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Asimmetrie invisibili: due storie vere di internazionalizzazione accademica
L’internazionalizzazione è oggi una parola chiave nel lessico delle politiche universitarie europee. Bandi, progetti, programmi di dottorato e iniziative di cooperazione spingono a “globalizzare” la formazione superiore e a promuovere la mobilità di studenti e ricercatori (Kushnir &Yazgan, 2023). Ma cosa accade quando questi obiettivi incontrano la quotidianità concreta dell’università italiana? Le pratiche di cooperazione e supervisione sono davvero in grado di produrre scambio e crescita reciproca? Oppure rischiano di riprodurre, sotto nuove forme, disallineamenti e squilibri? In questo contributo raccontiamo due esperienze vissute presso l’Università di Genova: un progetto di cooperazione con un’università africana e la supervisione di un dottorato di ricerca con un candidato/a proveniente da un paese asiatico a basso reddito. Due vicende diverse, ma accomunate dalla stessa domanda: può l’internazionalizzazione realizzarsi davvero, se le strutture accademiche e culturali rimangono profondamente disallineate? Cooperare in assenza di simmetria Il primo caso riguarda un progetto di capacity building con l’Universidade Eduardo Mondlane di Maputo (Mozambico), finanziato nell’ambito della cooperazione allo sviluppo (Collins et al. 2010). Il progetto prevedeva attività congiunte di didattica, ricerca e terza missione. L’inizio fu promettente: entusiasmo reciproco, incontri produttivi, una visione condivisa degli obiettivi. Ma ben presto, nella quotidianità operativa, emersero difficoltà profonde: i compiti avanzavano lentamente, la comunicazione era discontinua, la pianificazione ricadeva quasi interamente sul gruppo italiano. Inizialmente interpretammo questi ostacoli come semplici inefficienze organizzative. Col tempo, tuttavia, divenne evidente che si trattava di differenze sistemiche: il calendario accademico della UEM, le priorità istituzionali, la disponibilità dei docenti seguivano logiche molto diverse dalle nostre. I nostri strumenti – scadenze strette, rendicontazioni formalizzate, riunioni calendarizzate con mesi di anticipo – riflettevano aspettative implicite su cosa significhi “cooperare”: lavorare in sincronia, rispettare milestone, produrre deliverables. Ma queste aspettative, profondamente radicate in una cultura accademica europea e performativa, si rivelavano inadeguate a un contesto diverso. Il rischio, anche senza intenzione, era quello di scivolare nel classico schema Nord–Sud: la progettazione e la visibilità al Nord, l’implementazione incerta e marginalizzata al Sud. È una dinamica “coloniale” ben documentata nella letteratura sulla cooperazione accademica internazionale, che mostra come le partnership, anche se formalmente paritarie, tendano a riprodurre gerarchie epistemiche e operative (Swartz et al., 2020; De Wit & Altbach, 2021). Nel nostro caso, l’asimmetria non si esprimeva solo in termini di risorse, ma anche nel diverso peso dato al tempo, alla burocrazia, alla flessibilità operativa. Di fronte alle difficoltà, il primo impulso fu quello di “correggere” il partner: accelerare, riorganizzare, offrire più strumenti. Solo dopo diverse frustrazioni ci rendemmo conto che era necessario un cambio di paradigma. Decidemmo di sospendere alcune attività, rinegoziare obiettivi, accettare una diversa scansione temporale. Ma soprattutto, iniziammo a chiedere invece di proporre, ad ascoltare invece di pianificare. Scoprimmo così che alcune delle priorità che per noi erano urgenti non lo erano affatto per i colleghi mozambicani – e viceversa. Il punto di svolta non fu un miglioramento gestionale, ma un gesto relazionale: riconoscere che la cooperazione non può basarsi su modelli prestabiliti, ma richiede negoziazione continua, adattamento reciproco e una disponibilità a mettere in discussione il proprio punto di partenza. In altre parole, cooperare significa anche disattivare aspettative implicite, spesso invisibili ma profondamente operative. È un lavoro di decentramento, non solo logistico ma culturale ed epistemico. E forse è proprio lì che l’internazionalizzazione può diventare un processo trasformativo, invece che una cornice normativa da rispettare. Supervisione senza cornici condivise La seconda esperienza riguarda la supervisione di dottorato in un laboratorio biomedico. Il candidato/a, proveniente da un contesto accademico e culturale molto diverso dal nostro, aveva ottenuto l’ammissione sulla base di titoli apparentemente adeguati. Tuttavia, fin dai primi mesi, emersero gravi difficoltà: scarsa autonomia nel lavoro, incertezza nell’applicazione del metodo sperimentale, difficoltà a collegare attività pratiche e fondamenti teorici. All’inizio attribuimmo tutto a un fisiologico periodo di adattamento. Ma con il tempo ci accorgemmo che le difficoltà persistevano, nonostante l’impegno del candidato/a. Il problema non era solo linguistico, infatti molte attività scientifiche e amministrative si svolgevano in italiano, ma più profondamente epistemico: cosa significa “fare ricerca”? Qual è il ruolo del tutor? (Guarimata-Salinas et al. 2024). Che tipo di iniziativa è attesa da un dottorando/a? Le risposte a queste domande non erano condivise con il candidato/a ne comprese. In assenza di cornici culturali e accademiche comuni, la presenza del dottorando/a si riduceva progressivamente a una forma passiva. Non si trattava (solo) di una fragilità individuale, ma della mancanza di strumenti strutturati per affrontare situazioni di questo tipo. Molti studenti internazionali, specialmente quelli provenienti da paesi a basso reddito, vedono l’Italia come una meta di prestigio e opportunità, ma si scontrano con un sistema che, pur formalmente aperto, non è strutturato per accoglierli davvero. Nel dottorato italiano, l’ammissione è spesso un “punto di non ritorno”: superato il concorso, non sono previsti veri meccanismi di monitoraggio o supporto. I tutor si trovano soli a gestire situazioni complesse come quelle interculturali, senza formazione specifica, senza protezione istituzionale, e con valutazioni in itinere annuali spesso poco più che rituali. Eppure, è proprio il dottorato ad aver incarnato alcune delle principali riforme dell’istruzione superiore europea: dal Processo di Bologna del 1999 (https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process) al modello delle Marie Skłodowska-Curie Actions (https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/), l’idea di un dottorato internazionale, interdisciplinare e strutturato è stata al centro di molte politiche di innovazione accademica. Ma nella pratica quotidiana, queste trasformazioni restano spesso parziali. In molte sedi italiane, i dottorati, pur aspirando ad accogliere studenti internazionali, continuano a essere profondamente nazionali, sia per lingua che per modalità di insegnamento e valutazione. Questo accade in un contesto dove l’internazionalizzazione dei dottorati è più dichiarata che realizzata. Solo il 16% dei dottorandi in Italia è straniero (vs. 33% in Portogallo, 38% in Francia) (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1), e in molti casi l’inserimento resta superficiale. L’“apertura internazionale” si riduce, nei fatti, a un’aggiunta decorativa più che a una trasformazione sostanziale. L’internazionalizzazione come trasformazione (non come etichetta) I due casi raccontati pongono la stessa questione: può l’università diventare realmente internazionale senza mettere in discussione sé stessa? La risposta, per noi, è no. L’internazionalizzazione autentica non è una procedura, né un obbligo da bando. È un processo trasformativo che coinvolge epistemologie, ruoli, tempi, linguaggi. Non basta “accogliere” l’altro; occorre rimettere in discussione ciò che diamo per scontato: i nostri criteri di valutazione, le nostre aspettative, i nostri modelli impliciti di successo scientifico. Chi definisce cosa è “valido”? Quali forme di conoscenza riconosciamo, e quali marginalizziamo? Chi porta il peso del disallineamento nei progetti o nei percorsi formativi? Sono domande scomode, ma necessarie, se vogliamo che la cooperazione e la supervisione internazionale escano dalla retorica e diventino strumenti reali di crescita. Conclusioni: mutualità, non solo mobilità Non abbiamo ricette universali per risolvere queste tensioni. Ma una direzione ci sembra chiara: occorre spostare l’attenzione dalla “mobilità” dei soggetti alla “mutualità” delle relazioni. Non basta far circolare studenti, dottorandi o progetti oltre i confini. Bisogna costruire contesti relazionali capaci di accogliere le differenze non come ostacoli da superare, ma come risorse da comprendere. Supervisionare, cooperare, formare – in un contesto globale – richiede riflessione, strumenti flessibili, e istituzioni capaci di sostenere il cambiamento. L’internazionalizzazione, se presa sul serio, non si compie con la firma di un accordo, ma si costruisce nel disallineamento quotidiano: nella fatica di capirsi, nel coraggio di rinegoziare, nella volontà di cambiare insieme. E forse, proprio da queste asimmetrie invisibili, può nascere l’università che ancora non c’è.   Referenze 1. Kushnir, I., & Yazgan, N. (2023). The politics of higher education: the European Higher Education Area through the eyes of its stakeholders in France and Italy. Humanities and Social Sciences Communications, 10(1), 1–11. https://doi.org/10.1057/s41599-023-02300-x   2. Collins, F. S., Glass, R. I., Whitescarver, J., Wakefi, M., & Goosby, E. P. (2010). Capacity in Africa. Science, 330(December), 1324–1325.   3. Swartz, S., Barbosa, B., & Crawford, I. (2019). Building Intercultural Competence Through Virtual Team Collaboration Across Global Classrooms. Business and Professional Communication Quarterly, 83(1), 57-79. https://doi.org/10.1177/2329490619878834 (Original work published 2020)   4. de Wit, H., & Altbach, P. G. (2020). Internationalization in higher education: global trends and recommendations for its future. Policy Reviews in Higher Education, 5(1), 28–46. https://doi.org/10.1080/23322969.2020.1820898   5. Guarimata-Salinas, G., Carvajal, J. J., & Jiménez López, M. D. (2024). Redefining the role of doctoral supervisors: a multicultural examination of labels and functions in contemporary doctoral education. Higher Education, 88(4), 1305–1330. https://doi.org/10.1007/s10734-023-01171-0   6. https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process   7. https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/   8. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1       Biografie Katia Cortese è professoressa associata di Anatomia Umana presso l’Università di Genova, dove coordina attività di ricerca nel campo dell’imaging subcellulare, della morfologia e delle risposte cellulari ai trattamenti oncologici. È impegnata nella formazione dottorale e in progetti di educazione con particolare attenzione alla riflessione critica sul ruolo della visione scientifica e sulle dinamiche interculturali nella ricerca. Marco Frascio è professore associato di Chirurgia Generale presso l’Università di Genova. È stato coordinatore del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e attualmente è delegato del Rettore per la Cooperazione Internazionale. Si occupa di chirurgia oncologica e formazione medica, con esperienza in progetti di cooperazione internazionale in Africa, Asia e Cina.  
Università americane: l’internazionalizzazione diventa una linea di difesa?
Aprire campus all’estero può diventare una strategia per le università americane desiderose di sfuggire alle pressioni politiche dell’inquilino della Casa Bianca? Non è così certo… Costi nascosti, standard accademici difficili da mantenere, instabilità dei paesi ospitanti: queste sedi sono molto più fragili di quanto sembrino – e talvolta semplicemente insostenibili. Sotto la crescente pressione dell’amministrazione Trump, alcune grandi università americane stanno ripensando la loro strategia internazionale. Quando la Columbia University (New York) accetta, nel luglio 2025, di modificare la propria governance interna, il codice disciplinare e la definizione di antisemitismo nell’ambito di un accordo extragiudiziale – senza decisione di un tribunale né legge votata – si tratta di molto più che di una semplice risoluzione di una controversia. È un precedente politico. L’ateneo newyorkese sancisce così una modalità di intervento diretto dell’esecutivo federale, al di fuori del quadro parlamentare, che erode l’autonomia universitaria sotto il pretesto di ripristinare l’ordine pubblico nel campus, accettando ad esempio l’ingerenza delle forze federali di polizia nel controllo degli studenti internazionali. Lo stesso tipo di minaccia incombe da tempo su Harvard: restrizioni ai visti per studenti internazionali, potenziale blocco di finanziamenti federali, sospetti di inerzia di fronte alle mobilitazioni studentesche. In entrambi i casi, i più eclatanti e mediatizzati, l’amministrazione federale è intervenuta senza legiferare. Questo metodo «apre la strada a una maggiore pressione del governo federale sulle università», creando un precedente che altri istituti potrebbero sentirsi obbligati a seguire. UN RIDISPIEGAMENTO PARZIALE ALL’ESTERO Un tale offuscamento dei riferimenti giuridici trasforma in profondità un sistema universitario che si credeva solido e protetto: quello delle grandi istituzioni di ricerca americane. Ormai confrontate a un’instabilità strutturale, queste università prendono in considerazione un’opzione che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata incongrua: ridispiegarsi parzialmente fuori dagli Stati Uniti, non tanto per ambizione di conquista quanto per volontà di salvaguardia. In questa prospettiva, il trasferimento parziale all’estero, tattica per alcuni, preludio di una nuova strategia per altri, si distingue dalle dinamiche di internazionalizzazione delle decadi passate. Georgetown ha appena prorogato di dieci anni la sua sede a Doha; l’Illinois Institute of Technology prepara l’apertura di un’antenna a Mumbai. Un tempo animati da un’ambizione espansiva, questi progetti assumono oggi un carattere più difensivo. Non si tratta più di crescere, ma di garantire la continuità di uno spazio accademico e scientifico stabile, affrancato dall’arbitrio politico interno. Eppure, la storia recente invita a relativizzare questa strategia. Il Regno Unito post-Brexit non ha visto le sue università aprire massicciamente campus nel continente. In un contesto diverso, la London School of Economics, pur pioniera nell’internazionalizzazione, ha rafforzato i partenariati istituzionali e i doppi titoli in Francia, ma ha scartato l’idea di una sede offshore. Le università britanniche hanno preferito consolidare reti esistenti piuttosto che creare intere strutture all’estero, probabilmente consapevoli che un’università non si sposta come un’impresa. LA FRANCIA IN TESTA CON 122 CAMPUS ALL’ESTERO I campus internazionali sono spesso costosi, dipendenti, fragili. Il rapporto Global Geographies of Offshore Campuses recensiva nel 2020 ben 487 sedi di istituti d’istruzione superiore al di fuori del loro paese d’origine. La Francia è in testa con 122 campus all’estero, seguita dagli Stati Uniti (105) e dal Regno Unito (73). Le principali aree di accoglienza si concentrano in Medio Oriente e in Asia: Emirati Arabi Uniti (33 campus, di cui 29 a Dubai), Singapore (19), Malesia (17), Doha (12) e soprattutto la Cina (67) figurano tra gli hub più attivi. Per i paesi ospitanti, queste sedi si inseriscono in strategie nazionali di attrattività accademica e di ascesa nell’istruzione superiore. Il loro successo si spiega meno con garanzie di libertà accademica che con incentivi economici, fiscali e logistici mirati, oltre che con la volontà dei governi locali di posizionare il proprio territorio come polo educativo regionale. Il Golfo offre un contrasto sorprendente. Da oltre vent’anni, Emirati Arabi Uniti e Qatar attirano istituzioni prestigiose: New York University (NYU), HEC, Cornell, Georgetown. Questi campus sono il prodotto di una politica volontaristica di attrattività accademica, sostenuta da Stati ricchi desiderosi di importare capitale scientifico e simbolico. L’Arabia Saudita segue ora la stessa strada, con l’annuncio dell’apertura del primo campus straniero di un’università americana (University of New Haven) a Riad entro il 2026, con l’obiettivo di accogliere 13.000 studenti entro il 2033. In Asia nord-orientale, nessun paese – Cina, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Singapore – ha preso in considerazione l’idea di ospitare un campus americano in risposta alle recenti tensioni. Al contrario, diversi cercano di attrarre studenti e dottorandi penalizzati, in particolare quelli di Harvard. A Hong Kong, università come HKUST o City University hanno introdotto procedure di ammissione accelerate e semplificate. Tokyo, Kyoto e Osaka offrono borse di studio ed esenzioni dalle tasse. Queste iniziative, che appartengono a una strategia di sostituzione, poggiano su due fattori strutturali: un investimento pubblico sostenuto nell’istruzione superiore e la presenza di un notevole bacino scientifico asiatico nelle università americane, che facilita i trasferimenti. In questo senso, l’Asia-Pacifico appare oggi come uno dei principali beneficiari potenziali del clima di incertezza politica negli Stati Uniti. NEGLI STATI UNITI, IL SEGNO DI UN CAMBIAMENTO DISCRETO La mappa dei campus offshore rivela un paradosso storico. Fino a poco tempo fa, le università del Nord globale aprivano sedi in paesi dove la libertà accademica non era necessariamente più garantita (Singapore, Emirati Arabi Uniti, Malesia, Cina, Qatar…), ma dove trovavano stabilità amministrativa, incentivi finanziari e accesso agli studenti della regione. Era una strategia di espansione, non di ripiegamento, come oggi, di fronte a un’incertezza politica crescente. L’idea resta marginale, sussurrata in pochi circoli dirigenti. Ma basta a segnalare un cambiamento discreto: quello di istituzioni che cominciano a guardare oltre i propri confini, meno per ambizione che per inquietudine. Tuttavia, l’internazionale non è né un santuario né uno spazio neutro: attraversato da sovranità, regole e norme, può esporre ad altre forme di vincoli. La Sorbona Abu Dhabi, inaugurata nel 2006, risponde a una logica inversa: un’università francese insediata nello spazio del Golfo, su invito del governo di Abu Dhabi, in un quadro contrattuale e di cooperazione bilaterale che riafferma, nel tempo, la capacità di proiezione mondiale di un modello accademico nazionale. Questa iniziativa non mirava a proteggere uno spazio accademico minacciato: al contrario, incarnava una strategia d’influenza dichiarata, in un ambiente istituzionale controllato. Niente di simile nelle attuali riflessioni americane, dominate invece dalla logica dell’elusione. Tuttavia, i limiti del ridispiegamento sono già ben noti. SEDI FRAGILI I campus delocalizzati soffrono di una bassa produttività scientifica, di un’integrazione accademica parziale e di forme di disaffiliazione identitaria tra i docenti espatriati. Philip G. Altbach, figura di riferimento tra gli esperti di istruzione superiore transnazionale, da tempo sottolinea la fragilità dei modelli delocalizzati; l’esperto britannico Nigel Healey ha identificato problemi di governance, di adattamento istituzionale e di integrazione dei docenti. L’esempio più recente dell’India mostra che molti campus stranieri faticano a superare lo status di vetrine, senza un reale contributo duraturo alla vita accademica locale né una strategia pedagogica solida. A queste debolezze strutturali si aggiunge una questione poco affrontata apertamente, ma decisiva: chi pagherà per questi nuovi campus fuori dagli Stati Uniti? Un campus internazionale rappresenta un investimento considerevole, tra edifici, sistemi informatici, risorse umane e accreditamenti. L’apertura di una sede stabile richiede diverse centinaia di milioni di dollari, senza contare i costi di gestione. In un contesto di tensione crescente sui bilanci, di calo degli investimenti pubblici nell’istruzione superiore e di reterritorializzazione dei finanziamenti, non è facile individuare attori – pubblici, filantropici o privati – disposti a sostenere università americane fuori dal loro ecosistema. Quando la NYU si insedia ad Abu Dhabi o la Cornell a Doha, ciò avviene con il massiccio sostegno di uno Stato ospitante. Questa dipendenza finanziaria non è priva di conseguenze. Espone a nuove pressioni, spesso più implicite, ma altrettanto efficaci: controllo dei contenuti insegnati, orientamenti della ricerca, selezione congiunta dei docenti, autocensura su argomenti sensibili. In altre parole, voler sfuggire a una pressione politica attraverso l’esilio può talvolta esporre a un’altra. La libertà accademica spostata non è che un miraggio, se poggia su un modello di finanziamento tanto precario quanto politicamente condizionato. MOBILITÀ ACCADEMICA E LIBERTÀ DI RICERCA In un recente rapporto del Centre for Global Higher Education, il sociologo Simon Marginson mette in guardia da una lettura troppo strumentale della mobilità accademica. Non sono i luoghi, ma i contesti politici, sociali e culturali a garantire o a indebolire la libertà universitaria. Il rischio maggiore è la dissoluzione del quadro democratico che ancora permette all’università di pensare, ricercare e insegnare liberamente. Di fronte a questo spostamento delle linee, l’apertura di un campus all’estero non può essere che un gesto provvisorio, un tentativo incerto in un mondo già attraversato da altre forme di instabilità. Ciò che l’istruzione superiore affronta oggi non è soltanto la minaccia di un potere politico nazionale, ma l’indebolimento dello spazio in cui può ancora esercitarsi un pensiero critico e condiviso. Alcuni osservatori, come lo storico Rashid Khalidi, vi vedono il segno di uno slittamento più profondo: quello di università che, cedendo alla pressione politica, diventano «luoghi di paura», dove la parola è ormai condizionata dal potere disciplinare. La sfida non è solo preservare una libertà. È mantenere una capacità di agire intellettualmente, collettivamente, all’interno di un mondo che ne restringe le condizioni. Fonte originale: The Conversation 
Lettera ai vertici INAF su Gaza
Segnaliamo ai lettori la lettera inviata dai dipendenti dell’istituto alla dirigenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica sull’opportunità di non proseguire i rapporti con università e centri di ricerca israeliani.Lettera CdA INAF_x_stampa
Università: anatomia di un’istituzione in apnea
Leggo con attenzione e ascolto con apprensione le voci dei colleghi delle università statunitensi. Appare sempre più come un sogno infranto, una perduta Atlantide, senza che sia possibile cogliere una strategia politica razionale. Guardo dentro i nostri confini nazionali e percepisco i contorni di un mondo che subisce la desertificazione culturale travestita da innovazione. L’università — un tempo luogo elettivo dove il valore del pensiero e la ricerca del sapere non si piegavano alla contingenza — oggi si muove con passo incerto tra inossidabili resistenze di un passato baronale e moderne ansie performative e carrieristiche. In sostanza, un corpo istituzionale che sta smarrendo voce e perdendo postura. Negli Stati Uniti, le università sono state un approdo sicuro per eccellenze migranti, un laboratorio di esperimenti sociali, un ponte tra ricerca e cittadinanza. Oggi assomigliano ad un campo già minato e sul punto di deflagrare. Il governo federale sta usando il bisturi in profondità: -78 % alla National Science Foundation, ossia l’ente che – tra le altre cose – finanzia la carriera iniziale dei giovani ricercatori, -40 % al National Institutes of Health, ovvero al sistema pubblico che dovrebbe finanziare la ricerca biomedica e sanitaria, tra cui – ad esempio – le ricerche più innovative per la cura del cancro. Alcuni bandi dedicati alla ricerca ambientale, all’astrofisica, all’ingegneria aerospaziale, alle scienze planetarie (in ambito NASA) e alla climatologia, all’oceanografia, e ai cambiamenti climatici (ambiti del National Oceanic and Atmospheric Administration) sembrano evaporati. Non si tratta solo di scelte di economia politica: è piuttosto una forma di anatomia sconsiderata o di pura biopolitica che agisce indiscriminatamente sui luoghi dove tradizionalmente si conserva e si costruisce il sapere. È un fatto che migliaia di ricercatrici e ricercatori stanno considerando la mobilità dalle loro sedi per semplice sopravvivenza. Il sistema sta dismettendo i suoi principi fondamentali e questo salto mortale senza rete è accompagnato da una deriva fortemente aziendalista e dalla perdita delle tradizionali tutele per diversità, equità e inclusione. Questa la situazione americana, così come emerge dagli annunci dei decisori politici, ma soprattutto dalle prese di posizione e da un rumore di fondo che – via via – sta diventando assordante. Certo, noi abbiamo l’obbligo di guardare all’Italia, in tempi di riforme avviate e nel quadro di un innegabile e generale cambiamento nei confronti del libero esercizio dell’espressione delle opinioni. Nel mondo universitario italiano, il crescente fideismo nei confronti dell’algoritmo e delle metriche rischia di diventare il vero killer seriale del tempo giusto dell’apprendimento e della crescita progressiva della qualità della ricerca. Traspare il disegno di un’università/azienda che distribuisce titoli, in un sistema che premia consenso incondizionato, velocità e silente obbedienza. Il vero rischio è quello di creare una catena di montaggio di soggetti plurititolati, ma sempre meno riflessivi e pensanti. Di fronte a questo rischio, il corpo stesso delle comunità universitarie dovrebbe sentirsi chiamato ad una reazione propositiva e non ad una passività silenziosa.  Occorre restituire ossigeno vitale agli atenei, intesi come luogo dinamico di critica, confronto e ibridazione tra le diverse forme del sapere. Occorre tornare al tempo lungo dell’apprendimento, accettando la fertilità del dubbio, il dibattito aperto e l’originalità della critica. Si può decidere di essere anacronisticamente “inattuali”, ossia non tiranneggiati dalle urgenze performative, dal feticcio del ranking, dalla richiesta pressante del risultato a breve termine.  In un’epoca che misura e valuta tutto, l’università può ancora essere la zona franca dell’incalcolabile, dove l’unica virtù è imparare a pensare. Non è poco, non è una missione banale. Occorre un’azione polifonica di difesa consapevole dei principi fondativi. Mi piace considerarlo come un possibile atto di resistenza gentile. L’alternativa appare molto simile ad un’eutanasia, ma non altrettanto gentile. Tuttavia, non tutto deve essere percepito in termini negativi. Ci sono proposte che emergono dal corpo vitale delle comunità universitarie e sono state avanzate da riferimenti istituzionali autorevoli. È a queste che dobbiamo guardare. La tutela dei principi  di diversità, equità e inclusione dipende da scelte che risiedono ancora nell’autonomia di governo dei singoli Atenei. È possibile – e sarebbe virtuoso – ridisegnare i bandi del Fondo Italiano per la Scienza (FIS) che attualmente premiano una percentuale davvero irrisoria dei progetti presentati (tasso di successo inferiore al 3%), ripensandoli esclusivamente come opportunità di avvio di carriera per i giovani ricercatori.  La ricerca di frontiera e di eccellenza ha una dimensione europea ed è coperta dai Progetti dell’European Research Council (ERC), che hanno tassi di successo decisamente superiori (ca. 14%). È in questo contesto competitivo che dovrebbero essere indirizzati i progetti dei docenti e ricercatori con un livello più alto di eccellenza e di esperienza. La ricerca universitaria di base potrebbe essere rivitalizzata e finanziata ottimizzando le regole di ingaggio dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN), ideale sinergia tra reti diffuse. Infine, la dittatura numerica delle prestazioni potrebbe non essere la principale bussola di valutazione degli Atenei. Sarebbe un modo di dare ossigeno ad un’istituzione che – per chi la vive dall’interno – appare in costante apnea, costretta spesso a simulare l’eccellenza, venerando la quantità. Un’istituzione che ha l’autonomia di rivendicare che la libertà della ricerca, la formazione e la costruzione collettiva del sapere sono una missione di responsabilità sociale che – nel nostro Paese –  è ancora politicamente sostenibile. Pubblicato su Il Fatto Quotidiano
Lettera sugli eventi di Gaza
Segnaliamo la lettera, indirizzata da parte del personale docente e di ricerca, del personale amministrativo, tecnico e bibliotecario, delle dottorande e dei dottorandi, nonché delle studentesse e degli studenti del Dipartimento di Chimica dell’Università di Roma La Sapienza, al Direttore, affinché si apra una discussione nel principale organo di governo del Dipartimento, ovvero il Consiglio, riguardo a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza e si assuma un impegno concreto nel contrasto alla sistematica violazione dei diritti fondamentali della sua popolazione. Lettera su quanto sta avvenendo a Gaza
Sensazionale scoperta INVALSI: il numero di studenti per classe non conta
Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente, sensazionale scoperta dell’INVALSI. Ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Perciò, quando il Ministro dell’Economia dichiara che bisognerà “ripensare strutture, personale e spesa” per l’istruzione, non dobbiamo preoccuparci. Non servono soldi per aumentare il numero di insegnanti o stabilizzarli, basta dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale e personalizzare la didattica. Fatalità, la scoperta dell’INVALSI lo conferma. -------------------------------------------------------------------------------- Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Proviamo a chiederci: quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente e sensazionale scoperta dell’INVALSI: ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Che fortuna: in effetti non abbiamo i soldi per aumentare il numero di insegnanti (vedi recenti dichiarazioni del Ministro Giorgetti sui tagli alla scuola, qui) ma possiamo dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale per personalizzare la didattica (vedi dichiarazione del Ministro Valditara sull’utilità dell’IA in classe, qui). Nell’attesa dell’ultima puntata della soap opera più longeva della storia della valutazione scolastica italiana, ovvero l’uscita del Rapporto annuale sui test INVALSI edizione 2025, prevista per il prossimo 9 Luglio, l’Istituto prova ad alimentare la suspence elencando percentuali e correlazioni tra la taglia delle classi delle nostre scuole e il numero di studenti “low performer”. I “low performer” sono sempre loro, ormai li conosciamo: gli studenti fragili, i dispersi impliciti, i ragazzi “bollinati” INVALSI livello 1 e 2 . L’INVALSI ci dice che la numerosità delle classi non influisce sulla loro percentuale. Ad esempio per gli studenti di terza media: > “LE CLASSI DI DIMENSIONI INTERMEDIE (21-25 STUDENTI) MOSTRANO UNA PERCENTUALE > INFERIORE DI STUDENTI CON BASSO RENDIMENTO (1,01%), MENTRE QUELLE PIÙ NUMEROSE > (OLTRE 26 STUDENTI) PRESENTANO UN’INCIDENZA LIEVEMENTE SUPERIORE (1.09%)”. La contabilità INVALSI dovrebbe rassicurarci. In effetti anche se non sappiamo bene cosa significhi “basso rendimento”  per l’Istituto di valutazione, anche se non possiamo accedere ai contenuti dei test per farci un’idea di cosa effettivamente si stia misurando e per controllarne i risultati, anche se non conosciamo l’incertezza statistica dei dati, se ignoriamo i metodi e di correzione, oggi automatizzati, e la loro accuratezza, la scoperta dell’INVALSI può risultare consolante. In fondo i dati INVALSI sono un po’ come la fede: uno o ce l’ha o non ce l’ha. Ma se ce l’ha, che gran conforto. La scoperta dell’INVALSI però è tutt’altro che originale: sono almeno 30 anni che gli economisti dell’educazione made in USA  (vedi Hanuscheck) e l’OCSE tentano di convincerci che insegnare e apprendere in una classe di 30 o 10 studenti non fa differenza. L’uso politico del  “class size effect” è evidente e non necessita di commenti. Da parte nostra, in un Paese dove il dibattito sulla scuola è inesistente, perché affidato al principio di Autorità e all’assenza sistematica di qualsiasi contraddittorio, ci limitiamo a qualche piccolo contributo, non allineato al catechismo dell’INVALSI. 1.  Il libro “Rethinking class size” di Peter Blatchford ed Anthony Russell del 2020, UCL Press,  liberamente scaricabile qui.   > “IL DIBATTITO SULL’IMPORTANZA DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PER L’INSEGNAMENTO > E L’APPRENDIMENTO È UNO DEI PIÙ DURATURI E ACCESI NELLA RICERCA EDUCATIVA. GLI > INSEGNANTI SPESSO INSISTONO SUL FATTO CHE LE CLASSI PICCOLE FAVORISCANO IL > LORO LAVORO. MA MOLTI ESPERTI SOSTENGONO CHE I DATI DELLA RICERCA DIMOSTRANO > CHE LE DIMENSIONI DELLE CLASSI HANNO SCARSO IMPATTO SUI RISULTATI DEGLI > STUDENTI, QUINDI NON SONO RILEVANTI, E QUESTA VISIONE DOMINANTE HA INFLUENZATO > LE POLITICHE A LIVELLO INTERNAZIONALE. > >  IN QUESTO LAVORO, I RICERCATORI DEL PIÙ GRANDE STUDIO AL MONDO SUGLI EFFETTI > DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PRESENTANO UNA CONTROARGOMENTAZIONE. ATTRAVERSO > UN’ANALISI DETTAGLIATA DELLE COMPLESSE RELAZIONI IN GIOCO IN CLASSE, RIVELANO > I MECCANISMI CHE SUPPORTANO L’ESPERIENZA DEGLI INSEGNANTI E CONCLUDONO CHE LE > DIMENSIONI DELLE CLASSI SONO DAVVERO IMPORTANTI.” 2. Lo studio “L’impact de la taille des classes sur la réussite scolaire dans les écoles, collèges et lycées français” di Thomas Piketty e Mathieu Valdenaire, del 2006, accessibile qui > “IL NOSTRO METODO CONSENTE DI INDIVIDUARE EFFETTI STATISTICAMENTE > SIGNIFICATIVI DELLA DIMENSIONE DELLE CLASSI NEI TRE LIVELLI DI ISTRUZIONE. > TALI EFFETTI RISULTANO QUANTITATIVAMENTE MOLTO PIÙ RILEVANTI NELLA SCUOLA > PRIMARIA RISPETTO ALLA SCUOLA MEDIA, E ANCOR PIÙ RISPETTO ALLA SCUOLA > SUPERIORE. PER QUANTO RIGUARDA LA SCUOLA PRIMARIA, METTIAMO IN EVIDENZA UN > IMPATTO POSITIVO SIGNIFICATIVO DELLE CLASSI MENO NUMEROSE SUL SUCCESSO > SCOLASTICO DEGLI ALUNNI.” 3. La meta analisi dell’istituto delle Politiche Pubbliche francesi (IPP) “La taille des classes influence-t-elle la reussite scolaire?” del 2017, scaricabile qui. le cui conclusioni potrebbero essere così riassunte: a) Ridurre le dimensioni delle classi è una politica costosa ma efficace per combattere le disuguaglianze, se mirata e significativa. b) Questa politica avvantaggia principalmente gli studenti con il più basso status socio-economico. 4. E per finire, l’analisi, attualissima (30 giugno 2025) dello stesso Istituto delle Politiche Pubbliche francesi, che in vista della futura legge di bilancio esprime una serie di raccomandazioni sulla spesa pubblica per l’istruzione. Il titolo è “Taille des classes et inegalités territoriales: quelle stratégie face à la baisse démographique?”, di cui riportiamo questo piccolo estratto: > “RIDURRE IL NUMERO DI INSEGNANTI PER MANTENERE INALTERATA LA DIMENSIONE DELLE > CLASSI > > [IN PREVISIONE DEL CALO DEMOGRAFICO] > > GENEREREBBE ECONOMIE A CORTO E MEDIO TERMINE, MA PRIVEREBBE GLI STUDENTI DEI > VANTAGGI ASSOCIATI ALLA DIMINUZIONE DEL NUMERO DI ALUNNI PER CLASSE: > > –EFFETTI POSITIVI SUGLI APPRENDIMENTI, BEN DOCUMENTATI DALLA LETTERATURA > SCIENTIFICA > > -CHE SI TRADURREBBERO, A LUNGO TERMINE IN SALARI E CONTRIBUZIONI PIÙ ELEVATE > PER LA SOCIETÀ. > > [SENZA CONSIDERARE] I BENEFICI ANNESSI: MIGLIORI CONDIZIONI DI LAVORO PER GLI > INSEGNANTI, ESTERNALITÀ POSITIVE DAL PUNTO DI VISTA SOCIALE (SALUTE, > DELINQUENZA ETC).”
Perché è stato abolito l’HCERES, l’organismo di valutazione universitaria?
Segnaliamo e traduciamo questo articolo  sull’abolizione dell’Alto Consiglio per la valutazione in Francia  L’ASSEMBLEA NAZIONALE HA VOTATO GIOVEDÌ SCORSO PER ABOLIRE L’ALTO CONSIGLIO RESPONSABILE DELLA VALUTAZIONE DEL LAVORO ACCADEMICO, UN ORGANISMO A LUNGO CRITICATO DA PARTE DELLA COMUNITÀ SCIENTIFICA. LA RICERCATRICE CLÉMENTINE GOZLAN SPIEGA LA SITUAZIONE. Giovedì 10 aprile, l’Assemblea Nazionale ha votato un emendamento che abolisce l’Alto Consiglio per la Valutazione della Ricerca e dell’Istruzione Superiore (HCERES). Questo organismo indipendente, responsabile della valutazione delle università e dei laboratori di ricerca, criticato da una relazione della Corte dei Conti per i suoi “eccessi” e la sua “mancanza di rigore”, è fortemente criticato da una parte della comunità accademica, che lo accusa di “burocratizzare” e “standardizzare” la ricerca universitaria. Il futuro dell’emendamento dipende ora dalla commissione paritetica incaricata di esaminare il disegno di legge sulla “semplificazione della vita economica”, a cui è collegato. L’ ultima ondata di valutazioni dell’HCERES , particolarmente sfavorevole alle università con un elevato numero di studenti svantaggiati e ai programmi di scienze sociali, ha scatenato un’ondata di indignazione, culminata in questo voto parlamentare. Clémentine Gozlan, docente di sociologia presso l’Università di Versailles – Saint-Quentin-en-Yvelines e specialista in valutazione della ricerca, analizza il ruolo dell’HCERES e le implicazioni politiche delle sue valutazioni. Come funziona la valutazione della ricerca in Francia e quale ruolo svolge l’HCERES in questo processo?Questo organismo, poco noto al grande pubblico, svolge un ruolo centrale nel mondo scientifico valutando l’intero sistema pubblico di istruzione superiore e ricerca: laboratori, università e corsi di laurea. La valutazione è condotta “da pari”, il che significa che l’HCERES nomina commissioni di valutazione composte da professori e ricercatori che valutano la qualità e il funzionamento dei laboratori nel loro settore. I criteri non sono liberi: il loro parere deve essere supportato da indicatori che tengono poco conto delle differenze tra discipline e tra territori. Il rapporto di valutazione ha molteplici utilizzi, da strumento di riflessione per i laboratori a strumento decisionale per l’allocazione del budget all’interno delle istituzioni, da qui il rischio di una valutazione “punitiva”. Qual è la sua opinione sul lavoro svolto finora dall’HCERES? Dalla creazione del suo predecessore, l’Agenzia per la Valutazione della Ricerca e dell’Istruzione Superiore (AERES), istituita nel 2007 sotto la guida di Nicolas Sarkozy, l’HCERES ha avuto numerosi effetti sulla vita scientifica. In primo luogo, ha generato burocratizzazione, come dimostra il numero di indicatori, documenti e fogli di calcolo Excel da compilare (dai valutatori) e da valutare (dai valutatori). Promosse per evitare conflitti di interesse e valutazioni compiacenti, queste regole formali estremamente farraginose inducono alcuni ricercatori a considerarle una distorsione della revisione paritaria, dove il giudizio sulla qualità scientifica finisce per passare in secondo piano. L’HCERES ha poi portato a una standardizzazione delle pratiche accademiche, a scapito delle individualità. Ad esempio, le scienze sociali sono ora soggette alle stesse ingiunzioni delle scienze della vita: finanziamenti basati su progetti, che mettono i progetti di ricerca in competizione con un numero relativamente piccolo di vincitori, o l’internazionalizzazione delle pubblicazioni, che incoraggia la pubblicazione regolare di articoli in inglese sulla stampa estera, mentre ciò è innaturale per alcuni campi di ricerca, come la letteratura. L’HCERES (Consiglio dell’Istruzione Superiore e della Ricerca) è stato creato nel 2013. Perché la sua abolizione era all’ordine del giorno? Questo organismo non ha mai cessato di essere criticato, dai sindacati all’Accademia Francese delle Scienze. La sua stessa creazione è il frutto delle critiche rivolte al suo predecessore, l’AERES (Accademia Nazionale delle Scienze), salvo poi rinascere in una forma che è ancora una volta sul punto di essere sciolta dai parlamentari. Uno dei motivi di questo voto sono i costi umani e finanziari (24 milioni di euro di bilancio nel 2024) sostenuti per l’esercizio di valutazione. Alcuni ritengono che queste risorse sarebbero meglio utilizzate dalle università, che sono gravemente carenti dei mezzi per svolgere il loro lavoro. Ciò che ha riacceso le proteste è la recente ondata di valutazioni, che per alcune università ha prodotto quasi il 50% di pareri sfavorevoli. C’è forse una “parzialità” nel suo metodo di valutazione, come denunciano alcuni ricercatori? L’ondata di valutazioni ha riguardato in particolare gli istituti situati nella periferia di Parigi o al di fuori della metropoli, in zone periferiche. Questa ondata è stata anche caratterizzata da sospetti di frode, poiché alcuni pareri non corrispondevano a quelli emessi dal comitato di valutazione, ma sarebbero stati rielaborati all’interno dell’HCERES… Questi sospetti hanno rafforzato le critiche all’opacità di questo organismo, ma hanno anche messo in guardia dal gioco politico che sta portando avanti in un contesto di sfiducia nei confronti della scienza, e in particolare delle scienze sociali, particolarmente colpite da questi pareri sfavorevoli. Queste valutazioni rivelano soprattutto una definizione di “eccellenza accademica” poco adeguata alla realtà del territorio. La nuova presidente dell’HCERES, Coralie Chevallier, sostiene che la sua abolizione renderebbe la Francia un ‘”eccezione” all’interno dell’OCSE e che l’assenza di un’autorità indipendente conferirebbe ancora più potere all’esecutivo… In effetti, queste strutture sono criticate anche in molti paesi! L’HCERES avrebbe dovuto sottrarre la funzione di valutazione della ricerca alle prerogative dello Stato per stabilire una separazione formale tra valutazione e decisioni prese dall’esecutivo, al fine di garantire la produzione di una valutazione “oggettiva”. Tuttavia, come dimostrano le scienze sociali, l’oggettività è in parte una finzione: i punti di vista assumono significato in un particolare contesto istituzionale e politico. Il lavoro che resta da fare non è quello di mascherarsi da una presunta neutralità, ma piuttosto di spiegare gli obiettivi delle valutazioni e rendere più trasparente il processo di produzione delle opinioni. In quali dinamiche di trasformazione più ampie dell’istruzione superiore e della ricerca si inseriscono queste valutazioni? Non siamo ancora nella situazione del Regno Unito, dove una valutazione negativa di un dipartimento porta automaticamente a una riduzione algoritmica dei suoi finanziamenti. Ma il contesto di austerità di bilancio potrebbe cambiare la situazione… Le valutazioni HCERES rafforzano considerevolmente le disuguaglianze scientifiche e l’organizzazione gerarchica delle istituzioni. Queste disuguaglianze sono sempre esistite, ma il loro aumento è diventato un obiettivo politico presunto a partire dagli anni 2000, con la nascita di programmi volti a concentrare le risorse su alcune sedi universitarie, a scapito di altre. Ciò è dimostrato dal recente progetto della direzione del CNRS di assegnare la maggior parte dei ricercatori e dei finanziamenti a una manciata di “laboratori chiave”, abbandonato a fronte di diffuse critiche. Questa ondata di valutazioni negative è quindi il risultato di decenni di disinvestimenti statali nelle università. Quando la valutazione è negativa a causa di una “mancanza di personale di ruolo”, come non vederla come una sanzione per politiche che limitano il reclutamento di docenti-ricercatori, sostituiti da personale temporaneo mal pagato? Queste valutazioni avrebbero più senso se i rettori universitari le utilizzassero per esigere dallo Stato risorse adeguate alle sfide dell’istruzione dei cittadini.
In ricordo di Sergio Ferrari
La redazione di Roars.it si unisce al cordoglio per la perdita di Sergio Ferrari. Con alle spalle una lunga e prestigiosa carriera all’ENEA, dove è arrivato a ricoprire la carica di Vicedirettore Generale, Sergio non ha mai cessato di essere un attento studioso del mondo della ricerca del ruolo crescente che questa ha acquisito nel corso del tempo per lo sviluppo economico e sociale. Grande attenzione ha riservato inoltre alle vicende italiane, sottolineando come il declino del Paese fosse intimamente collegato alla rincorsa di uno “sviluppo senza ricerca”. Lo ricordiamo ripubblicando un articolo dedicato proprio a questo tema.   —— LE VARIAZIONI DEL PIL E LA SPECIFICITÀ DELLA NOSTRA CRISI Le attese nei mesi scorsi per conoscere le variazioni trimestrali del Pil nazionale avevano certamente dei buoni motivi, visto la condizione molto critica del nostro sviluppo; una condizione per la verità non esclusiva per il nostro paese dal momento che si parlava di una crisi strutturale internazionale. Il dibattito acceso intorno allo zero della nostra crescita era, tuttavia, il segno di un nervosismo acuto, anche perché non erano comunque questi i dati che avrebbero potuto o meno motivare l’esistenza di una nostra uscita dalla crisi. Questa osservazione vale anche per i dati presentati ai primi di settembre dall’Istat, al quale va riconosciuto una tenuta professionale rispetto alle sollecitazioni immaginabili. Intanto sarebbe stato corretto ricordare, allora come ora, che noi avevamo due crisi dalle quali uscire; la prima che nasceva negli anni ‘80, mentre la seconda era la crisi internazionale che iniziata nel 2007/2008, aveva colpito tutti i paesi sviluppati, compreso il nostro. In queste condizioni parlare di un’uscita dalla crisi in conseguenza del fatto che dopo vari trimestri di variazioni in negativo del Pil si era arrivati ad una variazione che si discetta se essere stata dello 0,7% piuttosto che dello 0,8%, dà subito l’idea della qualità di quel dibattito, con l’evidente mancanza di una qualche portata, anche logica. Che la questione si fosse fermata a questo livello, conferma quel giudizio sulla nostra situazione politico-culturale molto preoccupante, che sovente e in circostanze molto diverse, si ripresenta e che, poiché chiama in causa tutta la classe dirigente del paese, meriterebbe una analisi specifica. Non deve meravigliare, quindi se, oltre a questo livello del dibattito non si sia sviluppata un’analisi per verificare se quell’inversione di tendenza dell’andamento del nostro Pil sia il frutto degli effetti del superamento della crisi internazionale – che quindi si dovrebbe ritrovare anche nell’andamento del Pil dei Paesi partner – o se sia l’effetto di un superamento anche della nostra crisi “storica” come effetto congiunto, quindi, delle politiche internazionali e di quelle attuate sul piano interno. E’ evidente che una risposta, magari anche solo indiziaria a questo interrogativo, può venire solo dal confronto tra gli andamenti del nostro Pil e quello dei paesi con i quali ci misuriamo. Un confronto che, tuttavia, è inspiegabilmente mancato. In altre parole se dai tempi d’inizio del superamento della crisi internazionale le variazioni del nostro Pil avessero avuto un andamento parallelo a quello di paesi di riferimento, vorrebbe dire che anche la nostra economia aveva fruito e fruiva degli stessi effetti positivi indotti dagli interventi ben noti e dei quali tutti hanno fruito – la riduzione del prezzo del petrolio, l’ampia disponibilità di risorse finanziarie, la crescente competitività dell’euro. Diversi andamenti devono corrispondere, evidentemente, a diverse interpretazioni sul superamento o meno vuoi della crisi internazionale, vuoi anche del nostro specifico declino. Nel caso di una ulteriore divergenza, sarebbe, ad esempio, motivabile l’ipotesi della mancanza del superamento da parte del nostro paese, sia della propria crisi economica sia di quella internazionale. Solo nel caso di una convergenza nel ritmo di variazione del Pil si potrebbe ritenere che il nostro paese sia uscito o stia per uscire dalla propria crisi storica. Naturalmente i confronti con singoli paesi possono sempre indurre delle perplessità dal momento che ogni economia può fruire dei vantaggi economici accennati ma in maniera differente. Poiché tuttavia sono disponibili dati statistici relativi all’andamento del Pil oltre che specificatamente per il nostro paese, anche come sintesi dei 15 paesi dell’Unione Europea, è sufficiente riferirsi a queste statistiche (o allorquando si presentano vincoli statistici, anche una qualche diversa aggregazione dei Paesi dell’UE) per ridurre le possibili deformazioni nei relativi confronti. Per poi identificare i diversi periodi storici entro i quali si sono realizzati i differenti andamenti del Pil, si è separato il periodo totale in esame – dai primi anni ’70 al 2015 – in quattro sottoperiodi: dai primi anni ’70 ai primi anni ’80 durante i quali l’Italia ha conservato un buon andamento relativo della propria crescita con andamenti positivi di oltre 3 decimi di punto percentuale all’anno, rispetto ai paesi dell’area Euro; dai primi anni ‘80 al 1996 durante i quali si è avviata e poi sviluppata una permanente difficoltà della nostra economia sino ad arrivare al cosiddetto declino con una perdita media di 0,22 punti percentuali all’anno; dal 1997 al 2007 durante i quali si è sviluppata l’intera fase della speculazione economico-finanziaria internazionale e dal 2008 al 2014 durante il quale si sono manifestate le tendenze – seppur ancora deboli – al superamento di quella crisi internazionale, con l’aumento, tuttavia, del divario negativo da parte della nostra economia. Nella Tabella 1 e nel Grafico 1 sono riportati gli andamenti del Pil come medie annuali nei diversi periodi presi in considerazione e come differenze tra i valori del Pil del nostro Paese e quello medio dei paesi dell’UE 15. TAB. 1 Variazione media annua del Pil nei periodi predefiniti e differenze tra l’Italia e l’UE 15 Fonte: elaborazione su dati Eurostat Come si vede è nel primo periodo – dall’1971 al 1982 – che il nostro Pil cresce di oltre mezzo punto percentuale all’anno in più di quello medio dei 15 paesi dell’Unione. Una crescita che porta il valore totale del nostro Pil, misurato in termini di Pil pro capite, a livello di quello dei paesi del’Unione più sviluppati. E’ dunque dai primi anni ’80 che s’inverte questo andamento positivo con un andamento del nostro Pil crescentemente inferiore a quello dei 15 paesi dell’Unione. Questa differenza sale a oltre un punto percentuale all’anno con lo sviluppo dell’econonomia finanziaria e delle relative speculazioni sino allo scoppio della crisi internazionale del 2007, mentre dal 2008 la variazione del Pil annuale scende a livelli medi negativi del -1,26 % all’anno per il nostro paese mentre si aggira intorno allo 0 per i paesi dell’Unione, come “segnali” dell’esistenza della crisi economica internazionale la cui natura e la cui entità vanno ricercate in quelle “forme di spericolato avventurismo finanziario” già segnalato sin dal 1981, da Federico Caffè. Nel periodo dal 2011 al 2015 si manifestano i primi pur deboli segnali di un superamento della crisi internazionale, con una ricaduta, tuttavia, nel 2013 e con incertezze negli anni successivi e, in conclusione, con un aumento ulteriore delle differenze delle variazioni del nostro Pil, sino a oltre 1,3 punti percentuali all’anno inferiore di quello dei Paesi UE 15. Come si è accennato, per valutare se gli andamenti del nostro Pil possono indicare un superamento da parte nostra della crisi internazionale, insieme al superamento anche della nostra crisi specifica, si dovrebbe verificare una convergenza con gli andamenti del Pil dell’UE 15; andamenti tendenzialmente paralleli indicherebbero un superamento, analogo a quello dei Paesi dell’UE 15, della crisi internazionale, ma non della specifica crisi nazionale, mentre un andamento divergente rappresenta l’indicazione di una crisi complessiva comprendente sia una componente internazionale sia una permanenza della componente nazionale. Dal Grafico 1 emerge come sino alla fine del 2015 la variazione del nostro Pil espresse in termini di valore prodotto per ora lavorata, non solo è inferiore a quello dei paesi dell’UE 19, ma come questa differenza tenda ad aumentare nel tempo. Anche i dati trimestrali per i primi due trimestri per il 2016 confermano queste tendenze. Occorre segnalare che la progressiva perdita di spinta per lo sviluppo, misurato in termini di Pil pro capite, ha già comportato per i cittadini italiani una perdita, rispetto ai cittadini europei, di quasi 4000 euro pro capite in dieci anni. La cattiva distribuzione di queste perdite di reddito individuale fa parte di un andamento generale sul quale si dovrebbe intervenire se non altro dal momento che è pressoché unanime il parere circa la negatività, ai fini dello sviluppo, della cattiva distribuzione della ricchezza. Interventi in questa direzione dovrebbero essere presenti nella prossima legge di bilancio, al di là di ogni altro provvedimento. Grafico 1 – Andamento del PIL (Fonte: elaborazioni su dati Eurostat) Resta la riflessione da sviluppare circa le riforme necessarie per correggere questo nostro divario negativo dal momento che le riforme introdotte danno segnali precisi di un non avvenuto superamento delle cause della nostra crisi interna. Tornando, quindi, alla questione delle cause di questa nostra crescente debolezza economica, la letteratura viene certamente in soccorso, incominciando da Kaldor a Verdoorn che da tempo avevano posto l’attenzione alle correlazioni che legavano l’andamento del Pil con quelle del settore manifatturiero e in particolare con la sua capacità competitiva. Una correlazione che era ed è, peraltro, comprensibile dato il peso diretto e indiretto che ha questo settore nell’economia di un paese. Senza escludere altre connessioni, incominciamo a verificare se nel caso del nostro paese esiste e di che natura è questa correlazione. A questo fine è possibile ricorrere a diverse verifiche, ponendo attenzione alle vicende internazionali che dovrebbero essere alla base del nostro diverso comportamento e che non devono essere di natura contingente. Se si analizza l’andamento delle quote del commercio internazionale da parte dell’UE19 e dell’Italia, da un certo periodo in poi – intorno agli anni fine decennio ’80 – entrambi questi attori economici vedono ridurre i valori delle rispettive quote. Il che, tenendo presente l’emergere dei Paesi in via di sviluppo, appare del tutto logico e corretto. Ma nel caso dell’Italia si nota una riduzione maggiore della propria quota anche rispetto a quella complessiva dell’UE 19. In sostanza i processi che hanno messo alla prova la competitività del sistema produttivo dei paesi europei, hanno avuto un maggiore rilievo nel caso italiano. A questo punto è opportuno ricordare le vicende che si sono verificate in quei decenni: è del 1971 la fine della convertibilità in oro del dollaro; è del 1973 – e poi all’inizio degli anni ’80 – la moltiplicazione del prezzo internazionale dei prodotti petroliferi. Occorre aggiungere un fenomeno già accennato e che ha trovato un punto di accelerazione con la fine della guerra fredda e il crollo del muro di Berlino: l’allargamento degli orizzonti delle relazioni internazionali era una conseguenza evidente. Nel contempo la percentuale degli scambi commerciali di prodotti ad alta tecnologia è cresciuta di circa dieci punti contro i circa tre del commercio nel suo complesso, evidenziando una accentuazione straordinaria del ricorso all’innovazione tecnologica e agli investimenti nel Sistema Ricerca e Innovazione. Le relazioni e le interdipendenze tra questi vari fenomeni economici sono evidenti e non è questa la sede per sviluppare tutte le conseguenti riflessioni. Sembra sufficiente constatare come le politiche economiche elaborate nei vari paesi, se volevano far fronte a trasformazioni che ponevano delle sfide e delle alternative pressanti, o progettavano una qualche strategia, delle risposte che adeguassero il proprio sistema economico e produttivo ad una competitività che aveva cambiato molte carte in tavola o altrimenti occorreva mettere nel conto una più o meno rapida retrocessione nella scala economica e sociale internazionale. Nel nostro Paese sulla base del successo ottenuto nei decenni precedenti il mondo politico, economico ed imprenditoriale ritenne di poter continuare sulla strada precedente, la strada “del piccolo è bello”, della forza dei distretti industriali, di una competitività che aveva bisogno solo di tenere e bada il costo del lavoro e le pretese sindacali, di una cultura microeconomica applicata anche ai livelli macro, di una dimensione culturale del ceto imprenditoriale che non a caso aveva, tra i paesi avanzati, la più bassa percentuale di dirigenti laureati, ecc., ecc. Tutto questo accrebbe le deformazioni nella specializzazione produttiva e nella struttura dimensionale delle imprese. Un dato che può sintetizzare questa condizione è rappresentato dal numero di ricercatori operanti nel sistema delle imprese: come si nota dal Grafico 2, il divario con i paesi avanzati è tale da non poter essere colmato se non in tempi storici o progettando degli interventi di carattere del tutto straordinario. La Confindustria chiede degli incentivi per la spesa in Ricerca e, stante al suo Vice Presidente, dei super ammortamenti per agli acquisti di macchinari. Per gli incentivi alla spesa in ricerca già vari interventi precedenti hanno indicato, con indagini specifiche sul campo, svolte anche dalla Banca d’Italia, la loro totale inutilità. Se poi si pensa di recuperare capacità innovativa attraverso l’acquisto di macchinari, si tratta della via scelta da tempo e che, oltre a portare il sistema ad un livello comune con i concorrenti, rischia di danneggiare poprio quei settori delle macchine che dovrebbe concorrere alla nostra competitività tecnologica; così come l’ipotesi avanzata di intervenire sui beni dell’Industria 4.0 “per diffondere l’innovazione tra le imprese “ presuppone che ci sia qualcuno che questa innovazione sia in grado di produrla, che è, per la verità, il punto negativo della nostra situazione, come si evidenzia anche dai dati riportati nel Grafico 2, nonché da una bilancia commerciale relativa ai prodotti ad alta e medio-alta tecnologia da sempre caratterizzata da un andamento crescentemente in negativo, senza nemmeno la capacità di cogliere le straordinarie occasioni che pur si sono presentate. E’ il caso, ad esempio, degli impianti per la produzione di energia fotovoltaica elettrica: come è noto, il costo del kwh è dato dalla somma del costo capitale – gli impianti per produrre l’energia elettrica – e il costo del combustibilile che per il nostro paese è essenzialmente un voce importante delle nostre importazioni e, quindi, con ricadute negative sul Pil. L’adozione e lo sviluppo nell’utilizzo della fonte fotovoltaica poteva essere molto evidentemente una straordinaria occasione per superare il vincolo energetico oltre che per corrispondere alle sfide ambientali. L’attenzione per le fonti rinnovabile ha prodotto da noi la solita politica degli incentivi – mai una politica industriale vera che nel caso specifico del nostro paese avrebbe costituito una occasione storica proprio per coniugare qualità e quantità dello sviluppo. Ma poiché si è operato agevolando l’acquisto all’estero del capitale – che nel caso del fotovoltaico rappresenta pressoché la totalità del costo del kwh – si sono caricate sugli utenti le relative agevolazioni con oneri sulle bollette e che ai cittadini sono costati in dieci anni circa 30 miliardi di euro, peggiorando la nostra bilancia energetica e perdendo nel contempo le opportunità occupazionali. Tutto questo mentre erano disponibili all’interno del Paese le conoscenze scientifiche-tecnologiche per avviare un percorso di qualificazione economica-ambientale-sociale del nostro sistema produttivo nel settore delle produzione delle fonti energetiche rinnovabili; ma si è rinunciato a quel percorso senza che nessuno – o quasi – abbia sentito la necessità di esprimere una critica o almeno di cercare di capire la logica di un provvedimento approvato dal Governo e ampiamente apprezzato, ambientalisti compresi. Il difetto stava nel manico, nel senso che queste conoscenze non appartenevano al sistema delle nostre imprese, delle quali erano ben noti i limiti strutturali in materia di ricerca e sviluppo, ma erano disponibili presso le strutture di ricerca pubblica con il rischio di “interferenze” in politiche che dovevano essere decise e attuate solo da interessi privati in quanto espressioni del “mercato”. Il richiamo a questa vicenda serve per riprendere il percorso centrale di questo intevento che intende individuare le cause della difficoltà del nostro sviluppo economico, difficoltà che, come si è visto, hanno almeno una componente di origine para-ideologica ma, in effetti, di ottusità microeconomica. Grafico 2 – Numero di ricercatori ogni mille occupati nel sistema industriale (Fonte: elaborazioni su dati Ocse) Nel Grafico 2 sono riportati gli andamenti del numero di ricercatori ogni mille addetti nel sistema industriale italiano e come media nei paesi dell’UE 15. La prima osservazione sta negli andamenti di queste curve, che appaiono del tutto coerenti rispetto a quelli relativi agli andamenti del nostro Pil a fronte di quello dei paesi della UE. La cosa non è casuale dal momento che gli andamenti del Pil sono gli effetti la cui causa stà, in maniera non esclusiva ma certamente rilevante, nei dati espressi nel Grafico 2. Il fatto che come conseguenza di questa carenza del nostro sistema produttivo si verifichi un eccesso nella “produzione” di laureati per cui ne possiamo esportare, viene affrontato dall’attuale “sistema” politico come una necessità di limitare o privatizzare l’azione del sistema universitario, riducendone, tra l’altro gli oneri, quindi con un effetto finale, secondo questa “scuola”, fortemente positivo dal momento che si potrebbe così ridurre la spesa pubblica. Questi scenari insieme alla mancanza di segnali circa il superamento della nostra crisi, pongono una questione apparentemente molto semplice ma, di fatto, molto complessa. La componente apparentemente semplice sta nella evidente necessità di mettere in discussione rapidamente le politiche economiche e industriali sin qui adottate e che hanno portato a questi esiti. Poiché questo non è avvenuto e non ci sono, almeno per ora, segnali di un qualche cambiamento, quanto piuttosto si rilevano frequenti indicazioni di conferma, evidentemente le complessità di una tale decisione sono a tutt’oggi nettamente prevalenti rispetto alla apparente semplicità. E’ bene precisare che le responsabilità vanno ben oltre a quelle dell’attuale governo, per il quale occorre solamente rilevare come le sue azioni di riforma possano confondersi con delle azioni di controriforma dal momento che non è semplice – per motivi culturali – saper cogliere le differenze nella nomenclatura adottata. Questa situazione è, peraltro, una conferme della battuta secondo la quale tra destra e sinistra non ci sono più differenze. Ma poiché per uscire da questa nostra crisi occorre cambiare quelle scelte economiche attuate sino ad ora, ne consegue che occorre modificare quelle politiche “comuni”, o, meglio, quella cultura che ha inventato l’identità tra destra e sinistra. Ed è a questo punto che si esalta la complessità della nostra situazione poiché all’evidenza del fallimento di quelle scelte non corrisponde ancora, neanche a sinistra, ad una concreta proposta alternativa, nemmeno sugli aspetti analitici che dovrebbero almeno indicare le cause della nostra specifica crisi, senza le quali non è pensabile di elaborare delle terapie corrette. Le previsioni sull’andamento del PIL 2016 – in attesa degli aggiornamenti contenuti nel prossimo DPF e del confronto con i dati degli altri paesi – per ora rappresentano una conferma del giudizio critico sulle politiche economiche e sociali di questo Governo, facendo emergere, visti i consensi di esponenti dell’accademia, della Confindustria e di buona parte dell’informazione, l’esistenza di una crisi dell’intera classe dirigente di questo paese. Questa crisi, se non consente di immaginarne il superamento a breve, chiama in causa anche le politiche dell’Unione verso la quale si cerca di scaricarne le responsabilità, mentre le sue origini sono tutte interne. Si apre a questo punto la necessità di una analisi e di una riflessione che deve aprirsi anche a questi orizzonti europei e internazionali. Una questione che deve essere affrontata ma non senza aver prima chiarito, tuttavia, la natura dei vincoli interni, se non altro per evitare di sperperare eventuali “concessioni” dell’Unione. Se esiste un accordo nel ritenere che l’attuale politica industriale – abbandonata come è alle scelte e alla gestione degli stessi imprenditori, confondendo così la microeconomia con la macroeconomia – non è in grado di recuperare la perdita di competitività internazionale che da molto tempo la distingue e debba essere corretta recuperando una moderna presenza industriale, questa non può poi identificarsi con il recupero di vecchie specializzazioni – come alle volte emerge anche a sinistra – se non altro perchè lo scenario competitivo interrnazionale non lo consentirebbe nemmeno sulla carta. Ma anche la riduzione dei problemi competitivi alla questione della scarsa spesa in ricerca da parte pubblica e privata, con conseguenti sollecitazione da parte industriale per ricevere degli incentivi in materia, confonde l’innovazione tecnologica con la ricerca scientifica, essendo quest’ultima la necessaria premessa – oltre che una dimensione della qualità culturale e sociale della società – ma non certo l’insieme di un Sistema Nazionale dell’Innovazione. Non a caso analisi varie, comprese quelle condotte dalla BdI, oltre alla logica, hanno confermato l’inutilità di questo intervento pubblico a favore degli incentivi alla spesa in ricerca da parte delle imprese, mentre sarebbe stato molto più intelligente sollecitare e agevolare l’intervento del sistema della ricerca pubblica, invece di tendere di fatto alla sua eliminazione. Quindi anche affidare l’elaborazione di una alternativa agli stessi operatori che hanno condotto la nostra società a questo punto, appare, a dir poco, molto discutibile. Volendo, quindi, entrare nel merito di una elaborazione progettuale alternativa l’unica questione che può e deve essere anticipata riguarda la precisazione dei valori che è necessario tenere presenti anche in materia di politica economica e sociale; la crisi ha generato ambiguità e confusioni anche in questo campo: occorre precisare che i valori da assumere sono quelli del socialismo riformatore e cioè l’eguaglianza e la libertà. Si tratta di scelte che prescindono e precedono la pur importante questione delle forme che deve o può assumere la democrazia. Altri potranno assumere altri valori ma almeno si saprà che vengono assunti valori diversi da quelli riformatori e si saprà anche che senza quei valori della sinistra, il nostro declino non avrà alternative. Con questa premessa è possibile poi riprendere le indicazioni di merito espresse – ancorchè sino ad ora inascoltate – in un dibattito rimasto estraneo alle responsabilità di Governo. In questo caso la sintesi offerta, ad esempio da Paolo Leon (P. Leon: I Poteri Ignoranti – pag 62), può rappresentare un ottimo riferimento: “E’ evidente che sarebbe necessario l’intervento pubblico. Ma il problema è complesso perché occorrerebbe, nei paesi ricchi, una riforma della finanza e delle banche, un redistribuzione di reddito e ricchezza, una riduzione del grado di monopolio, un aumento della spesa e proprietà pubblica, un rafforzamento legislativo del sindacato per aumentare la domanda effettiva e il reddito nazionale, e tutto ciò senza vendere titoli di Stato sul mercato, ma obbligando la Banca Centrale ad acquistarli, riducendone l’indipendenza. “Poiché nel frattempo si è aggiunta la disgraziata concomitanza della sequenza di terremoti, anche questa situazione deve finalmente essere affrontata con una approccio “all’economia della manutenzione” indicata da R. Lombardi sin dagli anni ’60. Il tempo trascorso negativamente è di oltre mezzo secolo ma, come si vede, non è ancora un approcio superato. Non così si potrà dire tra cinquant’anni per la politica economica e sociale che ha condotto il Paese al declino ormai pluridecennale che conosciamo. A questo punto non ci resta che preparare una nuova classe dirigente.
L’orientamento informativo delle università: marketing o pubblicità ingannevole?
Mai, come in questi ultimi anni, le scuole, e soprattutto quelle secondarie, sono state invase da ‘orientatori’ universitari pronti a presentare le loro ‘offerte’ formative e le loro convinzioni in materia delle competenze necessarie per affrontare il futuro. Ritenendo che l’orientamento sia una cosa seria, che abbia un suo corposo spessore scientifico, importanti paradigmi di riferimento e che debba essere praticato in ossequio alle norme sancite da precisi Codici deontologici come suggerito dalle più importanti associazioni internazionali interessate alle tematiche della scelta e della progettazione professionale (l’IAEVG, la S.V.P, la NCDA e la SIO per quanto concerne il contesto italiano) con questo scritto invito a non sottovalutare quanto sta avvenendo in molte scuole ed università dove le iniziative di orientamento vengono realizzate da colleghi che, improvvisamente, si ‘offrono’ e ‘dedicano’ ad esso, ritenendo che trattasi, tutto sommato, di semplice cosa soprattutto per loro che possono vantarsi di possedere lo status di docenti universitari. Sapendo di non essere il solo a considerare deontologicamente inaccettabile la modalità con la quale molto spesso viene ‘offerto’ l’orientamento informativo, pur ricordando che l’orientamento non dovrebbe fare a meno di stimolare ed incrementare  il ricorso al pensiero critico, a quello possibilista, controfattuale e prospettico, mi permetto di segnare che, come sostengono in molti, c’è marketing e marketing e che, come ha detto qualcuno, ‘Si può fare marketing rimanendo brave persone’ (Morici, 2014) se si decide, come dovrebbe fare quello universitario, di ricoprire una funzione responsabile e generativa, in favore di uno sviluppo sociale sostenibile, del benessere delle persone aiutandole nella ricerca e nella ‘selezione’ di sensi, di significati, di progetti per i loro futuri desiderabili guardando con un certo distacco le ‘offerte’ che da destra a manca elargiscono i mercati, compresi quelli della formazione e del lavoro. Può essere considerato ‘orientamento’ quello che fanno tante università telematiche e private che sono interessate soprattutto ad attrarre ‘clienti’ e che continuano a proporre un orientamento alla Parsons (1909) quello che, in ossequio al binomio domanda-offerta indicava ‘l’uomo giusto al posto giusto’ senza chiare, ovviamente, quando un posto, un lavoro, una domanda può essere considerata giusta e dignitosa  (una università telematica, ad esempio, invita a diventare nutrizionista iscrivendosi a Unipegaso: ‘l’università che ti consente di lavorare e laurearti in pochi mesi’! e AlmaLaurea, che non a caso è una srl, afferma a chiare lettere che ‘si dedica alla ricerca di profili in linea con le esigenze aziendali’ e che ‘eroghiamo servizi per agevolare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro qualificato, nell’intermediazione, nella ricerca e nella selezione del personale, in sinergia con gli Atenei e le Istituzioni pubbliche competenti, verso il mondo del lavoro’, avvalendosi, ovviamente, della consulenza di una schiera di esperti!) [1]. Tanti professionisti e tante agenzie dicono di fare , anzi di ‘offrire’ orientamento, ma di cosa si tratta? Molto raramente, come segnalano Pitzalis e Nota (2025) di quello formativo ed in sintonia con i valori della giustizia sociale e della lotta ad ogni forma di discriminazione. Ma almeno quello meno pretestuoso, quello meramente informativo, come viene realizzato dai nostri atenei. Può essere considerato sufficientemente trasparente e dignitoso?   1. ‘Tra il dire e il fare (orientamento) c’è di mezzo il mare’. Con questo detto mi riferisco, in particolare, alla constatazione che molti di coloro che stanno parlando di orientamento grazie ai finanziamenti del PNRR, pur dichiarando che il futuro, la formazione e il lavoro sono questioni complesse che richiedono visioni non semplicistiche e riduttive, si trovano spesso a presentare le opzioni universitarie in modo settoriale, un corso alla volta, dimenticando di invitare a tenere presente che sono sempre più urgenti autentiche interazioni tra settori professionali e disciplinari diversi, forme di effettiva collaborazione, interdisciplinarietà, multidisciplinarietà e transdisciplinarietà. La cosa, d’altra parte, non dovrebbe sorprendere più di tanto in quanto anche nel mondo accademico continuano ad essere molto rari i contributi di ricerca e le ‘imprese’ di orientamento che prevedono la compartecipazione di esperti provenienti da ambito di studio diversi. In effetti nell’orientamento, anche in quello informativo e che va per la maggiore, anche la semplice multidisciplinarietà, che comporterebbe la presentazione dei diversi campi di studio e/o ambiti professionali, senza schieramenti partigiani a favore di questa o quella disciplina, non sempre viene rispettata, non sempre le diverse discipline e i diversi corsi di laurea (scientifici vs umanistici; STEM vs STEAM, ad es.) vengono presentati come ugualmente impegnativi, dignitosi ed importanti per il futuro delle persone, dell’umanità e del nostro pianeta. In queste presentazioni le discipline vengono generalmente presentate una accanto all’altra suggerendo di fatto che gli sconfinamenti, l’uscire dai limiti, potrebbero danneggiare la reputazione e il ‘rigore’ di quella disciplina o di quella professione. Ciò che forse come orientatori dovremmo chiedere è che queste presentazioni, in vivo o in remoto che siano, avvengano in modo rispettoso della trasparenza ed utilizzino un tipo di Marketing 5.0 o 6.0 (Kotler, Kartajaya, Setiawan, 2016, 2025) che sono particolarmente sensibili alle questioni etico-sociali associabili alle operazioni di ‘presentazione e promozione dei prodotti’. Sarebbe già un passo in avanti, verso il futuro, chiedere che ad occuparsi della presentazione delle diverse discipline siano i nostri più giovani ricercatori e, soprattutto, quelli disposti a farsi interrogare a proposito delle ipotesi e degli obiettivi che si stanno ponendo con le ‘loro e specifiche ricerche’ in economia, o in diritto, o in ingegneria, ecc. e quali, fra dieci anni e giù di lì, si dovranno o sarebbe opportuno che si occupassero, i loro colleghi futuri, quelli interessati, come lo sono loro oggi, all’ingegneria, all’economia, alla filosofia, alla matematica, alla fisica, alla salute, ecc. (‘Chi fra 10, 15, 20 anni sarà un ricercatore di ingegneria, economia, biologia ecc. di cosa si occuperà?). Oltre ad essere multidisciplinare, l’attività ‘informativa’ di orientamento potrebbe essere anche interdisciplinare: a differenza di quanto sopra, in questo caso si dovrebbero segnalare soprattutto i  vantaggi derivanti dall’integrazione di due o più ‘saperi e visioni’, ugualmente interessanti ed importanti, in funzione di uno scopo o di un obiettivo, pur muovendosi da diverse angolazioni e punti di vista. Qui, oltre al costituirsi di collegamenti ed interazioni stabili tra ricercatori e campi di studio, verrebbe privilegiato un fare ricerca assieme a colleghi che posseggono modalità di analisi e riflessione non facilmente sovrapponibili. Optando per l’interdisciplinarietà, la presentazione delle offerte formative risulterebbe probabilmente maggiormente convincente se, a farla, saranno direttamente gli attori che stanno ponendo in essere in modo congiunto conoscenze e metodologie tradizionalmente appartenenti a discipline diverse (ad esempio, progetti che richiedono competenze di biologia ed informatica per sviluppare software di tipo medico, o di psicologia e neurologia, di scienze naturalistiche ed urbanistiche, etiche ed economiche, giuridiche e filosofiche, ecc.). Anche in queto caso, purtroppo, viene spontaneo domandarci se e quanto, in materia di orientamento, pur parlando di interdisciplinarietà, sono disponibili pubblicazioni scientifiche firmate da ricercator* afferenti a raggruppamenti SSD diversi, quanti progetti di ricerca a proposito delle dimensioni e delle variabili implicate nei processi di scelta, sono effettivamente interdisciplinari,  di quante ‘co-presenze’ si avvalgono i nostri usuali open day e i materiali che vengono ‘gratuitamente’ distribuiti in quei contesti. L’orientamento che guarda effettivamente al futuro, ad ‘oriente’, verso la luce e il sorgere del sole, afferma che non è sufficiente chiedere a due ricercatori impegnati in discipline diverse di lavorare ed ‘esplorare assieme’: sembra dirci che è sempre meno rinviabile la formalizzazione, anche all’interno dei nostri atenei e dei nostri servi, la presenza e la ‘stabilizzazione’ ‘di gruppi marcatamente eterogenei di ricerca’ che vedono lavorare assieme filosofi, matematici, economisti, architetti, giuristi, ingegneri, medici, psicologi, ecc., accumunati dal desiderio di collaborare per intraprendere assieme e farsi carico di ‘imprese quasi impossibili’ come quelle che appartengono alla schiera dei cosiddetti wiked problem (Rittel e Webber, 1973; Soresi, 2022; Gray et al. 2023) e quelle associabili alla lotta al lavoro indecente e ad ogni forma di disuguaglianza e discriminazione. Questi gruppi potrebbero essere considerati transdisciplinari in quanto, andando oltre le discipline tradizionali e sconfinando sistematicamente, cercano di risolvere problemi complessi con approcci che potrebbero essere ritenuti addirittura ‘deliranti’[2], globali ed inclusivi. Sarebbe bello, in un programma di orientamento anche informativo, che alle presentazioni dei diversi corsi di laurea, venissero fatti seguire da dibattiti e lavori di gruppo a proposito, ad esempio, del contributo che la filosofia, la matematica, l’urbanistica la medicina ecc. potrebbero fornire al ridimensionamento di problemi difficili e complessi, come quelli della competizione eccessiva che conduce a pochi vincenti e a molti perdenti, a conflitti più che ad armoniche collaborazioni, o a non occuparci sufficiente di quei 17 obiettivi che l’ONU, da tempo, ha indicato alle nazioni di tutto il pianeta. I progetti e programmi tranas-disciplinari di orientamento, come quelli che in altre occasioni abbiamo presentato come 5.0 (Soresi, 2023; Soresi e Nota, 2023; Pitzalis e Nota, 2025) si caratterizzano  per la presenza di linguaggi diversi, di quelli propri dell’economia, della sociologia, delle scienze ambientali, di questa o quella disciplina hard o soft, ecc. al fine di aiutare gli studenti, ma non solo, a sviluppare visioni olistiche delle possibili e future carriere, ad immaginare ‘scenari attraenti’ anche a coloro che hanno appreso soprattutto, e a loro spese, a diffidare e a praticare quell’impotenza appresa di cui da tempo ci hanno parlato tanti giganti dell’apprendimento e dell’orientamento. La prospettiva ‘metodologica’ che a proposito delle collaborazioni di cui necessita il mondo della ricerca e quello dell’intervento sociale e che attira maggiormente le simpatie dell’orientamento 5.0 è però quello dell’intersezionalità che, come noto, trova le sue origini nella storia femminista e antirazzista e che consente di evidenziare le relazioni esistenti tra i diversi fattori di discriminazione e le modalità di fatto in atto nella gestione più o meno partecipata dei diversi processi decisionali. Come ricorda Manfroni (2024) l’intersezionalità ci invita a ritenere ‘che ogni persona non può essere definita da una sola categoria identitaria e, di conseguenza, può essere oppressa o godere di privilegi per ragioni diverse’ (p. 1). Non sarebbe pertanto una modalità ‘intersezionista’ procedere, come ci ha abituato a fare anche tanta psicologia del lavoro e delle organizzazioni, l’individuazione di   tipologie da utilizzare per poter disporre di profili, classifiche, diagnosi, valutazioni, consigli, dimenticando, volutamente o non, che ogni situazione, ogni persona, ogni gruppo, ogni evento, ogni problema è diverso, singolare, e, questo, anche a proposito delle loro vulnerabilità e fragilità possibili. ‘Farne di tutto un fascio’, o tanti fasci, sulla base di distribuzioni statistiche più o meno accurate, senza tener di conto dei diversi livelli e delle diverse categorie di oppressione dalle quali potrebbero risultare colpiti i diversi ‘partecipanti’ ai campioni di standardizzazione dei nostri strumenti, è, come minimo, riduttivo e superficiale in quando nasconde l’eterogeneità delle necessità, dei bisogni, delle preoccupazioni e delle aspirazioni delle persone. 2. Anche l’orientamento universitario ricorre alla pubblicità ingannevole? Chi si rivolge all’orientamento va in cerca, molto spesso, di ‘chiarezza’, di aiuto, di  ‘neutralità’, in quanto sono sovente consapevoli che possono essere bersaglio di imprese ed agenzie che, pur di rimanere competitive, non disdegnano di ricorrere a pubblicità ingannevoli, a fome di marketing[3] tutt’altro che trasparenti, etiche, ad ‘avvertimenti’ e messa in guardia, (ad advertising, come  direbbero gli inglesi) o ad altisonanti richiami (réclame, come dicono i francesi) incrementando sovente perplessità, incertezze, paure e titubanze nei confronti del futuro (Re e Mosca, 2007). Con questo non auspico la messa al bando toutcourt del Marketing (anche le buone idee, le innovazioni, i valori, l’idea di giustizia, il rifiuto delle disuguaglianze, la pace e lo stesso orientamento 5.0, debbono essere adeguatamente proposte e ‘propagandate’!), ma si ritiene importante insegnare, a chi partecipa alle nostre sessioni di orientamento, a non prendere per oro colato tutto ciò che viene esposto nelle fiere dell’orientamento o enfatizzato nei diversi siti web. In altre parole, mi piacerebbe molto che, anche nell’ambito dell’orientamento informativo, non ci si limitasse a fornire risposte, ma si ponessero anche domande, dubbi, possibilità diverse, interrogativi a proposito di cosa ci si può o ci si dovrebbe attendere dai mercati, dalle imprese, dai servizi, compresi ovviamente quelli della formazione, della ricerca e dello stesso dell’orientamento. Quanto relazionale, olistico, etico e sociale è il marketing a cui anche gli Istituti di formazione e le Università fanno ricorso? Coloro che allestiscono gli stand, oltre a voler attirare l’attenzione degli studenti e degli insegnanti, quanto autenticamente palesano la loro responsabilità sociale invitando i possibili consumatori (gli studenti nel nostro caso) a riflettere e a contrastare le politiche di iperconsumo, a rispettare importanti valori quali quelli della salvaguardia dell’ambiente, della salute, di uno sviluppo effettivamente sostenibile, dell’inclusione, ecc.? Forse è pretendere troppo che in quelle manifestazioni o nei siti web delle nostre università traspaia nettamente il ricorso a quello che è stato definito marketing 5.0 o, addirittura 6.0, o almeno quello 4.0  che come da tempo hanno indicato Kotler, Kartajaya e Setiawan,  (2016), oltre ad utilizzare i supporti digitali e a mettere in evidenza i cambiamenti che le tecnologie emergenti stavano producendo, è attento sia ai comportamenti dei ‘consumatori’ che alle necessità delle ‘aziende’ e al monitoraggio , tramite persino appositi Blog, video, podcast, e post sui social media, di ciò che accade anche dopo il post vendita (pardon: dopo l’iscrizione a questo o a quel corso di laurea) a proposito, ad esempio, della soddisfazione dei diversi ‘clienti’? Fortunatamente incominciano ad essere abbastanza numerosi gli orientatori che ritengono opportuno, preparare gli studenti a guardarsi dalle pubblicità ingannevoli alle quali più o meno consapevolmente anche gli Istituti di formazione e le università potrebbero ricorrere presentando le proprie ‘offerte’. Nel far questo almeno tre momenti, tre fasi dovrebbero essere implementate: 1) Con la prima si potrebbe consentire allo student* di precisare il o i problemi di cui in futuro vorrebbe occuparsi (spesso derivano dall’analisi delle sue preoccupazioni, dall’individuazione di ciò che lo/la fa maggiormente indignare, dalle aspirazioni che si nutrono, ecc.). Come Guichard ricorda (2022) chi fa orientamento dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di più di quello sgomento e di quell’inquietudine che Guillebaud (2006) indicava come sempre più presenti e condivisi nelle società contemporanee occidentali e, ci sembra opportuno aggiungere, in fasce giovanili sempre più estese. Per queste ragioni, ed anche per suscitare interesse nei confronti dell’orientamento e del futuro, può essere d’aiuto, anche se ci si propone unicamente di informare, provocare reazioni con quesiti di questo tipo: ‘Ma per voi, quando inizierà il vostro futuro? Se poteste chiedere ad un futurologo, ad uno scienziato che studia ciò che potrà accadere, cosa chiedereste?  O ancora ‘In futuro, in quello che desiderate maggiormente, cosa non vorreste più vedere? Cosa vi piacerebbe studiare e fare (lavorare) per contribuire a far sì che tutto questo si realizzi? Girando tra gli stand, perché non chiedete: ‘In quale vostro corso di laurea si studia soprattutto ciò che mi sta effettivamente a cuore (come si lottano le disuguaglianze? Come si fa prevenzione a proposito delle malattie più insidiose e delle pandemie? Come si rende attraente lo studio? Come si debella la povertà? Come si prevengono gli incidenti e le morti sul lavoro? Dove sono previsti insegnamenti di economia etica? Di informatica per la tutela della privacy? E dove si dibatte di pace, di solidarietà, di lavoro cooperativistico? In quali corsi di laurea il parere degli studenti viene sistematicamente richiesto e tenuto in considerazione nella progettazione didattica? Le prove di accesso eventualmente presenti, quali saperi privilegiano? Tengono conto degli interessi e delle esperienze maturate dagli studenti? Come viene favorita l’integrazione? Ecc.   2) Dopo la raccolta delle informazioni, si potrebbe suggerire di procedere, con operazioni di confronto al fine restringere le opzioni da considerare in sede di decision making, con la compilazione, di tabelle riassuntive simili a quella qui di seguito riprodotta a titolo meramente esemplificativo. Utili, successivamente,  potrebbero risultare le indicazioni che da tempo hanno suggerito gli studiosi dell’utilità attesa ponderando, per ciascuna opzione vanteggi e svantaggi (Nota, Mann, Soresi e Friedman, 2002; Heppner,1988; Peterson et.al. 1996). Dopo questa prima ricognizione si potrebbero invitare gli studenti ad andare più a fondo, visionando almeno le presentazioni degli insegnamenti considerati maggiormente attraenti. L’esempio riportato nel riquadro sottostante può essere ritenuto una guida sufficiente articolata.   3) Un orientamento informativo di qualità potrebbe, infine, sollecitare un’analisi attenta dei diversi siti web tramite i quali gli Istituti di formazione e le Università promuovono le proprie offerte. Dopo aver chiesto ai nostri studenti di navigare in quelli che, a prima vista, considero interessanti e pertinenti alle proprie aspettative ed aspirazioni (quelle di università che propongono percorsi formativi in sintonia con i ‘problemi’ considerati importanti ed urgenti dallo studente o dalla studentessa e già individuati nel passo precedente) si può chiedere di riflettere a proposito della qualità del marketing utilizzato per la presentazione delle diverse offerte formative. Qui, magari dopo aver parlato almeno un po’ di pubblicità ingannevole e agnotologia (Proctor, 2004), potrebbe essere sufficiente chiedere loro di rispondere e discutere assieme: – Se e quanto è stato facile individuare e trovare il corso ritenuto interessante; – Se è indicato il periodo durante il quale verrà attivato (ad es. primo o secondo semestre?); –  Se c’è l’orario delle lezioni (giorni e ore in cui si svolgono); – Se ci sono informazioni adeguate a proposito docenti (come contattarli, E-mail, numeri di telefono, uffici e orari di ricevimento? – Se ci sono brevi biografie, descrizione delle loro qualifiche, dei loro interessi di ricerca e delle esperienze maturate? – La descrizione del Corso può considerarsi esaustiva? (contiene l’elenco degli obiettivi che si propone, la sintesi degli argomenti trattati, la necessità del possesso di alcuni prerequisiti ritenuti fondamentali, l’indicazione delle conoscenze necessarie o dei corsi che precedentemente andrebbero frequentati?); – Ci sono precisi riferimenti a libri di testo obbligatori e/o consigliati, con titoli, autori ed edizioni? – Sono presenti link a risorse online, articoli, siti web o piattaforme di e-learning che saranno utilizzati nel corso? – Si fa riferimento al tipo di didattica che sarà utilizzata (ad es. lezioni frontali, laboratori, esercitazioni, ecc.)? – Contiene informazioni precise a proposito delle modalità che saranno utilizzate per lo svolgimento degli esami (es: in forma orale o scritta, tramite domande aperte o questionari con item a scelta multipla, ecc,)? – È indicato se e in che misura vengono valorizzate, in sede di valutazione, la partecipazione alla realizzazione di progetti personali o collettivi, il contributo offerto alle discussioni e partecipazioni alle attività d’aula, eventuali attività extra-accademiche, ecc.?); – I costi da sostenere per ottenere l’iscrizione e la frequenza sono facilmente reperibili? – Le informazioni e i dati relativi ai tassi di ammissione e ai criteri di selezione sono indicati in modo sufficientemente chiaro (ad es. contenuti delle prove di ammissione, quanti studenti vengono ammessi rispetto al numero di domande pervenute, ecc.?); – Il sito riporta ‘le voci degli studenti’? Si tratta unicamente di ‘storie di successo’ o sono rappresentative della maggioranza degli iscritti? – Vengono fornite statistiche sui risultati accademici e professionali della totalità degli studenti? Ci sono informazioni accurate a proposito delle prospettive di lavoro dei laureati (ad es. statistiche e testimonianze di ex studenti?); – Se un ateneo si definisce ‘eccellente’, a quale agenzia di rating fa riferimento? (alla Standard & Poor’s, alla Moody’s, alla Fitch Ratings, alla QS World University Rankings, alla Times Higher Education (THE) World University Rankings, all’Academic Ranking of World Universities (ARWU) o all’Europea U-Multirank che consente di confrontare le università sulla base di alcuni criteri specifici quali, ad esempio, quelli riguardanti la relazione insegnamento-apprendimento, le pubblicazioni interdisciplinari, l’orientamento internazionale e il coinvolgimento nelle realtà territoriali)? è corretto che si considerino ‘eccellenti’ quelle che si posizionano al 111°, al 132° o al 133° posto della graduatoria? – Sono precisate le collaborazioni e partnership che l’ateneo intrattiene con altre istituzioni educative, aziende o organizzazioni? – Sono indicate con chiarezza le sue politiche per l’inclusione e la valorizzazione delle diversità? – Le informazioni a proposito di come godere di supporti finanziari e borse di studio, sono chiare, dettagliate e facilmente accessibili?   Probabilmente, per un orientamento universitario informativo di qualità, si può sicurante fare ancora di meglio e di più ed è questo l’auspicio che mi ha spinto a scrivere queste poche righe. Si potrebbe, ad esempio, iniziare a non parlare più di più di orientamento in entrata, in itinere ed in uscita in quanto queste ‘differenziazioni’ mascherano in modo poco etico che: 1. a) il primo, altro non è che un insieme di operazioni di valutazione e selezione teso a valutare le competenze e l’idoneità degli studenti che hanno già espresso il loro desiderio di accedere a questo o a quel corso; 2. b) il secondo, una sorta di monitoraggio dei tempi e della qualità dell’apprendimento con la buona intenzione, ovviamente, di ridurre quei ritardi che minerebbero l’efficienza e l’efficacia dei nostri corsi senza però mettere in discussione la qualità della didattica che è stata di fatto posta in essere; 3. c) il terzo, infine, non ha proprio nulla a che fare con l’orientamento in quanto non si propone di aiutare a scegliere e costruire futuri; si tratta di un vero e proprio servizio di collocamento di cui ad avvantaggiarsene sono proprio quelle imprese che, anche in nome della terza missione, sono riuscite ad ottenere le simpatie, spesso non gratuitamente, dei nostri atenei. Quello ‘in uscita’ a mio avviso, rappresenta la morte dell’orientamento e l’offerta di dati e profili a coloro che trovano vantaggioso, non aiutare le persone a scegliere (scopo ultimo dell’orientamento) ma selezionare e scegliere i nostri neolaureati!   L’orientamento, quello con la O maiuscola, è tutt’altra cosa in quanto non si accontenta di considerare il presente e le sue offerte, ma guarda alla Società 5.0, a quella che verrà, caratterizzandosi essenzialmente come dispositivo di prevenzione e volano di giustizia sociale che fa ricorso a percorsi formativi al fine di diffondere il pensiero critico, possibilista, prospettico, invitando al contempo ad immaginare e tentare di costruire cosa si desidera che accada tra 10, 15 o 20 e a non limitarsi a considerare solo cosa i mercati di oggi propongono e sono disposti ad offrire. Da un punto di vista etico e professionale, infine, è tollerabile che chi pone numeri chiusi e prove di ammissione, organizzi al contempo tanti workshop e webinar per insegnare ‘come si superano le prove di ammissione e selezione’, ‘come si suscita una buona impressione negli interlocutori’, ‘come è opportuno addobbarsi in vista di un colloquio di selezione’, ‘come sviolinare le proprie competenze’, ‘come si scrive un curriculum’, ‘come dimostrare che si nutre una bella impressione di questa o quella impresa’ e così via! L’orientamento può essere trattato come disciplina dell’apparire?   Bibliografia Gray, A.N, Pelz, K., Hayward, G.D., Schuler, W., Salverson, T., Palmer, M., Schumacher, C., Woodall, C.W. (2023). Perspectives: The wicked problem of defining and inventorying mature and old-growth forests. Forest Ecology and Management, Vol.15, October 121350. Guichard, J. (2022), Qual accompagnamento all’orientamento in questo inizio di 21mo secolo? Isre, 1, 15 aprile. Guichard, J., & Huteau, M. (2003). Psychologia dell’orientamento professionale. Teorie e pratiche per orientare la scelta negli studi e nelle professioni. Milano : Raffaello Cortina Editore. Guillebaud, J.-C. (2006). La grande inquiétude. Etudes, 404, n°1, 11-21. Heppner, P.P. (1988).The Problem-Solving Inventory: Manual. Consulting Psychologists Press, Paolo Alto, CA. Kotler, P., Kartajaya, H., Setiawan, I. (2016) Marketing 4.0: Moving from Traditional to Digital, John Wiley & Sons Inc. Kotler, P., Kartajaya, H., Setiawan, I. (2025) Marketing 6.0. futuro è immersivo. Milano: Hoepli. Manfroni, A. (2024). Appunti sul concetto di intersezionalità. La Rivista culturale.com, 11 gennaio Morici, G. (2014). Fare marketing rimanendo brave persone. Milano: Feltrinelli. Nota, L. Mann, L., Soresi, S., Friedman, I.A. (2002). Scelte e decisioni scolastico-professionali. Firenze, Giunti-OS.; Heppner,1988; Parsons, F. (1909). Choosing a Vocation. Boston, MA,Houghton Mifflin. 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L’orientamento 5.0. …quello che non si accontenta di valutare e profilare, Nuova Secondaria, 4, XLI, 134-146.   [1] Non è certamente possibile considerare ‘sostenibile’ e tanto meno formativo quell’orientamento che, dopo la proposta di un questionario online, produce profili ‘bestiali’, che continua a parlare di discipline più che di problemi, a chiedere ‘che cosa vuoi fare da grande’ dando pertanto del ‘piccolo’ a chi accede ad AlmaLaurea, e a cliccare ‘su ogni animaletto’ – dalla tartaruga al leone, dal cane di guardia al gatto sornione, dalla formica ambiziosa al cavallo di Zorro, al lupo d’appartamento, dall’ornitorinco all’aquilotto alpino e al delfino mediterraneo … a quello cioè che ‘…non è soddisfatto della flessibilità dell’orario di lavoro, della possibilità di disporre di tempo libero, del luogo di lavoro, del rapporto con i colleghi, della possibilità di essere automi e indipendenti, della stabilità del proprio lavoro. Ma gli 82 Atenei che aderiscono a questo Consorzio, prima di trasmettergli i dati dei propri laureati, si sono chiesti che condividono questa visione marcatamente neoliberista della formazione e questo modo obsoleto di fare orientamento? Sanno che tra i suoi obiettivi specifici figura il ‘raccogliere e rendere disponibili online i CV dei laureati (oggi 4.115.00) per agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro qualificato; valutare le esigenze e i profili professionali richiesi dalle imprese pubbliche e private, italiane e stranire e svolgere attività di ricerca e selezione del personale  – il grassetto è nel sito di AmaLaurea – … società autorizzata dal Ministero del Lavoro all’esercizio dell’attività di ricerca e selezione del personale…’? Se si, mi auguro almeno che i vari Delegati all’orientamento chiedano di ricorre ad un ‘bestiaro’ maggiormente riconosciuto a livello internazionale, di indicare, in modo trasparente, a quale modello e a quali paradigmi scientifici intendono ancorarsi pur nell’intento di agevolare le imprese a scegliere e selezionare i propri neolaureati.   [2] Proprio nel senso latino di uscire, oltrepassare i solchi, i confini (‘de -fuori- e -lira- solco confine’). Chiedere ai ricercatori e agli orientatori di essere un po’ deliranti, di parlare di lotta alle disuguaglianze, di inclusione, della necessità di superare il neoliberismo, di non essere anch’essi succubi dei mercanti, può forse significare anche chiedere loro di essere un po’ visionari, indisciplinati, un po’’fuori’ e questo, ovviamente, non tutti sono disposti a farlo o ad essere considerati tali. Forse, però, potremmo ridimensionare il rischio di essere considerati unicamente dei provocatori teorici, che non hanno i piedi per terra, allenandoci a nostra volta a presentare le nostre argomentazioni in modo chiaro, razionale e con dati ed evidenze scientifiche che potrebbero rendere maggiormente convincenti, ‘costruttivi’ e praticabili inostri auspici. [3] Anche in questo caso l’uso del plurale è d’obbligo. Pur trattandosi di una disciplina tutto sommato molto recente risalente alla prima metà del secolo scorso, si presenta già con molteplici definizioni enfatizzanti certamente contenuti, paradigmi e valori diversi (vds, ad es. Re e Mosca (2014) che affermano che il Marketing non è più unicamente centrato sulla vendita di prodotti e servizi come faceva quello che è definibile come Marketing 1.0 e che era contemporaneo all’Industria, alla Società e all’Orientamento 1.0 propri della fine del ‘800 (Parsons, 1909; Guichard e Huteau, 2003).