Asimmetrie invisibili: due storie vere di internazionalizzazione accademica

ROARS - Friday, September 19, 2025

L’internazionalizzazione è oggi una parola chiave nel lessico delle politiche universitarie europee. Bandi, progetti, programmi di dottorato e iniziative di cooperazione spingono a “globalizzare” la formazione superiore e a promuovere la mobilità di studenti e ricercatori (Kushnir &Yazgan, 2023). Ma cosa accade quando questi obiettivi incontrano la quotidianità concreta dell’università italiana? Le pratiche di cooperazione e supervisione sono davvero in grado di produrre scambio e crescita reciproca? Oppure rischiano di riprodurre, sotto nuove forme, disallineamenti e squilibri? In questo contributo raccontiamo due esperienze vissute presso l’Università di Genova: un progetto di cooperazione con un’università africana e la supervisione di un dottorato di ricerca con un candidato/a proveniente da un paese asiatico a basso reddito. Due vicende diverse, ma accomunate dalla stessa domanda: può l’internazionalizzazione realizzarsi davvero, se le strutture accademiche e culturali rimangono profondamente disallineate?

Cooperare in assenza di simmetria

Il primo caso riguarda un progetto di capacity building con l’Universidade Eduardo Mondlane di Maputo (Mozambico), finanziato nell’ambito della cooperazione allo sviluppo (Collins et al. 2010). Il progetto prevedeva attività congiunte di didattica, ricerca e terza missione. L’inizio fu promettente: entusiasmo reciproco, incontri produttivi, una visione condivisa degli obiettivi. Ma ben presto, nella quotidianità operativa, emersero difficoltà profonde: i compiti avanzavano lentamente, la comunicazione era discontinua, la pianificazione ricadeva quasi interamente sul gruppo italiano. Inizialmente interpretammo questi ostacoli come semplici inefficienze organizzative. Col tempo, tuttavia, divenne evidente che si trattava di differenze sistemiche: il calendario accademico della UEM, le priorità istituzionali, la disponibilità dei docenti seguivano logiche molto diverse dalle nostre. I nostri strumenti – scadenze strette, rendicontazioni formalizzate, riunioni calendarizzate con mesi di anticipo – riflettevano aspettative implicite su cosa significhi “cooperare”: lavorare in sincronia, rispettare milestone, produrre deliverables. Ma queste aspettative, profondamente radicate in una cultura accademica europea e performativa, si rivelavano inadeguate a un contesto diverso. Il rischio, anche senza intenzione, era quello di scivolare nel classico schema Nord–Sud: la progettazione e la visibilità al Nord, l’implementazione incerta e marginalizzata al Sud. È una dinamica “coloniale” ben documentata nella letteratura sulla cooperazione accademica internazionale, che mostra come le partnership, anche se formalmente paritarie, tendano a riprodurre gerarchie epistemiche e operative (Swartz et al., 2020; De Wit & Altbach, 2021). Nel nostro caso, l’asimmetria non si esprimeva solo in termini di risorse, ma anche nel diverso peso dato al tempo, alla burocrazia, alla flessibilità operativa. Di fronte alle difficoltà, il primo impulso fu quello di “correggere” il partner: accelerare, riorganizzare, offrire più strumenti. Solo dopo diverse frustrazioni ci rendemmo conto che era necessario un cambio di paradigma. Decidemmo di sospendere alcune attività, rinegoziare obiettivi, accettare una diversa scansione temporale. Ma soprattutto, iniziammo a chiedere invece di proporre, ad ascoltare invece di pianificare. Scoprimmo così che alcune delle priorità che per noi erano urgenti non lo erano affatto per i colleghi mozambicani – e viceversa. Il punto di svolta non fu un miglioramento gestionale, ma un gesto relazionale: riconoscere che la cooperazione non può basarsi su modelli prestabiliti, ma richiede negoziazione continua, adattamento reciproco e una disponibilità a mettere in discussione il proprio punto di partenza. In altre parole, cooperare significa anche disattivare aspettative implicite, spesso invisibili ma profondamente operative. È un lavoro di decentramento, non solo logistico ma culturale ed epistemico. E forse è proprio lì che l’internazionalizzazione può diventare un processo trasformativo, invece che una cornice normativa da rispettare.

Supervisione senza cornici condivise

La seconda esperienza riguarda la supervisione di dottorato in un laboratorio biomedico. Il candidato/a, proveniente da un contesto accademico e culturale molto diverso dal nostro, aveva ottenuto l’ammissione sulla base di titoli apparentemente adeguati. Tuttavia, fin dai primi mesi, emersero gravi difficoltà: scarsa autonomia nel lavoro, incertezza nell’applicazione del metodo sperimentale, difficoltà a collegare attività pratiche e fondamenti teorici. All’inizio attribuimmo tutto a un fisiologico periodo di adattamento. Ma con il tempo ci accorgemmo che le difficoltà persistevano, nonostante l’impegno del candidato/a. Il problema non era solo linguistico, infatti molte attività scientifiche e amministrative si svolgevano in italiano, ma più profondamente epistemico: cosa significa “fare ricerca”? Qual è il ruolo del tutor? (Guarimata-Salinas et al. 2024). Che tipo di iniziativa è attesa da un dottorando/a? Le risposte a queste domande non erano condivise con il candidato/a ne comprese. In assenza di cornici culturali e accademiche comuni, la presenza del dottorando/a si riduceva progressivamente a una forma passiva. Non si trattava (solo) di una fragilità individuale, ma della mancanza di strumenti strutturati per affrontare situazioni di questo tipo. Molti studenti internazionali, specialmente quelli provenienti da paesi a basso reddito, vedono l’Italia come una meta di prestigio e opportunità, ma si scontrano con un sistema che, pur formalmente aperto, non è strutturato per accoglierli davvero.

Nel dottorato italiano, l’ammissione è spesso un “punto di non ritorno”: superato il concorso, non sono previsti veri meccanismi di monitoraggio o supporto. I tutor si trovano soli a gestire situazioni complesse come quelle interculturali, senza formazione specifica, senza protezione istituzionale, e con valutazioni in itinere annuali spesso poco più che rituali. Eppure, è proprio il dottorato ad aver incarnato alcune delle principali riforme dell’istruzione superiore europea: dal Processo di Bologna del 1999 (https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process) al modello delle Marie Skłodowska-Curie Actions (https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/), l’idea di un dottorato internazionale, interdisciplinare e strutturato è stata al centro di molte politiche di innovazione accademica. Ma nella pratica quotidiana, queste trasformazioni restano spesso parziali. In molte sedi italiane, i dottorati, pur aspirando ad accogliere studenti internazionali, continuano a essere profondamente nazionali, sia per lingua che per modalità di insegnamento e valutazione. Questo accade in un contesto dove l’internazionalizzazione dei dottorati è più dichiarata che realizzata. Solo il 16% dei dottorandi in Italia è straniero (vs. 33% in Portogallo, 38% in Francia) (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1), e in molti casi l’inserimento resta superficiale. L’“apertura internazionale” si riduce, nei fatti, a un’aggiunta decorativa più che a una trasformazione sostanziale.

L’internazionalizzazione come trasformazione (non come etichetta)

I due casi raccontati pongono la stessa questione: può l’università diventare realmente internazionale senza mettere in discussione sé stessa? La risposta, per noi, è no. L’internazionalizzazione autentica non è una procedura, né un obbligo da bando. È un processo trasformativo che coinvolge epistemologie, ruoli, tempi, linguaggi. Non basta “accogliere” l’altro; occorre rimettere in discussione ciò che diamo per scontato: i nostri criteri di valutazione, le nostre aspettative, i nostri modelli impliciti di successo scientifico. Chi definisce cosa è “valido”? Quali forme di conoscenza riconosciamo, e quali marginalizziamo? Chi porta il peso del disallineamento nei progetti o nei percorsi formativi? Sono domande scomode, ma necessarie, se vogliamo che la cooperazione e la supervisione internazionale escano dalla retorica e diventino strumenti reali di crescita.

Conclusioni: mutualità, non solo mobilità

Non abbiamo ricette universali per risolvere queste tensioni. Ma una direzione ci sembra chiara: occorre spostare l’attenzione dalla “mobilità” dei soggetti alla “mutualità” delle relazioni. Non basta far circolare studenti, dottorandi o progetti oltre i confini. Bisogna costruire contesti relazionali capaci di accogliere le differenze non come ostacoli da superare, ma come risorse da comprendere. Supervisionare, cooperare, formare – in un contesto globale – richiede riflessione, strumenti flessibili, e istituzioni capaci di sostenere il cambiamento. L’internazionalizzazione, se presa sul serio, non si compie con la firma di un accordo, ma si costruisce nel disallineamento quotidiano: nella fatica di capirsi, nel coraggio di rinegoziare, nella volontà di cambiare insieme. E forse, proprio da queste asimmetrie invisibili, può nascere l’università che ancora non c’è.

 

Referenze

  1. Kushnir, I., & Yazgan, N. (2023). The politics of higher education: the European Higher Education Area through the eyes of its stakeholders in France and Italy. Humanities and Social Sciences Communications, 10(1), 1–11. https://doi.org/10.1057/s41599-023-02300-x

 

  1. Collins, F. S., Glass, R. I., Whitescarver, J., Wakefi, M., & Goosby, E. P. (2010). Capacity in Africa. Science, 330(December), 1324–1325.

 

  1. Swartz, S., Barbosa, B., & Crawford, I. (2019). Building Intercultural Competence Through Virtual Team Collaboration Across Global Classrooms. Business and Professional Communication Quarterly, 83(1), 57-79. https://doi.org/10.1177/2329490619878834 (Original work published 2020)

 

  1. de Wit, H., & Altbach, P. G. (2020). Internationalization in higher education: global trends and recommendations for its future. Policy Reviews in Higher Education, 5(1), 28–46. https://doi.org/10.1080/23322969.2020.1820898

 

  1. Guarimata-Salinas, G., Carvajal, J. J., & Jiménez López, M. D. (2024). Redefining the role of doctoral supervisors: a multicultural examination of labels and functions in contemporary doctoral education. Higher Education, 88(4), 1305–1330. https://doi.org/10.1007/s10734-023-01171-0

 

  1. https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process

 

  1. https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/

 

  1. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1

 

 

 

Biografie

Katia Cortese è professoressa associata di Anatomia Umana presso l’Università di Genova, dove coordina attività di ricerca nel campo dell’imaging subcellulare, della morfologia e delle risposte cellulari ai trattamenti oncologici. È impegnata nella formazione dottorale e in progetti di educazione con particolare attenzione alla riflessione critica sul ruolo della visione scientifica e sulle dinamiche interculturali nella ricerca.

Marco Frascio è professore associato di Chirurgia Generale presso l’Università di Genova. È stato coordinatore del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e attualmente è delegato del Rettore per la Cooperazione Internazionale. Si occupa di chirurgia oncologica e formazione medica, con esperienza in progetti di cooperazione internazionale in Africa, Asia e Cina.