondo accademico, in sostituzione del Sindaco di Roma, poiché riteniamo che la chiusura del Cpr non sia solo una battaglia giuridica, ma un’urgenza politica e civile. La detenzione amministrativa in strutture opache, fuori dal controllo dell’autorità giudiziaria e chiuse al monitoraggio della società civile, è inaccettabile in un paese che dice di fondarsi sul rispetto dei diritti umani. Il Cpr di Ponte Galeria è una ferita aperta nel cuore della nostra città. Non è più tollerabile che esista uno spazio dove si calpestano quotidianamente i diritti fondamentali, senza alcuna garanzia giuridica, senza condizioni igienico-sanitarie adeguate, senza una sufficiente assistenza medica, dove non è rispettata la dignità delle persone. Come organizzazioni e associazioni impegnate nella tutela dei diritti, non accettiamo che a Roma esista un luogo di questo tipo, in totale contrasto con i principi costituzionali e dello Statuto di Roma Capitale. L’Azione popolare, la cui prima udienza è fissata per il 16 ottobre 2025, rappresenta un’opportunità importante per riportare al centro del dibattito pubblico il tema dell’illegittimità dei Cpr e dell’abbandono istituzionale delle persone con vulnerabilità psicologica, nonché per porre un argine al razzismo istituzionale e alla discriminazione nei confronti di persone con background migratorio. Pertanto invitiamo tutte le cittadine e i cittadini di Roma, le organizzazioni, le reti sociali e culturali a sostenere l’iniziativa, formalmente o pubblicamente. La chiusura del Cpr di Ponte Galeria è un atto dovuto. È tempo di restituire giustizia e umanità a una città che vuole dirsi aperta e accogliente. * E’ possibile aderire all’Azione popolare o ricevere informazioni sulle modalità di sottoscrizione:  attivadiritti@gmail.com Comunicati stampa e appelli/CPR, Hotspot, CPA IL MONDO ACCADEMICO PROMUOVE UN’AZIONE POPOLARE PER LA CHIUSURA DEL CPR DI ROMA PONTE GALERIA Inviata un’istanza al Sindaco di Roma affinché ne chieda la chiusura immediata 20 Settembre 2024