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Giornata internazionale per la commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione
Nel 1791 il 23 agosto a Santo Domingo cominciò la rivolta che ha contrassegnato l’inizio delle lotte per l’abolizione della schiavitù e del traffico di esseri umani. La sua ricorrenza, celebrata per la prima volta ad Haiti nel 1998, poi nel 1999 in Senegal, sull’isola di Gorée, dal 1950 è una giornata internazionale del calendario UNESCO. “È tempo di abolire una volta per tutte lo sfruttamento umano e di riconoscere la dignità paritaria e incondizionata di ogni singolo individuo – rammenta il Direttore generale dell’UNESCO, Audrey Azoulay – Oggi, ricordiamo le vittime e i combattenti per la libertà del passato, affinché possano ispirare le generazioni future a costruire società giuste.” La figura storica protagonista della rivolta degli schiavi avvenuta ad Haiti nel 1791 è François-Dominique Toussaint Louverture, detto Toussaint L’Ouverture, un ex-schiavo discendente di Ardra il Grande, sovrano del Regno di Dahomey fondato nel XVII secolo dall’etnia fon, attualmente numerosa in Benin e presente anche in Nigeria e Togo. Mentre in Francia divampava la rivoluzione anti-monarchica, anche nella più prosperosa colonia francese, l’isola caraibica che oggi è suddivisa in due Stati – Haiti e la Repubblica Dominicana – gli schiavi liberati comincarono a ribellarsi e il 23 agosto 1791 scoppiò la rivolta che si narra fosse cominciata nella notte mentre un gruppo di schiavi praticava dei riti vudù e che venne condotta da Toussaint L’Ouverture, che era nato nel 1743, figlio di schiavi e a sua volta schiavo, istruito, plausibilmente dai missionari gesuiti espulsi da Haiti 1763, e nel 1791 un uomo libero che aveva aderito al movimento dei Giacobini. Schierato con la Spagna contro i coloni francesi e, dopo che in Francia venne abolita la schiavitù, alleato con la repubblica francese, nel 1801 Toussaint L’Ouverture promulgò la costitituzione dell’isola caraibica, dove però l’anno seguente giunsero le truppe napoleoniche e lui venne fatto prigioniero. Morì in Francia nel 1803, ma la “sua” rivoluzione continuò e il 1º gennaio 1804 ad Haiti vennero dichiarata l’indipendenza e fu proclamata la repubblica. Poiché ad essa conseguì la formazione del primo Stato “nero” d’epoca moderna, cioè il primo in cui le popolazioni africane e afro-americane precedentemente sottomesse al colonialismo e allo schiavismo hanno formato una nazione, la rivolta haitiana del 1791 è considerata l’inizio dell’emancipazione dalla schiavitù. La data in cui cominciò la ribellione, il 23 AGOSTO, è stata designata Giornata internazionale per la commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione per iniziativa promossa dall’UNESCO / Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura nel 1950, l’anno in cui all’ONU veniva siglata la Convenzione di New York / Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui promulgata nel 1949 e in vigore dal 25 luglio 1951 che dallo Stato italiano è stata ratificata con la Legge n° 1173 promulgata il 23 novembre 1966 e vigente dal 7 gennaio 1967.  L’abolizione della schiavitù viene commemorata anche nella Giornata internazionale in ricordo delle vittime delle schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi, dall’Assemblea Generale dell’ONU designata nel 2007 con la Risoluzione 62/122, e ricorre il 25 MARZO perché ricorrenza dell’Abolition of the Transatlantic Slave Trade Act e del Act Prohibiting Importation of Slaves rispettivamente promulgati dal Parlamento inglese e dal Congresso statunitense nel 1807. Nel calendario cattolico invece la data spartiacque è il 3 dicembre 1839. Quel giorno papa Gregorio XVI pubblicò e fece affiggere “alle porte della Basilica del Principe degli Apostoli e della Cancelleria Apostolica, nonché della Curia generale di Montecitorio e in vista nel Campo dei Fiori” la lettera breve in supremo apostolatus in cui, ricordando i Vangeli e i pronunciamenti di alcuni suoi predecessori e denunciando che “la tratta dei Negri, benché sia notevolmente diminuita in molte parti, tuttavia è ancora esercitata da numerosi cristiani”, proclamò: > A futura memoria… ammoniamo e scongiuriamo energicamente nel Signore tutti i > fedeli cristiani di ogni condizione a che nessuno, d’ora innanzi, ardisca usar > violenza o spogliare dei suoi beni o ridurre chicchessia in schiavitù, o > prestare aiuto o favore a coloro che commettono tali delitti o vogliono > esercitare quell’indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in > schiavitù, quasi non fossero esseri umani, ma puri e semplici animali, senza > alcuna distinzione, contro tutti i diritti di giustizia e di umanità, > destinandoli talora a lavori durissimi. Inoltre, chi propone una speranza di > guadagno ai primi razziatori di Negri, provoca anche rivolte e perpetue guerre > nelle loro regioni. Le valenze di queste giornate oggi sono – purtroppo – molto rilevanti, come ricordano l’ONU e le organizzazioni e associazioni umanitarie fornendo i dati che misurano le dimensioni delle violazioni dei diritti umani: traffico di esuli e migranti; sfruttamento dei lavoratori e, in particolare, delle donne e dei minorenni; reclutamento forzato di giovani e bambini negli eserciti  belligeranti… * “Ci sono più persone in stato di schiavitù oggi che in qualsiasi altro momento della storia” – I nuovi schiavi d’oggi / ACTION AID * Nel mondo 1 persona su 4 in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna è minorenne – dossier Piccoli Schiavi Invisibili di SAVE THE CHILDREN / PRESSENZA E la rilevanza di queste giornate internazionali è molto significativa anche in Italia, dove la schiavitù si cela in molte forme di assoggettamento. Infatti, sebbene la sociatà italiana ritenga di averlo abolito da secoli, lo schiavismo invece viene ancora praticato e che sia tuttora diffuso emerge ogni volta che nelle cronache spiccano notizie di incidenti sul lavoro e di violenze fisiche subite dalle vittime. Maddalena Brunasti
CPR: “COSTI ELEVATISSIMI E RIMPATRI AI MINIMI STORICI”, LA DENUNCIA DI ACTIONAID ED UNIBA
Il lavoro di ricerca di Action Aid e dell’Università di Bari, ha fatto emergere nuovi dati che riguardano i 14 centri di reclusione per persone considerate non in regola con i documenti, in Italia e in Albania. Dall’analisi dei dati dai quali parte la denuncia, emergono costi elevatissimi e rimpatri ai minimi storici. Nel frattempo sono 287 i migranti giunti a Lampedusa dopo che le motovedette di guardia costiera, Frontex e Guardia di Finanza hanno soccorso 5 barconi.  Due dei migranti, con intossicazione da idrocarburi, sono stati trasferiti in elisoccorso al Civico di Palermo. Sui barconi, salpati da Zuwara e Zawija in Libia, gruppi di egiziani, siriani, iraniani, bengalesi, eritrei, pakistani e somali. “Il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane”. Con queste parole ActionAid e l’Università degli studi di Bari definiscono il CPR di Gjader che, nel 2024, è stato “effettivamente operativo” per appena 5 giorni per un costo giornaliero di 114 mila euro. Il dossier, pubblicato sul portale “Trattenuti”, esamina i costi e l’efficienza del centro albanese, nato in seguito alla stipula del discusso protocollo tra Roma e Tirana. A fine marzo 2025, spiegano ActionAid e Unibari – a Gjader erano stati realizzati 400 posti. “Per la sola costruzione (compresa la struttura non alloggiativa di Shengjin) sono stati sottoscritti contratti, con un uso generalizzato dell’affidamento diretto, per 74,2 milioni – si legge nella ricerca. L’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro. Il confronto con i costi per realizzare analoghe strutture in Italia è impietoso: nel 2024 il Cpr di Porto Empedocle è costato 1 milione di euro per realizzare 50 posti effettivi (poco più di 21.000 euro a posto)”. Inoltre, secondo i dati pubblicati sul portale, per l’ospitalità e la ristorazione delle forze di polizia impiegate sul territorio albanese, l’Italia ha speso una cifra che si aggira attorno ai 528 mila euro.  Nell’aggiornamento dei dati su tutti i Cpr presenti in Italia, ActionAid e l’Ateneo pugliese evidenziano inoltre come nel 2024 si sia registrato il minimo storico dei rimpatri negli ultimi dieci anni. Ci espone i dati della ricerca di ActionAid ed UniBari, Fabrizio Coresi, esperto migrazione di Action Aid. Ascolta o scarica
Sempre più famiglie italiane non riescono a mangiare in modo sano e dignitoso
La povertà alimentare è una delle espressioni più ingiuste delle disuguaglianze sociali, perché compromette un bisogno primario e quotidiano: il cibo. Non si tratta solo di quantità insufficienti, ma anche dell’impossibilità di scegliere cosa mangiare, quando, come e con chi. È una deprivazione che tocca salute, relazioni e dignità, negando al cibo il suo valore sociale, emotivo e culturale. Come scrive ActionAid nel suo ultimo Rapporto “Fragili Equilibri”, la povertà alimentare “riflette una condizione di vulnerabilità diffusa, fatta di precarietà economica, abitativa e lavorativa, di mancanza di tempo e di reti di sostegno. In queste situazioni, il cibo diventa spesso la prima voce su cui si risparmia: si rinuncia alla qualità, si salta un pasto, si riduce la varietà, si taglia sulla spesa per poter affrontare altri costi essenziali come l’affitto, le bollette o le cure mediche. Mangiare diventa una sfida quotidiana di compromessi e rinunce. Per farvi fronte, molte persone mettono in atto strategie silenziose: si adattano, razionano, chiedono aiuto in modo discreto. Ma tutto questo ha un costo profondo, che spesso non si vede: stress, isolamento, vergogna, perdita di controllo sulla propria vita”. Nel nostro Paese la povertà alimentare ormai non è più un fenomeno circoscritto alla popolazione “a rischio”, ma colpisce sempre più spesso persone e famiglie che non rientrano nei parametri ufficiali di povertà, ma che comunque non riescono a garantire a sé stesse e ai propri figli un’alimentazione adeguata. Nel 2023, l’11,8% della popolazione italiana sopra i 16 anni – circa 6 milioni di persone – ha sperimentato almeno una forma di deprivazione alimentare materiale o sociale, con un incremento di 1,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente. L’aumento riguarda soprattutto chi non è formalmente povero secondo le soglie Istat: ben il 60% di chi vive una condizione di deprivazione non rientra tra le persone a rischio di povertà economica, segnalando una vulnerabilità crescente anche tra le fasce intermedie della popolazione. I profili più esposti sono adulti tra i 35 e i 44 anni, persone con basso livello di istruzione, disoccupati e lavoratori precari, nuclei familiari monogenitoriali o numerosi, individui di origine straniera e chi vive in affitto sul mercato privato. Tra i migranti extra-europei il tasso di deprivazione supera il 23%, il doppio rispetto ai nati in Italia. Anche la condizione abitativa gioca un ruolo cruciale: vivere in affitto a prezzi di mercato aumenta sensibilmente il rischio di rinunce legate al cibo. Nel 2023, il 15,6% delle famiglie italiane – oltre 4 milioni di nuclei – ha speso per l’alimentazione meno della media nazionale, risultando così in condizione di povertà alimentare relativa (a rischio di povertà alimentare). Permane anche per la deprivazione alimentare materiale o sociale l’estremo divario tra Nord e Sud. Nel Nord il 7,6% di individui è in stato di deprivazione, a Sud questi sono il 18,2% e al Centro sono invece il 10,7%. Le condizioni di forte svantaggio economico, l’assenza di servizi e la difficoltà nel reperire magari le risorse utili per una condizione di benessere minimo delineano una frattura profonda e persistente tra le aree del Paese. Sul totale della popolazione nazionale in stato di deprivazione, il 52% delle persone in questa condizione si trova nel Sud. “Questa non è soltanto una fotografia dell’attuale distribuzione della povertà, si legge nel Rapporto, ma rappresenta l’effetto cumulativo di disuguaglianze strutturali e storiche: accesso al lavoro stabile, qualità dei servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti), infrastrutture carenti e minori opportunità di mobilità sociale. Mentre il Nord beneficia di un tessuto produttivo più solido, di una rete di welfare locale più strutturata e di una maggiore accessibilità a servizi e opportunità, il Sud sconta ancora oggi un ritardo sistemico, che alimenta un circolo vizioso: povertà materiale che si traduce in povertà educativa e sanitaria, che a sua volta limita le possibilità di uscita dalla condizione di bisogno Italia”. “Oggi, in Italia, manca ancora un quadro strategico condiviso per affrontare la povertà alimentare in modo organico e strutturale, si sottolinea nel Rapporto di ActionAid. Sebbene la misurazione del fenomeno rappresenti un passo avanti, permangono ampi margini di miglioramento. Inoltre, essa non risulta ancora pienamente integrata nei processi decisionali né nelle politiche e programmi di contrasto. In questo quadro, rafforzare l’assistenza alimentare è importante, ma non può rappresentare l’unico asse d’intervento. (…) Per affrontare davvero la povertà alimentare serve dunque una visione sistemica, capace di tenere insieme misurazione, ascolto, co-progettazione e trasformazione. È tempo di superare l’idea che la povertà alimentare sia una mera emergenza o una responsabilità del solo terzo settore. Riconoscerla come problema strutturale vuol dire farne una priorità politica, aprire spazi di confronto e costruire risposte che non gestiscano solo il bisogno, ma ne affrontino le cause”. ActionAid propone alcune raccomandazioni di policy volte a rafforzare le risposte alla povertà alimentare, da parte tanto delle istituzioni quanto della società civile: rivedere e adattare gli strumenti di misurazione; rendere la mensa scolastica un servizio pubblico essenziale e garantito; innovare le risposte oltre la logica dell’assistenza; promuovere studi qualitativi e partecipati sul fenomeno. Qui per scaricare il Rapporto: https://www.actionaid.it/poverta-alimentare-crisi-diffusa/.   Giovanni Caprio