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Socialismo digitale in Cina: innovazione e percorsi abilitati dalla tecnologia
Nell’attuale contesto storico dominato da un’ondata globale di digitalizzazione, le tecnologie digitali stanno penetrando in ogni angolo della società con una profondità e una ampiezza senza precedenti, trasformando radicalmente i modi di produzione e di vita delle persone. Il Rapporto sul lavoro del governo 2025 propone di stimolare la vitalità […] L'articolo Socialismo digitale in Cina: innovazione e percorsi abilitati dalla tecnologia su Contropiano.
Un colpo di mano sui diritti fotografici: un emendamento rischia di paralizzare la ricerca e gli archivi italiani
Dopo il pasticcio del decreto sui diritti di riproduzione dei beni culturali, una nuova minaccia si profila per la ricerca e la valorizzazione del patrimonio fotografico italiano. Un emendamento approvato al Senato — su spinta dei fotoreporter e firmato da senatori della Lega — triplica da 20 a 70 anni la durata dei diritti sulle fotografie “semplici”, cioè quelle documentarie e non artistiche. Se la norma passasse alla Camera, interi archivi pubblici e privati dovrebbero essere chiusi o resi a pagamento, vanificando investimenti pubblici e fondi PNRR. Una misura miope e contraria alle tendenze europee, che rischia di infliggere un danno irreparabile alla conoscenza e alla memoria collettiva del Paese. Il Ministero della Cultura circa un anno e mezzo fa aveva messo una pezza a un Decreto Ministeriale relativo ai diritti di riproduzione dei beni culturali di proprietà statale, che l’anno precedente aveva fatto insorgere tutte le istituzioni culturali d’Italia. Roars se ne era occupato qui. Anche con le modifiche migliorative il provvedimento era rimasto un’assurda complicazione con errori ed anacronismi, ma almeno rimediava ai danni maggiori che avrebbe subito la ricerca e l’editoria. Ora assistiamo a una nuova puntata di questa vicenda, che ripropone il tema sotto altra forma nel silenzio generale: su pressione dei fotoreporter alcuni senatori della Lega Nord, con la lungimiranza culturale che li contraddistingue, hanno fatto votare al Senato un emendamento al decreto Disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese – DDL 1184. In sostanza la modifica sostituisce l’articolo 92 della legge 22 aprile 1941, n. 633 e porta a 70 anni dalla data di produzione dello scatto la durata del diritto esclusivo sulle fotografie che non siano “opera fotografica”. Viene così più che triplicato il termine precedente di 20 anni, che valeva per le “fotografie semplici”. Per chiarezza va specificato che con quest’ultima definizione si intendono: le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche. Non sono comprese le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili (legge n. 633 del 1941, art. 87). Dunque, non stiamo parlando delle fotografie artistiche e creative, i cui diritti scadono 70 anni dopo la morte dell’autore. È evidente che, se passasse alla Camera, la norma sarebbe devastante per la ricerca storica e la valorizzazione e divulgazione del patrimonio fotografico nazionale. Esiste infatti nelle collezioni pubbliche e private un patrimonio immenso di foto documentarie della vita e della storia del paese senza le quali non sarebbe più possibile fare ricerca e divulgazione su quel che riguarda le ultime due generazioni di italiani. Sulla base della precedente normativa – quella che prevede una protezione di 20 anni – erano state digitalizzate, catalogate e messe a disposizione della libera fruizione del pubblico intere collezioni con ingente esborso di risorse pubbliche e di fondi PNRR, investimenti che ora verrebbero completamente vanificati. I fondi degli archivi che oggi sono liberamente fruibili dovrebbero infatti essere resi accessibili solo a pagamento e nemmeno sarebbe chiaro come, visto che non si conosce o non è rintracciabile l’autore di un grandissimo numero di queste fotografie. Sarebbe di fatto la paralisi amministrativa. E ovviamente tutto ciò bloccherebbe qualsiasi ulteriore progetto rinviandolo di due giubilei, fra 50 anni, quando molti di noi non saranno più su questa terra. Inoltre, quale ente culturale acquisterebbe collezioni fotografiche sapendo di non poterle toccare per mezzo secolo? Con il rischio (diciamo la certezza) che in questa maniera interi archivi vadano perduti o dispersi. Senza parlare di chi si occupa della storia contemporanea del paese, che troverebbe enormi ostacoli non solo per la ricerca accademica, ma anche per semplice la divulgazione. Questo mentre tutto il mondo civile si sta muovendo in senso contrario verso una progressiva liberalizzazione dell’immagine per promuovere la piena fruibilità del patrimonio storico e culturale, e ovviamente in controtendenza – tanto per cambiare – con la normativa europea. In questo modo si causerebbe un danno gravissimo alla comunità per procurare un vantaggio assai modesto ai fotografi professionisti. Sono infatti solo le foto dell’attualità che hanno una valenza commerciale significativa, non certo quelle di venti anni fa e più. C’è da sperare che il Ministero della Cultura si accorga di questo assurdo autogol, motivato da una visione di straordinaria e miope grettezza, e che si opponga fermamente a una norma che contrasterebbe gli interessi e i progetti promossi dallo stesso Ministero.
Dopatevi con moderazione e andrà tutto bene
L’articolo di Marcello Oberosler, pubblicato su Il Dolomiti e qui riproposto, affronta il tema dell’uso dell’intelligenza artificiale nella scienza e nell’università, oggi sempre più diffuso e pervasivo. Dalle abitudini degli studenti ai comportamenti dei ricercatori, l’Ai è ormai parte integrante della produzione accademica, con implicazioni profonde sull’integrità della ricerca. Alberto Baccini, uno dei fondatori di ROARS, mette in guardia dai rischi di una “scienza dopata”, dove quantità e indicatori contano più della qualità. Tra linee guida inefficaci e incentivi distorti, emerge l’urgenza di un cambiamento strutturale nel modo in cui la ricerca viene valutata e finanziata. Gli studenti universitari italiani utilizzano quotidianamente l’intelligenza artificiale per cercare idee, riformulare testi, generare interi paragrafi. Si tratta di una realtà diffusa e normalizzata, di un dato di fatto: e se da un lato impressiona la rapidità con cui l’Ai è stata assorbita nel “quotidiano” degli studenti di ogni età, dall’altro preoccupa l’assenza di regolamenti chiari e di strumenti in grado di governare questo fenomeno deflagrante. Colpisce anche il fatto che (lo rivela una recente analisi di Cetu) l’uso dell’Ai cresca in modo proporzionale al livello accademico: e cioè che i dottorandi sono quelli più inclini ad integrarla nel proprio lavoro (ben l’87%) seguiti dagli studenti di laurea magistrale (84%) e quindi da quelli delle triennali (83%). Insomma, l’Ai non è uno strumento usato da “principianti” o da chi fatica a scrivere. Anzi, sembra vero esattamente l’opposto. E salendo ancora nella “gerarchia” accademica fino ad arrivare al mare magnum della ricerca universitaria, la situazione com’è? Da questa domanda partono le riflessioni di Alberto Baccini, fondatore e membro dell’Associazione Roars e professore ordinario di economia politica dell’Università di Siena. “L’impressione è che l’uso dell’intelligenza artificiale nel mondo della ricerca sia già ubiquo – racconta Baccini a il Dolomiti –. Non più di un paio di anni fa si scoprivano articoli fake andando a cercare le impronte dell’uso di traduttori automatici o di software specializzati come Mathgen (un generatore di matematica non sense) e Scigen (un generatore di articoli scientifici). Adesso l’impresa appare ancora più ardua e si ricorre all’analisi dello stile di scrittura per inferire l’uso di Llm (Large language models, ndr). Un articolo recente ha stimato che su 15 milioni di articoli di area biomedica indicizzati dal più grande magazzino di articoli medici del mondo (pubmed) ci sono evidenze che il 13,5% abbia usato Chat-gpt, con punte che arrivano al 30% per alcuni segmenti della letteratura”. Quali sono i principali rischi legati all’uso di strumenti di Ai nella redazione di paper accademici, specialmente in termini di plagio, “fabbricazione” di dati o manipolazione dei risultati? Insomma, utilizzare l’Ai rischia di compromettere l’integrità della ricerca? “La risposta è ovviamente sì. Ci tengo però a sottolineare che la scienza contemporanea, anche prima della diffusione su larga scala del Llm si stava muovendo su un pericoloso crinale in cui la cattiva scienza tendeva a scacciare quella buona. Nel mondo del publish or perish dove si pubblica per aggiungere righe al proprio curriculum in vista dell’assunzione/promozione o aumento di stipendio non conta la qualità di ciò che si pubblica, ma la quantità. Quindi avere a disposizione strumenti che facilitano la scrittura, la creazione di codice, di dati e immagini permette di migliorare i propri indicatori. Quindi perché non se ne dovrebbe fare uso, visto che la probabilità di essere scoperti e sanzionati sono estremamente basse?”.  In che modo, concretamente, si sta correndo ai ripari per mettere dei limiti al suo utilizzo nel campo della ricerca accademica? Quali misure o linee guida sono necessarie per regolamentare l’uso dell’Ai e prevenire abusi? “Domanda difficile. Non credo ci siano soluzioni semplici. Molte riviste scientifiche ormai chiedono agli autori di dichiarare se e come hanno fatto uso di Ai nel loro lavoro. Altre chiedono di dichiarare che non si è fatto uso di Ai nella scrittura e così via. Alcuni atenei in Italia e nel mondo scrivono linee guida. Sono molto scettico su questo approccio. In un mondo in cui gli scienziati rispondono agli incentivi del publish or perish e dove i governi sono interessati a scalare i ranking della scienza, pensare di arginare la cattiva scienza con le linee guida è un po’ come pensare di svuotare il mare con un cucchiaino. Senza un cambiamento strutturale del modo in cui si finanzia la ricerca, la scienza è destinata ad essere sempre più inquinata dalle cattivi pratiche” Ci possono anche essere risvolti positivi nell’utilizzo di Ai? Magari per un suo uso “etico” di chi gli elaborati li controlla e con nuovi strumenti può identificare frodi o verificare più facilmente la correttezza dei dati. “Certo, si può giocare a guardie e ladri. Con l’Ai usata per scoprire manipolazioni e frodi. Ma è un po’ la storia dell’antidoping: si mettono a punto nuove sostanze dopanti. Gli organismi anti-doping mettono a punto i test per scovare chi ne fa uso. A quel punto le vecchie sostanze vengono sostituite con nuove sostanze invisibili ai test. Gli organismi anti-doping mettono a punto nuovi test e così via. La mia impressione è che nel mondo della scienza contemporanea sia ormai diffusa una sorta di rassegnazione. Per favore dopatevi con moderazione. E noi istituzioni scientifiche e governi faremo finta che tutto vada per il meglio”.  Esistono differenze significative nell’impatto dell’Ai sulla ricerca accademica tra discipline diverse, ad esempio tra scienze naturali, sociali e umanistiche? “L’Ai può essere usata in modi molto diversi nelle diverse discipline. Non mi risulta ci siano lavori che studiano sistematicamente come l’Ai è usata nella diverse discipline. Evidenze aneddotiche mi dicono che c’è chi la usa in fase di scrittura, revisione e traduzione di testi, chi per scrivere codice di programmazione, chi per leggere o modificare immagini. Allo stato attuale mi pare che siamo in una fase di crescente espansione verso un futuro che è difficile da immaginare”.  Come sta oggi il mondo della ricerca accademica italiana? Quella della Ai è la sfida principale da affrontare o i problemi sistemici sono altri? “Credo che la ricerca italiana abbia gli stessi problemi che sono diffusi a livello globale. Con alcune peculiarità che lo rendono più soggetto alle lusinghe della cattiva scienza e del cattivo uso, per restare in tema, della Ai. Abbiamo un sistema ingessato dalla scarsità di risorse, dalla crescente precarizzazione dei ricercatori e da un sistema di valutazione amministrativa centralizzato che fa capo ad Anvur. In particolare il sistema di valutazione ha generato omologazione, autoreferenzialità e incentivato comportamenti opportunistici se non apertamente fraudolenti. L’Anvur ha concentrato il potere, sostituendo ai vecchi ‘baroni’ accademici una nuova élite tecnocratica legittimata dai suoi stessi criteri. Intanto la precarizzazione del personale ha aumentato la dipendenza dei giovani ricercatori dai gruppi dominanti. La ricerca si è uniformata ai parametri della valutazione quantitativa. Abbiamo la strada spianata verso una crescente irrilevanza. Cosa mai potrebbe andare storto lungo questa strada?”. 
“Un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura”: come ci siamo arrivati?
agghiacciante [Dorothy Bishop sul Guardian] un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura. [Adam Marcus e Ivan Oransky su The Atlantic] [Ripreso dal sito openscience.unimi.it] Un bell’articolo sul Guardian fa il punto sullo stato dell’editoria scientifica. L’autore, Ian Sample, parte dal famosissimo caso della immagine del ratto con un pene gigante che ha fatto il giro del mondo e che è stata ritirata da Frontiers tre giorni dopo la pubblicazione insieme all’articolo. Questo episodio purtroppo non è isolato, ma è la punta dell’iceberg di una situazione che Dorotyhy Bishop ha definito sempre sul Guardian agghiacciante e Marcus e Oransky “un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura“. Come siamo arrivati a questo punto? Sono in molti a interrogarsi sul futuro dell’editoria scientifica, prima fra tutti la Royal society dove si è appena tenuto un convegno sul futuro dell’editoria scientifica e che ha promesso entro la fine dell’estate un report sul tema. Ma quali sono gli aspetti che hanno modificato così profondamente l’editoria scientifica? Certamente la tecnologia che ha portato ad un incremento della produzione non necessario e spesso inutile (se non in quanto riga in più nei cv dei ricercatori). L’incremento del numero di pubblicazioni non si accompagna invece ad un aumento del numero dei revisori che abbiano voglia di dedicare tempo prezioso ad una attività che non viene riconosciuta e che se fatta con coscienza è molto impegnativa. L’insieme di tecnologia e mancanza di tempo hanno portato allo sviluppo di paper e review mills, una piaga difficile da contrastare. A proposito di riconoscimento, molti sistemi performance based incentivano la quantità (numero di pubblicazioni e numero di citazioni) portando i ricercatori ad adottare comportamenti adattativi e spesso frodatori che nulla hanno a che fare con l’amore per la scienza e per lo sviluppo della conoscenza. Anche l’open access nella versione degli editori for profit ha contribuito allo stato deprecabile della ricerca, perché ha spinto gli editori a pubblicare di più e più in fretta ricerca spesso inutile e spesso non ancora sufficientemente robusta. Un altro fenomeno che ha contribuito alla contaminazione del contesto è quello degli special issues, pubblicati spesso secondo criteri di qualità discutibili. Gli effetti sono purtroppo sotto gli occhi di tutti: la crescita e diffusione delle riviste predatorie (anche fra i big five) la crescita del numero di articoli scritti con AI, l’incremento del numero di retractions, le dimissioni di interi editorial board, la crescita dei cosidetti hijacked journals. Per Hanson et al. che hanno pubblicato lo scorso anno un importante articolo sulla pressione per pubblicare, più che il tema della frode scientifica (certamente in crescita) preoccupa l’enorme quantità di ricerche che non portano alcun contributo alla conoscenza e che però hanno un alto costo per il sistema in termini di soldi e ore uomo impiegate da tutte le persone coinvolte nel ciclo di produzione e validazione di un lavoro. Sempre Hanson et al. individuano uno dei problemi maggiori nell’editoria commerciale for profit, che per fare cassa tende a pubblicare il più possibile, anche quando la ricerca è inutile, e vedono in una editoria not for profit una possibile soluzione. Posizione diversa è invece quella degli editori for profit che attribuiscono la crescita del numero di pubblicazioni (con tutte le attività ad esse connesse) alla crescita della ricerca dei paesi emergenti (quali Cina e India ad esempio) e propongono come soluzione l’attivazione di un sistema di filtraggio migliore. Una situazione complessa dunque in cui il contesto cambia velocemente e che merita di essere seguita con grande attenzione. Sono temi che investono senza dubbio il mondo della ricerca ma anche la società che questa ricerca la finanzia e su cui sarebbe necessario discutere sia a livello istituzionale che a livello nazionale. Anche attraverso la pubblicazione di articoli informati come quelli del Guardian.
Uno studio su The Lancet mostra che le sanzioni occidentali ammazzano come una guerra
Il 25 luglio è stato pubblicato su The Lancet Global un articolo sugli effetti delle sanzioni che ha attirato molta attenzione. Lo studio, apparso su uno dei tanti rami della grande famiglia di The Lancet, una delle più rinomate riviste mediche a livello internazionale, ha calcolato che le sanzioni occidentali […] L'articolo Uno studio su The Lancet mostra che le sanzioni occidentali ammazzano come una guerra su Contropiano.
La nuova via della salute: la diplomazia medica di Iran, Cuba e l’Africa
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Come ti riconosco un LLM in 7 personaggi
Da un po’ di tempo stiamo provando a fare chiarezza sui temi della data science — abbiamo anche scritto un libello. Ultimamente, vista la confusione crescente, ci stiamo concentrando molto sui LLM (Large Language Model). Cerco di raccontare quello che so, quello che sto studiando, e quello che ho capito […] L'articolo Come ti riconosco un LLM in 7 personaggi su Contropiano.