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Per Piantedosi l’Università di Bologna ha negato il diritto allo studio a 15 militari: ministro, mi vergogno di Lei
Mi auguro fortemente che l’Università di Bologna La quereli per le Sue dichiarazioni false e infamanti Non volevo credere a quanto riportato dal Fatto Quotidiano, perciò sono andato direttamente alla Sua pagina Facebook, Ministro Piantedosi, per controllare. Ebbene sì, Lei scrive: “Una decisione incomprensibile quella di alcuni professori dell’Università di Bologna che hanno negato a un gruppo selezionato di 15 giovani Ufficiali dell’Esercito dell’Accademia di Modena la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia, nel timore di una presunta ‘militarizzazione dell’Ateneo’.” E ancora: “Infine, a questi professori e ai sostenitori di tale scelta voglio ricordare che gli Ufficiali a cui è stato negato il diritto allo studio hanno giurato sulla Costituzione […]”. Ma scherziamo? “Negata la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia”? “Negato il diritto allo studio”? Vede, Ministro Piantedosi, la Presidente del Consiglio sta (quasi) sempre molto attenta nel dosare le parole. L’ha fatto anche questa volta, dicendo chiaramente quello che è successo (la mancata istituzione di un Corso di Laurea ad hoc) e commentandolo dal suo punto di vista. Come tutti i politici di destra, sinistra e centro di ogni tempo, l’On. Meloni è un’artista nel dichiarare la parte di verità che torna utile alle sue tesi; come tutti i politici intelligenti, riesce perciò a plasmare la realtà a suo vantaggio, senza dire vere e proprie bugie. Quello che Lei ha scritto, e che ognuno può verificare di persona, è una scandalosa bugia, pura e semplice. Non sono sempre d’accordo con la gestione dell’Ateneo di Bologna, di cui mi onoro ancora di far parte; proprio negli ultimi tempi, certe decisioni mi hanno fortemente contrariato. D’altra parte capisco le remore, da parte del Dipartimento interessato, a istituire un Corso di Laurea su misura per una ristrettissima classe di cittadini. Tutte cose di cui si può discutere. Ma a nessuno viene negata la possibilità di frequentare un corso di laurea, a nessuno è negato il diritto allo studio. Mi auguro fortemente che l’Università di Bologna La quereli per le Sue dichiarazioni false e infamanti. Come Ufficiale di complemento in congedo, fiero di esserlo, e come Professore dell’Alma Mater, fiero di esserlo, mi vergogno di Lei. Pubblicato su Il Fatto Quotidiano 
I precari INGV sulla legge di bilancio
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta inviata dai precari INGV al ministro Bernini. Segue il testo. lettera precari INGV Qui il link all’elenco dei firmatari.
Contrordine compagni!
Nei giorni scorsi si è consumata in breve tempo una vicenda alquanto sconcertante a causa di una circolare (133/2025) del Ministero della Cultura (MiC). Lunedì 10 novembre, infatti, era stata pubblicata la circolare che accompagnava il decreto 1335 della Direzione Generale Risorse Umane e Organizzazione per l’adozione di un nuovo Ordinamento professionale del personale non dirigenziale del Ministero della Cultura. L’attenzione degli addetti ai lavori si è subito appuntata su una novità riguardante l’area funzionari di ambito tecnico-specialistico, che comprende 15 diversi profili, tra i quali quelli di funzionario Architetto, Storico dell’Arte, Archeologo, Archivista e Bibliotecario, per i quali in precedenza era richiesto un profilo culturale particolarmente elevato, con un titolo di studio di III livello (Scuola di specializzazione, Dottorato di ricerca, in alcuni casi Master di II livello). Si trattava di una peculiarità che derivava dalla natura specificamente tecnica di questo ministero, per lo meno nell’idea di Spadolini che ne era stato il fondatore, e che lo differenziava da altri ministeri di natura più amministrativo-gestionale. L’elevata qualificazione (che – sia chiaro – non corrisponde purtroppo a una retribuzione superiore) intende garantire la qualità della direzione di opere molto impegnative, quali i restauri architettonici, gli scavi archeologici, gli ordinamenti e allestimenti di musei, archivi e biblioteche, senza contare pianificazione territoriale, piani paesaggistici etc. Nel nuovo ordinamento, invece, i titoli di terzo livello erano improvvisamente spariti e sarebbe bastata una laurea magistrale per accedere al ruolo, con un conseguente abbassamento della qualificazione. Dunque, in un contesto sociale e culturale sempre più complesso, che richiede competenze sempre più spinte, e pur in presenza di candidati che si presentano al concorso con curricula ricchissimi si sarebbe abbassato il livello di selezione. Questo significa innanzitutto che i funzionari sono ormai considerati passacarte a cui non serve una competenza particolarmente spinta, anzi sembrerebbe che tale competenza sia vista come un ostacolo all’intercambiabilità dei ruoli. D’altronde già adesso con la riforma della dirigenza si può mandare, che so, un archeologo a dirigere un archivio o uno storico a dirigere un museo di storia dell’arte. In secondo luogo, il Ministero che si definisce pomposamente “della Cultura” con questo provvedimento avrebbe abbassato il livello culturale dei suoi funzionari di punta, contraddicendo il suo stesso nome e facendo la guerra al Ministero dell’Università (MUR). Infatti, chi sarebbe stato interessato a iscriversi alle Scuole di Specializzazione dei vari indirizzi presenti in numerose università italiane quando veniva meno lo scopo principale per il quale tali scuole erano state istituite? Oltretutto non risulta che tale provvedimento sia stato preceduto da alcuna consultazione con il MUR, pur avendo un impatto devastante su corsi prestigiosi. Inoltre, mentre ci si sforza di valorizzare il dottorato di ricerca per la Pubblica Amministrazione, con questa circolare il MiC avrebbe buttato nel cestino il titolo. Si sa d’altronde da tempo che tra MiC e MUR non c’è comunicazione, come dimostrano provvedimenti che manifestano una chiara schizofrenia di stato (si pensi alla questione dei diritti di riproduzione delle opere di proprietà statale o a quella degli archivi fotografici), ma non si era ancora arrivati alla guerra aperta. Il provvedimento, inoltre, era devastante perfino per i corsi dipendenti dallo stesso MiC: si pensi ai corsi di archivistica degli Archivi di stato, mentre per gli archeologi esistono borse per frequentare un periodo ulteriore di formazione alla Scuola Archeologica di Atene, gloriosa e antica istituzione di eccellenza attraverso la quale è passato il fior fiore dei nostri ispettori e soprintendenti archeologi. Non a caso la Scuola dipende dal MiC e non dal MUR, benché sia diretta da un professore universitario. Pare che la Direzione Generale responsabile del provvedimento non sapesse che una circolare interna del ministero non può modificare un Decreto Ministeriale, nella fattispecie il DM 244 del 20 maggio 2019, ossia il Regolamento concernente la procedura per la formazione degli elenchi nazionali dei funzionari del ruolo tecnico-scientifico, con il relativo Allegato che elenca competenze e requisiti, frutto di un lungo processo di elaborazione e di interlocuzione con tutte le rappresentanze professionali, accademiche e sindacali. Per amore di discussione facciamo l’ipotesi ora che, sulla base della nuova normativa, si fosse svolto un concorso e che lo avesse vinto un archeologo. Una volta preso servizio, questi avrebbe scoperto che, pur essendo funzionario, non gli sarebbe stato possibile svolgere alcune attività che sono tra le più caratterizzanti del suo ruolo, come la valutazione della documentazione per la verifica preventiva dell’interesse archeologico, che deve essere redatta da soggetti che dispongano di specializzazione o dottorato (D.Lgs. 36/2023 allegato I.8, art. 1, c.2), oppure come la direzione di indagini di archeologia preventiva con la conseguente emissione del Documento Finale previsto dal codice degli appalti (Lgs 50/2016 art. 25, c. 1). Un magnifico risultato davvero: funzionari che non possono funzionare! Fin qui si è parlato al passato e il lettore si sarà domandato perché. La risposta è semplice: il mondo della cultura e in particolare quello degli archeologi attraverso le associazioni che li rappresentano (professionisti, accademici, funzionari, sindacati) è insorto nel giro di 48 ore attivandosi sia con interlocuzioni dirette che indirizzando al ministro un duro comunicato che stigmatizzava il provvedimento, mostrandone tutte le inconsistenze e patenti contraddizioni. Anche associazioni professionali di altre categorie si sono espresse nello stesso senso qui e qui. Qualcuno ai piani alti pare che alla fine si sia reso conto dell’assurdità della cosa, per cui già mercoledì 12 il MiC ha pubblicato la circolare 57, che ha annullato la circolare 133 e il relativo decreto direttoriale DG RUO n. 1335. Ovviamente la marcia indietro è stata grandemente apprezzata da tutti gli interessati, ma ancor più apprezzabile sarebbe stato evitare una simile brutta figura, che rivela quale sia la considerazione delle competenze più avanzate in alcune stanze ministeriali e – ancor più preoccupante – quale sia il livello di competenza in alcune stanze ministeriali. Nonostante il lieto fine, c’è ora da vigilare attentamente per evitare che un simile tentativo sia riproposto, magari in forme addolcite.
Valditara e Nordio concordano: il sovraffollamento è positivo a scuola e in carcere
Le dichiarazioni politiche nel nostro Paese stanno toccando in queste settimane vette di rigore logico-argomentativo che difficilmente dimenticheremo. Il Ministro Valditara, dell’Istruzione e del Merito, nel suo recente intervento al forum Welfare Italia, ha dichiarato che: “Il numero degli alunni per classe non fa la differenza”. Al contrario,  “studi dell’Invalsi ci confermano che quando il rapporto docenti-studenti è troppo basso il rendimento non migliora, anzi peggiora”.   A seguire, il Ministro della Giustizia Nordio, nel suo intervento alla cerimonia celebrativa sulla legge di ordinamento penitenziario “I suicidi ai quali assistiamo non sono per niente collegati al sovraffollamento. Semmai, paradossalmente è il contrario. Il sovraffollamento è una forma di controllo reciproco tra chi sta in carcere e molti suicidi sono stati sventati proprio perché c’era il controllo dei co-detenuti. Il sovraffollamento determina semmai l’aggressività, ma quello che determina il suicidio è la solitudine”.   Quindi in classe come in carcere il sovraffollamento è un vantaggio. Per la scuola lo “dimostra” l’INVALSI, che probabilmente avrà fornito i dati anche a Nordio per le carceri. Come interpretare queste uscite istituzionali? Lettura frettolosa di dati compiacenti? Pessime freddure? Prove di attenzione dell’uditorio? Rievocazione di schemi antichi (più si è meglio è)? Crediamo si tratti di altro. Una sfacciata dimostrazione di autorità: parole che calpestano il senso di chi le carceri e le scuole le conosce davvero, che sviliscono l’intelligenza di chi nelle carceri e nelle scuole ci lavora. Un’ ennesima prova delle modalità di governo verso cui siamo scivolati e che adesso trovano la sintesi compiuta nel Valditara-Nordio pensiero: la legge del più forte, la cui parola vale più di qualsiasi altra, proclamata pur contro ogni logica.    
Lettera aperta al Ministro Giuli sulla proposta di riforma legislativa volta all’estensione a 70 anni dei diritti esclusivi sulle fotografie semplici
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta indirizzata al Ministro Giuli sulla proposta di riforma legislativa volta all’estensione a 70 anni dei diritti esclusivi sulle fotografie semplici, firmata da numerose società disciplinari, associazioni e soci dell’Accademia dei Lincei. Segue il testo. Lettera aperta al Ministro della Cultura – DDL 1184 Senato
Scuola e lavoro, ma per quale mercato?
Il “ritorno” alla formazione scuola e lavoro avviene nel tempo in cui il mercato sarà centrato sul riarmo globale e, per noi, ciò rappresenta un grave problema etico ed educativo. Quest’anno, come era prevedibile, infurierà sulla scuola un forte vento. Al successo dello sciopero del 22 settembre hanno indubbiamente contribuito anche insegnanti, personale a.t.a., studenti e studentesse. Diversi per età, convinzioni politiche e religiose, appartenenze geografiche, tutti si sono ritrovati accomunati da un unico movente etico. Nella convinzione che la scuola come comunità educante abbia anche un ruolo nella formazione dell’opinione pubblica del paese (sempre nel rispetto della libertà personale di opinione e di scelta). Alla buriana in corso potrebbe contribuire una situazione analoga in termini di valori in gioco, seppur di diversa gravità etica (soprattutto per la quantità decisamente minore di morte – e di morti – direttamente prodotta). Anche quest’anno, infatti, la scuola italiana deve fare i conti con una riforma pubblicata in piena estate e, come spesso avviene, non pensata né discussa insieme a coloro che devono poi applicarla e viverla. Si tratta della ridefinizione dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO) come Formazione scuola-lavoro, proprio per “evidenziare la stretta relazione che deve esservi tra formazione scolastica e mondo del lavoro” (comunicato ministeriale che relaziona sulle principali misure del D.L. 4-09-25). Leggendo Il DM 133/25 del MIM (ministero istruzione e merito) e il DL del 4-09-25, l’intenzionalità del legislatore risulta però pienamente disvelata: si tratta di un’autentica ‘contro-riforma’ dei percorsi istituiti nel 2018 (L. 145/18) e attuati nel 2019 (DM 774/19). Questi percorsi erano stati pensati, a partire dalle richieste del mondo della scuola, sia per correggere le fallimentari disfunzionalità evidenziatesi (specialmente nei licei) durante il bienno 2015-2017 in merito all’Alternanza Scuola Lavoro (istituita dalla L.107/15 – più nota come la ‘Buona Scuola’ di Matteo Renzi), sia per ricondurre nell’alveo dell’Orientamento (vocazionale) il pur fondamentale momento pratico-esperienziale della verifica/valorizzazione della propria vocazione e dell’ambito lavorativo in cui cimentare i propri talenti. Ora, però, il nuovo istituto della Formazione Lavoro ripristina ex abrupto le caratteristiche fondamentali della L. 107/2015, in assenza del minimo confronto non solo con i professionisti della scuola e le loro associazioni, ma anche con gli stessi ‘utenti’ (famiglie e studenti) e relative associazioni. I problemi, ovviamente, non nascono soltanto dal metodo seguito – che con le parole di Papa Francesco potremmo definire indietrista – bensì consistono anche e soprattutto nel merito perseguito. La nuova configurazione dell’istituto, infatti, stravolge caratteri e finalità dell’esperienza formativa relativamente ai seguenti profili epistemologici: 1] filosofico e antropologico – Il centro del percorso cessa di essere la persona umana in formazione (bildung), il rafforzamento riflessivo delle sue competenze umane trasversali (relazionali, civiche e sociali) e l’orientamento culturale (disciplinare e transdisciplinare, formale e informale): tutti finalizzati all’attingimento di una più profonda consapevolezza e conoscenza del sé, nella graduale costruzione del proprio progetto personale di vita. Tali finalità sono “trasformate” (per utilizzare la terminologia ministeriale) da un approccio materialisticamente orientato al mercato, secondo una razionalità puramente strumentale implicante – sin dagli iniziali processi formativi scolastici dell’adolescente – la reificazione della persona umana a merce di scambio. In luogo dell’essere umano in formazione, asse del processo (ora sempre più simile ad un ‘addestramento’) divengono: “i fabbisogni professionali del territorio”, “l’occupabilità”, “il lavoro e le imprese”, “la transizione verso opportunità di apprendistato”, “la realizzazione di un output tangibile, come un prodotto o un servizio, che risponda a un bisogno reale e abbia un impatto misurabile, dimostrando quindi di avere una capacità di generare valore aggiunto” (cf. D.M. 133/25 art. 2.). Ed infatti, laddove il PCTO privilegiava l’affiancamento personalizzato dello studente in enti partner di ambito sociale, culturale, accademico, professionale, che consentissero una curvatura altamente personalizzata del processo di formazione, il reintegro della difettosa (alla radice) impostazione ASL sposta invece esplicitamente e ripetutamente l’orizzonte verso esperienze di natura massiva (cf. “efficacia e replicabilità della pratica in contesti territoriali differenti, senza perdere la propria funzionalità”, etc.) e imprenditoriale (cf. “tutor aziendale”, menzionato 2 volte; “in sinergia con le politiche locali per le imprese”, etc.). In tal modo, tra l’altro, si contraddicono le best practices in uso in tutti i principali sistemi di istruzione e formazione europei che ancora presentano l’opzione liceale all’interno dei propri curricula di istruzione secondaria superiore (principalmente quelli di lingua tedesca, francese e spagnola). Tali pratiche riconoscono l’esplicito orientamento e finalizzazione della formazione liceale alla preparazione del proseguimento degli studi in ambito accademico e universitario, ed escludono in tale indirizzo di istruzione superiore l’istituto dell’“alternanza scuola-lavoro” in ogni sua forma (c.d. sistema “duale”). 2] economico, educativo ed etico – La teoria e i dati macroeconomici degli ultimi trent’anni hanno ampiamente mostrato il fallimento di una politica economica univocamente orientata: a) alla supply-side economics di impronta ideologica monetarista e neoliberista; b) a una visione mercantilistica export-led non trainata da forti investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo di know-how culturale e tecnologico, ma esclusivamente perseguita mediante il dumping sociale (compressione delle dinamiche salariali e del rapporto redditi da lavoro vs. profitti e rendite, delle tutele dei lavoratori e della sicurezza sui luoghi di lavoro sino a raggiungere l’ultimo posto tra i paesi OCSE sotto il profilo delle retribuzioni, dei servizi pubblici essenziali alla persona, in special modo sanità e istruzione; aumento del gender gap e artificioso spostamento della fascia degli occupati da quella giovanile a quella anziana attraverso il forzoso trattenimento in servizio legato al progressivo aumento dell’età pensionistica); c) alla compressione e mortificazione della domanda interna aggregata (crollo degli investimenti pubblici e del potere d’acquisto delle famiglie); d) alla ‘miope’ strategia di desertificazione industriale, produttiva e manifatturiera (specie nei settori strategici ad alto know-how culturale e tecnologico) consapevolmente perseguita attraverso successive ondate di privatizzazione e delocalizzazione della produzione e dei servizi; e) alla progressiva transizione verso settori occupazionali caratterizzati da basse qualificazioni e retribuzioni (overtourism, ristorazione e settori ricreativi), con l’unica eccezione (eticamente riprovevole) dell’industria di produzione degli armamenti (ultimo esempio: l’acquisizione nella partecipata statale Leonardo dell’area militare Iveco, seguita all’ennesima dismissione di un asset produttivo e tecnologico strategico del sistema-paese), che colloca l’Italia tra i paesi leader mondiali nell’export di armi – anche a governi sui cui rappresentanti pendono mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale dell’Aja – e in quanto tale corresponsabile della distruzione di vite umane e dell’ambiente. In questo contesto macroeconomico e sociale – il cui fallimento è stato confermato al Meeting di Rimini anche da chi, come Draghi o Vittadini, lo ha sostenuto fino all’ultimo e che costringe ogni anno 15mila giovani laureati high-skilled ad abbandonare il Paese verso mete estere – la reintroduzione dell’alternanza/formazione scuola-lavoro anche nel settore liceale sembra non poter sfuggire all’eterogenesi del fine di ‘addestrare’ gli studenti sin dalla giovanissima età a una strumentale logica di mercato, nella quale l’occupazione (anche se in crescita) corrisponde a lavori non più remunerati in modo degno, né qualificati, sicuri e stabili (artt. 35-38, Cost.), ma a lavori ormai privi di tutele e generalmente caratterizzati da precariato, sfruttamento e bassi salari. Ciò, ovviamente, è assai discutibile sotto il profilo etico ed educativo. Soprattutto se il mercato futuro sarà dominato da quello delle armi e se i corpi dei nostri giovani saranno merce di scambio per pallottole indifferenti a chi ha «lo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore».  Ci sarebbero, dunque, tutti gli estremi per una profonda e consapevole scelta di obiezione di coscienza, fondata sui principi e valori della carta costituzionale, nonché sulla ricca tradizione dell’insegnamento sociale delle Chiese (culminata nell’enciclica Laudato si’ e nell’esortazione apostolica Laudate Deum di Francesco, nel magistero ordinario di Francesco e Leone XIV, del patriarca ecumenico Bartolomeo I e dei responsabili delle chiese cristiane e delle altre religioni). In ogni caso, alla luce di tale ‘contro-riforma’, ci chiediamo che fine faranno molti dei percorsi effettuati nei precedenti anni scolastici e vivamente apprezzati da studenti e famiglie (Cooperativa Roma Solidarietà, Casa di Pulcinella, Penny Wirton, Differenza Donna); o se potremo inaugurare percorsi nuovi come quelli proposti dalla rettoria maggiore dei Salesiani di Don Bosco (SDB) con sede in via Marsala a Roma. Nessuno (o quasi nessuno) di questi percorsi risponde ai requisiti dettati dalla nuova normativa riguardante la “Scuola-Lavoro” (inclusa la “replicabilità della pratica in contesti territoriali differenti”). Sono, infatti, tutti percorsi di formazione e pratica civica e sociale, attentamente studiati e curvati sui bisogni formativi delle singole persone (studenti/esse) che si impegnano in essi, lontani da un modello di management massivo, standardizzato e uniformante. Il docente tutor interno mantiene costante contatto con ciascuna/o delle studentesse e studenti impegnate/i, nonché con il referente (tutor esterno) che li affianca (ruolo talora ricoperto corresponsabilmente da più di una figura all’interno del medesimo percorso, al fine di realizzare il massimo grado di personalizzazione e inclusione nell’accoglienza e accompagnamento dell’alunna/o ospitata/o). Certo, immaginiamo che studenti, famiglie, colleghi e dirigente ci chiederanno di proseguirli, dato che sono percorsi pregni di attenzione personalistica ai bisogni formativi di studentesse e studenti (non necessariamente sovrapponibili ai “bisogni professionali del territorio”). Ma perché ciò dovrà avvenire non con il sostegno e il supporto della normativa di riferimento, ma in un certo senso contra legem? Perché ciò dovrà avvenire in modo tale da apparire una forma resistenza politica e non invece un virtuoso e reciproco arricchimento tra comunità scolastica locale ed istituzione politico-amministrativa centrale? A quale “albero” prodest questo ennesimo “frutto” che “sa” solo di scollamento istituzionale e di polarizzazione della comunità educante? Link originale 
Dare un governo alle Università o dare le Università al Governo?
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente documento della Rete 29 Aprile    In poche ore ci siamo imbattuti: 1. in un documento in cui il Segretario Generale del Ministero, il sempre-verde Marco Mancini, velatamente invita i Rettori a mettere in riga gli studenti (ma è questo il suo compito?); 2. nel documento in cui la neo-presidente della CRUI, Laura Ramacciotti da indicazioni precise su come gestire l’accoglienza degli studenti Palestinesi in arrivo (si spera presto) da Gaza, senza in nessun modo preoccuparsi dei tanti problemi pratici che questi studenti in fuga da un orrore infinito dovranno affrontare, ma preoccupandosi di ricordare che “soggetti istituzionali […] avrebbero piacere di figurare nelle iniziative di destinate a rendere visibili gli arrivi”; 3. nella orribile riforma dell’ANVUR che sempre più si occuperà dei processi formativi e che colloca l’Agenzia sotto stretto controllo governativo. In questo crescendo di sgomento, abbiamo avuto modo di visionare alcune bozze, con ogni probabilità derivanti dalla Commissione presieduta da Ernesto Galli della Loggia, relative alla riforma della gestione delle Università. L’università che queste bozze disegnano rafforzerebbe i potentati locali (il Direttore per i dipartimenti, il Rettore per gli atenei) ma aggiungerebbe un livello superiore di controllo, in capo addirittura al Governo. Volendola riassumere in una battuta, questa riforma trasformerebbe il rettore da “uomo solo al comando” a “uomo (filo-governativo) solo al comando”. La portata delle riforme trapelate sarebbe tale da prevedere l’obbligo di rivedere tutti gli Statuti e, come già fatto in passato, “regalerebbe” ai rettori in carica – il cui mandato di sei anni è già estremamente lungo – una proroga. Qualcuno potrebbe interpretarla come una moneta di scambio. Noi speriamo vivamente che non si sia arrivati a livelli così miserabili. Proviamo a entrare nel merito di alcuni degli aspetti che ci sembrano più rilevanti, iniziando dall’ingerenza del governo sugli Atenei. Gli ultimi anni ci hanno insegnato che una potente leva di controllo in mano al Governo esiste già ed è stata ampiamente utilizzata da tutti i governi degli ultimi venti anni: la leva economica. Centellinando le risorse e indirizzandole, già da tempo infatti si “pilota” quella che dovrebbe essere l’autonomia degli Atenei. Lampante è, ad esempio, la leva strumentale dei cosiddetti “punti organico”, unità di conto che impediscono agli Atenei – perfino a quelli che avrebbero risorse – di poter assumere personale. In questa ipotesi di riforma tuttavia si andrebbe oltre, giacché si prevedrebbe un’ingerenza diretta del Governo all’interno del Consiglio di Amministrazione. Questo si realizzerebbe attraverso l’obbligo di ogni Ateneo di far sedere nel CdA un componente nominato dal Ministro (magari un giorno, chissà, potrebbe addirittura presiederlo il CdA!). L’ingerenza della politica sulle università non si limiterebbe a questo, ma passerebbe anche dall’imposizione di due componenti nel CdA da parte degli enti locali. Il Ministero, inoltre, influirebbe sulla politica dell’Ateneo anche imponendo delle “linee generali”, di cui il rettore dovrebbe “tenere conto”. La figura del rettore, per la quale già oggi è previsto un lunghissimo mandato (6 anni), supererebbe per durata addirittura quella del Presidente della Repubblica (7 anni), arrivando a un mandato record di 8 anni. Per di più, nelle bozze visionate, non sarebbe neppure più previsto il limite di un solo mandato. Come foglia di fico per coprire una così assurda durata della carica, della quale evidentemente perfino chi la propone si vergogna un po’, a metà degli 8 anni sarebbe previsto un imbarazzante plebiscito di “conferma in carica” del rettore, ovviamente senza candidature alternative. Ma ancora non basta. Chi vuole potenziare ancora di più la figura dell’ “uomo solo al comando” (che, forse si ricorderà, in tempi che ora sembrano lontani avrebbe dovuto essere un “primus inter pares”) non tollera neanche in linea di principio potenziali contro-poteri e, dunque, prevede che i direttori di dipartimento vengano rinnovati in coincidenza dell’elezione e della (imbarazzante, lo ripetiamo) pantomima della conferma del rettore. Allo stesso modo, e per lo stesso motivo, il direttore generale inizia e cessa il suo lavoro a cascata con il rettore, del quale deve applicare gli indirizzi. Complessivamente, quale che sia la forma che poi prenderà in dettaglio la proposta di legge finale, l’allarmante indirizzo complessivo che emerge è un approccio dirigistico, intollerante anche a pallidi spiragli democratici (per inciso per il CdA, ad esclusione di quella studentesca, sarebbe esclusa la possibilità di una componente elettiva) e caratterizzato dalla malcelata volontà di un controllo governativo sempre più capillare anche delle università. Resta, prima di concludere, la domanda fondamentale. Perché? Perché si vuole mantenere un controllo così capillare del sistema universitario pubblico? Lo si è già impoverito per fare largo agli ingordi interessi delle università profit depotenziando gli strumenti che assicurano il diritto allo studio e che dovrebbero dare concretezza al dettato costituzionale che ci ricorda che tutti, se “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Lo si è indebolito, il sistema universitario pubblico, precarizzando selvaggiamente e in modo sempre più massiccio il personale, evitando con pervicacia qualsiasi misura che avrebbe potuto alleviare gli effetti devastanti della bolla di precariato prodotta dal PNRR. Anzi, cercando di sfruttarla in ogni modo costruendo una guerra tra poveri con in palio lavori poveri. E, dunque, perché la smania di controllare il sistema universitario pubblico? La risposta non è difficile da immaginare se si compongono tutte le tessere del puzzle che ci sono piombate addosso in queste giornate di metà ottobre. I documenti ed i provvedimenti in discussione riflettono chiaramente le preoccupazioni e l’insofferenza di chi governa per le crescenti manifestazioni di dissenso che, soprattutto nelle e dalle università, si sono sviluppate negli ultimi mesi. Ecco dunque una possibile interpretazione che svelerebbe l’arcano: non sono solo interessi meramente economici (anche privati) a motivare questi provvedimenti di controllo degli atenei, ma c’è anche la preoccupazione che questi possano essere volano dell’elaborazione di un pensiero critico non gradito ai “manovratori”. Il che, a ben vedere, farebbe parte della loro alta funzione formativa. Di fronte a tutto questo, ci domandiamo: è il caso di aspettare inerti l’approvazione di norme come queste, oppure è già da ora opportuno far emergere in modo forte l’idea di università pubblica, libera e aperta – e soprattutto democratica – che, in sintonia con la Costituzione, va affermata e difesa? A noi piacerebbe che si generasse una mobilitazione “alta”, pacifica e diffusa: una mobilitazione che partisse dai dipartimenti e dagli atenei, da chi nell’università studia, lavora o chi ne apprezza la funzione civile, ma che li aprisse, che fosse partecipata, attraversabile, porosa. Perché ciò che si cerca oggi di fare all’università è ciò che si cerca di fare alla società. Chiedendoci che università vogliamo, ci stiamo anche chiedendo che società vogliamo.
Mancini ai rettori: mettete in riga gli studenti
Marco Mancini, segretario generale del Ministero dell’Università, ha inviato una lettera ai rettori esortandoli a vigilare affinché gli atenei non siano condizionati da “influenze di carattere polarizzante” — espressione che, tradotta in termini chiari, significa tenere lontane dalla vita universitaria le prese di posizione politiche, in particolare quelle contro il massacro in Palestina e contro la guerra. Un messaggio che suona come un passo ulteriore verso un processo di “orbanizzazione” dell’università italiana. AOOSG_MUR.REGISTRO