
Quanto è rossa davvero l’estate di New York?
Popoff Quotidiano - Sunday, July 13, 2025Per Wall Street Mamdani è comunista. E’ davvero così? Una cosa è certa: i miliardari non dovrebbero esistere
Zohran Mamdani ha scritto una pagina di storia politica con la sua vittoria alle primarie democratiche per la carica di sindaco di New York. Con oltre 565.000 voti, il 33enne socialista appoggiato da Alexandria Ocasio-Cortez ha superato ogni precedente record elettorale per una primary nella metropoli americana. È riuscito là dove altri si erano fermati: battere Andrew Cuomo, un ex governatore ancora protetto da una fitta rete di potere centrista, e vincere con largo margine nel Ranked Choice Voting, in soli tre round. Una scossa sismica per il Partito Democratico e per Wall Street, che ne ha percepito immediatamente il rischio politico: aumenti delle tasse per i milionari, patrimoniali su rendite e proprietà, un ritorno alla redistribuzione. Il panico è scattato immediatamente: “è ufficialmente l’estate calda dei comunisti”, ha dichiarato Dan Loeb, fondatore dell’hedge fund Third Point, mentre un gruppo di super-ricchi newyorkesi si è mobilitato sotto l’egida di “New Yorkers for a Better Future Mayor 25” per fermarlo con 20 milioni di dollari di contro-campagna.
Ma quanto è rossa davvero questa estate?
Il trionfo di Mamdani ha scatenato entusiasmi genuini nei sindacati, nei movimenti di base, nei settori popolari delle boroughs. La United Federation of Teachers, il sindacato 32BJ, il Council on Hotel and Gaming Trades, le infermiere e i lavoratori dei trasporti: tutti si sono schierati con “Zo”, vedendo nella sua candidatura la prima occasione reale di sovvertire l’ordine neoliberale della città. “Una visione positiva e ottimista per una città veramente accessibile”, l’ha definita Manny Pastreich del 32BJ. Persino alcuni democratici eletti hanno rotto gli indugi: il deputato Adriano Espaillat, inizialmente sostenitore di Cuomo, è salito sul palco con Mamdani a Washington Heights, sancendo simbolicamente il passaggio di un pezzo dell’establishment alle forze del socialismo municipale.
Eppure, come fa notare John Nichols su The Nation, il partito democratico ufficiale è rimasto paralizzato. Chuck Schumer, Hakeem Jeffries, il governatore Hochul: silenzio. Altri, come la senatrice Kirsten Gillibrand, hanno preferito attacchi ambigui, salvo poi correggersi dopo le accuse di islamofobia. Il segnale è chiaro: Mamdani ha vinto, ma la macchina democratica nazionale è troppo legata agli interessi economici per seguirlo. Troppo timida per alzare la voce contro i miliardari che gridano all’“esproprio”, troppo compromessa con la finanza immobiliare, le fondazioni tech, le lobby sanitarie. E troppo spaventata all’idea che il populismo redistributivo possa sfuggire di mano.
Il nodo sta proprio qui. Mamdani non ha solo vinto. Ha rilanciato una domanda politica e morale che negli Stati Uniti nessuno osa più pronunciare: “Abbiamo davvero bisogno dei miliardari?”
A questo proposito, l’analisi di Romaric Godin su Mediapart è una doccia fredda necessaria. Godin riconosce il potenziale radicale della proposta di Mamdani, ma la inserisce in una cornice che ne denuncia i limiti sistemici. L’idea di tassare i miliardari per finanziare i servizi pubblici, sostiene, si basa su un presupposto fragile: che il capitalismo continui a generare sufficiente valore da poter essere redistribuito. Ma la realtà è che il capitalismo attuale non produce più benessere diffuso: produce rendita, monopolio e sorveglianza.
Il numero di miliardari si è moltiplicato per oltre 50 dal 1987 al 2023, ma i salari reali stagnano, la produttività ristagna, la disuguaglianza cresce. Jeff Bezos non ha creato valore attraverso la produttività, ma attraverso il monopolio e la logistica predatoria. Il trickle-down è un mito: i miliardari non investono in attività produttive, bensì in strumenti di cattura del valore. Se l’argomento di Michael Strain sul Financial Times è che Bezos ha “creato 11 trilioni di dollari per tutti noi”, allora possiamo serenamente rispondere che il capitalismo moderno ha smesso di essere un motore collettivo.
È qui che l’economia incontra la politica. Mamdani, come Sanders e Ocasio-Cortez, propone un socialismo democratico che non rifiuta il capitalismo, ma ne vuole contenere gli eccessi. Non è una rivoluzione, è una riparazione. Ma anche questa modesta riparazione fa paura. Perché mette in discussione il principio sacro dell’accumulazione illimitata. Perché chiama i ricchi per nome, chiede loro una “giusta quota” e li toglie dall’aura di benefattori. Mamdani non è un comunista, come ha detto in modo scomposto Trump: è un cittadino che pretende che anche i miliardari lo siano.
Godin resta scettico: senza una rottura strutturale con la logica dell’accumulazione, anche il miglior programma redistributivo rischia di restare appeso alla crescita che non c’è. E ha ragione. Ma sbaglia chi scambia questo scetticismo per cinismo. Perché una cosa è certa: la vittoria di Mamdani segna un cambio di fase. Per la prima volta una città globale come New York potrebbe avere un sindaco che non solo nomina il capitalismo, ma lo interroga. Non un outsider, ma un eletto con mezzo milione di voti. Non un teorico, ma un organizzatore.
Quanto è rossa davvero l’estate di NY? Forse non abbastanza da bruciare il sistema. Ma abbastanza da illuminarne le crepe. E per chi viene dai margini, dalle boroughs e dai sindacati, può bastare per cominciare.
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