Scuola e lavoro, ma per quale mercato?Il “ritorno” alla formazione scuola e lavoro avviene nel tempo in cui il mercato
sarà centrato sul riarmo globale e, per noi, ciò rappresenta un grave problema
etico ed educativo.
Quest’anno, come era prevedibile, infurierà sulla scuola un forte vento. Al
successo dello sciopero del 22 settembre hanno indubbiamente contribuito anche
insegnanti, personale a.t.a., studenti e studentesse. Diversi per età,
convinzioni politiche e religiose, appartenenze geografiche, tutti si sono
ritrovati accomunati da un unico movente etico. Nella convinzione che la scuola
come comunità educante abbia anche un ruolo nella formazione dell’opinione
pubblica del paese (sempre nel rispetto della libertà personale di opinione e di
scelta).
Alla buriana in corso potrebbe contribuire una situazione analoga in termini di
valori in gioco, seppur di diversa gravità etica (soprattutto per la quantità
decisamente minore di morte – e di morti – direttamente prodotta). Anche
quest’anno, infatti, la scuola italiana deve fare i conti con una riforma
pubblicata in piena estate e, come spesso avviene, non pensata né discussa
insieme a coloro che devono poi applicarla e viverla. Si tratta della
ridefinizione dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO)
come Formazione scuola-lavoro, proprio per “evidenziare la stretta relazione che
deve esservi tra formazione scolastica e mondo del lavoro” (comunicato
ministeriale che relaziona sulle principali misure del D.L. 4-09-25).
Leggendo Il DM 133/25 del MIM (ministero istruzione e merito) e il DL del
4-09-25, l’intenzionalità del legislatore risulta però pienamente disvelata: si
tratta di un’autentica ‘contro-riforma’ dei percorsi istituiti nel 2018 (L.
145/18) e attuati nel 2019 (DM 774/19). Questi percorsi erano stati pensati, a
partire dalle richieste del mondo della scuola, sia per correggere le
fallimentari disfunzionalità evidenziatesi (specialmente nei licei) durante il
bienno 2015-2017 in merito all’Alternanza Scuola Lavoro (istituita dalla
L.107/15 – più nota come la ‘Buona Scuola’ di Matteo Renzi), sia per ricondurre
nell’alveo dell’Orientamento (vocazionale) il pur fondamentale momento
pratico-esperienziale della verifica/valorizzazione della propria vocazione e
dell’ambito lavorativo in cui cimentare i propri talenti.
Ora, però, il nuovo istituto della Formazione Lavoro ripristina ex abrupto le
caratteristiche fondamentali della L. 107/2015, in assenza del minimo confronto
non solo con i professionisti della scuola e le loro associazioni, ma anche con
gli stessi ‘utenti’ (famiglie e studenti) e relative associazioni. I problemi,
ovviamente, non nascono soltanto dal metodo seguito – che con le parole di Papa
Francesco potremmo definire indietrista – bensì consistono anche e soprattutto
nel merito perseguito.
La nuova configurazione dell’istituto, infatti, stravolge caratteri e finalità
dell’esperienza formativa relativamente ai seguenti profili epistemologici:
1] filosofico e antropologico –
Il centro del percorso cessa di essere la persona umana in formazione (bildung),
il rafforzamento riflessivo delle sue competenze umane trasversali (relazionali,
civiche e sociali) e l’orientamento culturale (disciplinare e transdisciplinare,
formale e informale): tutti finalizzati all’attingimento di una più profonda
consapevolezza e conoscenza del sé, nella graduale costruzione del proprio
progetto personale di vita. Tali finalità sono “trasformate” (per utilizzare la
terminologia ministeriale) da un approccio materialisticamente orientato al
mercato, secondo una razionalità puramente strumentale implicante – sin dagli
iniziali processi formativi scolastici dell’adolescente – la reificazione della
persona umana a merce di scambio. In luogo dell’essere umano in formazione, asse
del processo (ora sempre più simile ad un ‘addestramento’) divengono: “i
fabbisogni professionali del territorio”, “l’occupabilità”, “il lavoro e le
imprese”, “la transizione verso opportunità di apprendistato”, “la realizzazione
di un output tangibile, come un prodotto o un servizio, che risponda a un
bisogno reale e abbia un impatto misurabile, dimostrando quindi di avere una
capacità di generare valore aggiunto” (cf. D.M. 133/25 art. 2.).
Ed infatti, laddove il PCTO privilegiava l’affiancamento personalizzato dello
studente in enti partner di ambito sociale, culturale, accademico,
professionale, che consentissero una curvatura altamente personalizzata del
processo di formazione, il reintegro della difettosa (alla radice) impostazione
ASL sposta invece esplicitamente e ripetutamente l’orizzonte verso esperienze di
natura massiva (cf. “efficacia e replicabilità della pratica in contesti
territoriali differenti, senza perdere la propria funzionalità”, etc.) e
imprenditoriale (cf. “tutor aziendale”, menzionato 2 volte; “in sinergia con le
politiche locali per le imprese”, etc.). In tal modo, tra l’altro, si
contraddicono le best practices in uso in tutti i principali sistemi di
istruzione e formazione europei che ancora presentano l’opzione liceale
all’interno dei propri curricula di istruzione secondaria superiore
(principalmente quelli di lingua tedesca, francese e spagnola). Tali pratiche
riconoscono l’esplicito orientamento e finalizzazione della formazione liceale
alla preparazione del proseguimento degli studi in ambito accademico e
universitario, ed escludono in tale indirizzo di istruzione superiore l’istituto
dell’“alternanza scuola-lavoro” in ogni sua forma (c.d. sistema “duale”).
2] economico, educativo ed etico –
La teoria e i dati macroeconomici degli ultimi trent’anni hanno ampiamente
mostrato il fallimento di una politica economica univocamente orientata:
a) alla supply-side economics di impronta ideologica monetarista e neoliberista;
b) a una visione mercantilistica export-led non trainata da forti investimenti
pubblici e privati in ricerca e sviluppo di know-how culturale e tecnologico, ma
esclusivamente perseguita mediante il dumping sociale (compressione delle
dinamiche salariali e del rapporto redditi da lavoro vs. profitti e rendite,
delle tutele dei lavoratori e della sicurezza sui luoghi di lavoro sino a
raggiungere l’ultimo posto tra i paesi OCSE sotto il profilo delle retribuzioni,
dei servizi pubblici essenziali alla persona, in special modo sanità e
istruzione; aumento del gender gap e artificioso spostamento della fascia degli
occupati da quella giovanile a quella anziana attraverso il forzoso
trattenimento in servizio legato al progressivo aumento dell’età pensionistica);
c) alla compressione e mortificazione della domanda interna aggregata (crollo
degli investimenti pubblici e del potere d’acquisto delle famiglie);
d) alla ‘miope’ strategia di desertificazione industriale, produttiva e
manifatturiera (specie nei settori strategici ad alto know-how culturale e
tecnologico) consapevolmente perseguita attraverso successive ondate di
privatizzazione e delocalizzazione della produzione e dei servizi;
e) alla progressiva transizione verso settori occupazionali caratterizzati da
basse qualificazioni e retribuzioni (overtourism, ristorazione e settori
ricreativi), con l’unica eccezione (eticamente riprovevole) dell’industria di
produzione degli armamenti (ultimo esempio: l’acquisizione nella partecipata
statale Leonardo dell’area militare Iveco, seguita all’ennesima dismissione di
un asset produttivo e tecnologico strategico del sistema-paese), che colloca
l’Italia tra i paesi leader mondiali nell’export di armi – anche a governi sui
cui rappresentanti pendono mandati di arresto per crimini di guerra e contro
l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale dell’Aja – e in quanto tale
corresponsabile della distruzione di vite umane e dell’ambiente.
In questo contesto macroeconomico e sociale – il cui fallimento è stato
confermato al Meeting di Rimini anche da chi, come Draghi o Vittadini, lo ha
sostenuto fino all’ultimo e che costringe ogni anno 15mila giovani
laureati high-skilled ad abbandonare il Paese verso mete estere – la
reintroduzione dell’alternanza/formazione scuola-lavoro anche nel settore
liceale sembra non poter sfuggire all’eterogenesi del fine di ‘addestrare’ gli
studenti sin dalla giovanissima età a una strumentale logica di mercato, nella
quale l’occupazione (anche se in crescita) corrisponde a lavori non più
remunerati in modo degno, né qualificati, sicuri e stabili (artt. 35-38, Cost.),
ma a lavori ormai privi di tutele e generalmente caratterizzati da precariato,
sfruttamento e bassi salari. Ciò, ovviamente, è assai discutibile sotto il
profilo etico ed educativo. Soprattutto se il mercato futuro sarà dominato da
quello delle armi e se i corpi dei nostri giovani saranno merce di scambio per
pallottole indifferenti a chi ha «lo stesso identico umore ma la divisa di un
altro colore». Ci sarebbero, dunque, tutti gli estremi per una profonda e
consapevole scelta di obiezione di coscienza, fondata sui principi e valori
della carta costituzionale, nonché sulla ricca tradizione dell’insegnamento
sociale delle Chiese (culminata nell’enciclica Laudato si’ e nell’esortazione
apostolica Laudate Deum di Francesco, nel magistero ordinario di Francesco e
Leone XIV, del patriarca ecumenico Bartolomeo I e dei responsabili delle chiese
cristiane e delle altre religioni).
In ogni caso, alla luce di tale ‘contro-riforma’, ci chiediamo che fine faranno
molti dei percorsi effettuati nei precedenti anni scolastici e vivamente
apprezzati da studenti e famiglie (Cooperativa Roma Solidarietà, Casa di
Pulcinella, Penny Wirton, Differenza Donna); o se potremo inaugurare percorsi
nuovi come quelli proposti dalla rettoria maggiore dei Salesiani di Don Bosco
(SDB) con sede in via Marsala a Roma. Nessuno (o quasi nessuno) di questi
percorsi risponde ai requisiti dettati dalla nuova normativa riguardante la
“Scuola-Lavoro” (inclusa la “replicabilità della pratica in contesti
territoriali differenti”).
Sono, infatti, tutti percorsi di formazione e pratica civica e sociale,
attentamente studiati e curvati sui bisogni formativi delle singole persone
(studenti/esse) che si impegnano in essi, lontani da un modello di management
massivo, standardizzato e uniformante. Il docente tutor interno mantiene
costante contatto con ciascuna/o delle studentesse e studenti impegnate/i,
nonché con il referente (tutor esterno) che li affianca (ruolo talora ricoperto
corresponsabilmente da più di una figura all’interno del medesimo percorso, al
fine di realizzare il massimo grado di personalizzazione e inclusione
nell’accoglienza e accompagnamento dell’alunna/o ospitata/o).
Certo, immaginiamo che studenti, famiglie, colleghi e dirigente ci chiederanno
di proseguirli, dato che sono percorsi pregni di attenzione personalistica ai
bisogni formativi di studentesse e studenti (non necessariamente sovrapponibili
ai “bisogni professionali del territorio”). Ma perché ciò dovrà avvenire non con
il sostegno e il supporto della normativa di riferimento, ma in un certo
senso contra legem? Perché ciò dovrà avvenire in modo tale da apparire una
forma resistenza politica e non invece un virtuoso e reciproco arricchimento tra
comunità scolastica locale ed istituzione politico-amministrativa centrale? A
quale “albero” prodest questo ennesimo “frutto” che “sa” solo di scollamento
istituzionale e di polarizzazione della comunità educante?
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