Organizzarsi nella crisi: i workshop su istituzioni europee, svolta autoritaria, congiuntura di guerra

EuroNomade - Thursday, August 7, 2025

Pubblichiamo le sintesi dei tre workshop tematici interni al seminario di Euronomade ORGANIZZARSI NELLA CRISI (Padova, 9-11 maggio 2025

Workshop 1: Infosfera, piattaforme digitali, comunicazione

Il workshop ha approfondito la complessità del ruolo delle piattaforme digitali come luogo centrale dello scontro di classe contemporaneo. La discussione ha evidenziato come queste piattaforme siano autentiche architetture materiali e politiche che rimodellano profondamente ogni aspetto della vita quotidiana, ridefinendo la territorialità e ristrutturando le relazioni sociali e produttive.

A partire dagli anni ’80 e ’90, l’informatizzazione ha generato una trasformazione radicale degli spazi e dei tempi, creando un intreccio caotico tra dimensione urbana e globale. Le piattaforme digitali hanno profondamente trasformato lo spazio digitale rendendolo sempre più simile allo spazio urbano reale, dominato da logiche di privatizzazione e frammentazione. Strumenti ampiamente utilizzati come Airbnb, Amazon e Google Maps non modificano soltanto le abitudini di consumo o gli stili di vita delle persone, ma intervengono concretamente sulla struttura delle città. Questo intervento genera contemporaneamente due effetti opposti: da un lato un’omogeneizzazione, ovvero una standardizzazione e uniformità degli spazi e delle esperienze urbane; dall’altro una frammentazione, ossia la divisione delle città in aree sempre più diseguali e separate tra loro. Queste dinamiche intensificano le tensioni sociali e amplificano nuove forme di conflitto urbano, riflettendo chiaramente le divisioni e le contrapposizioni delle classi sociali nella società contemporanea.

Questa piattaformatizzazione si è rapidamente estesa al mondo del lavoro, configurandosi come un salto qualitativo nello sfruttamento e contribuendo a ridisegnare geografie globali della produzione e del consumo. Dai rider precari nelle metropoli occidentali alle click farm del Sud-Est asiatico, fino alla catena estrattiva del litio che unisce Congo e Cile, emerge chiaramente un sistema integrato che collega lavoro manuale e cognitivo, estrazione di risorse naturali e produzione di dati, rendendo la forza lavoro globale sempre più interconnessa e precaria.

Dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, il capitalismo delle piattaforme si è imposto con forza egemonica, trasformando profondamente non solo le modalità di organizzazione del lavoro, ma anche la struttura sociale complessiva. Questo processo ha prodotto nuove soggettività che hanno ridefinito radicalmente il panorama politico contemporaneo, facilitando il ritorno prepotente delle destre. Alcune piattaforme hanno infatti alimentato una concezione specifica della libertà come autodifesa armata contro i cambiamenti sociali, sfruttando e amplificando la paura del disordine e proponendo il ritorno a un “naturale” rassicurante come risposta conservativa alle trasformazioni sociali.

La pandemia, seguendo l’analisi critica fatta di recente da Veronica Gago, è stata definita come una grande occasione mancata: essa ha reso visibili le contraddizioni profonde del sistema, evidenziando l’importanza essenziale della riproduzione sociale e delle lotte per la casa, la logistica e la distribuzione. Tuttavia, le destre hanno saputo capitalizzare questa crisi meglio delle forze cosiddette progressiste, imprimendo alla piattaformatizzazione un’accelerazione inedita e facendo delle piattaforme un luogo di polarizzazione, accumulazione capitalistica e manipolazione cognitiva.

In questo scenario, la governance algoritmica diventa un dispositivo di potere capace di sorvegliare e controllare, ma soprattutto di prevedere e orientare i comportamenti sociali, influenzando in modo capillare desideri, affetti e immaginari. In particolare, gli algoritmi di Intelligenza Artificiale operano attraverso un processo di riconoscimento e amplificazione di pattern già presenti nei dati storici, spesso intrisi di pregiudizi sociali, culturali e politici. Questo fenomeno genera una sorta di riproduzione automatica e invisibile delle dinamiche oppressive esistenti, aggravandole e rendendole sempre più pervasive. La governance algoritmica, dunque, oltre a rafforzare strutture sociali esistenti si configura come uno strumento di controllo sociale sofisticato, penetrante e difficilmente contestabile.

Tale dinamica assume particolare rilevanza all’interno del cosiddetto “regime di guerra automatizzata”, che trasforma radicalmente la natura della guerra stessa, cancellando la tradizionale distinzione tra tempi di pace e tempi di conflitto. Gli esempi emblematici dell’ucraina e – soprattutto – della Palestina illustrano chiaramente come le piattaforme digitali e gli algoritmi siano ormai strumenti bellici a tutti gli effetti, impiegati per la sorveglianza, il controllo delle popolazioni e l’attuazione di attacchi militari precisi e automatizzati. L’utilizzo di droni dotati di intelligenza artificiale, sistemi automatizzati per la creazione di liste di bersagli (kill lists), e piattaforme per la sorveglianza satellitare evidenziano un mutamento profondo e inquietante nella modalità di gestione della guerra. In questo contesto, il conflitto diventa simultaneamente visibile e invisibile, omnipervasivo e costantemente presente nella vita quotidiana, rappresentando una forma di controllo e di violenza diffusa e permanente.

Il seminario ha posto inoltre l’accento sulla natura di queste piattaforme come strumenti di egemonia culturale e accumulazione di capitale che, come descritto anche da Srnicek, Zuboff, Jager e Terranova, alimentano deliberatamente la polarizzazione sociale e mediatica. Questa polarizzazione è parte integrante della strategia del regime di guerra globale contemporaneo: essa infatti tende a neutralizzare il conflitto reale trasformandolo in un incessante flusso comunicativo vuoto, in una continua produzione simbolica che esaurisce ogni potenzialità trasformativa.

La discussione si è interrogata quindi sulla possibilità di immaginare e costruire nuove forme di organizzazione politica che vadano oltre il modello classico della fabbrica o del centro sociale e oltre lo stesso modello reticolare. È emersa l’esigenza di sviluppare “contro-infrastrutture” autonome, capaci di tanto di resistere alla logica estrattiva delle piattaforme quanto di creare ecologie comunicative nuove e autonome. Si è infatti sottolineata l’importanza di sabotare direttamente l’infrastruttura della polarizzazione algoritmica, rompendo il legame tra economia dell’attenzione, estrazione di valore e governo algoritmico.

In conclusione, la discussione ha evidenziato il valore strategico della diserzione e del sabotaggio come pratiche di resistenza attiva e concreta contro le piattaforme dominanti. La proposta è quella di creare e sostenere pratiche di autoformazione, gestione autonoma di infrastrutture digitali, e forme comunicative autonome capaci di produrre spazi reali di relazione e confronto. L’attivismo mediatico emerge così come cruciale non solo per diffondere contenuti alternativi, ma per costruire contro-spazi di enunciazione e relazione, essenziali per quella nuova ecologia della comunicazione che sappia rilanciare, dentro e contro le piattaforme, una rinnovata e articolata lotta di classe contemporanea.

Workshop 2: Crisi dello spazio europeo

Nel secondo workshop di sabato, si è parlato di crisi dello spazio europeo, di come attraversarla e navigarla. Nella corrente fase di transizione, in cui poteri e forze produttive – i si riorganizzano, lo spazio europeo è messo in crisi. Sono stati messi in luce tre aspetti fondamentali della crisi dello spazio europeo: la crisi delle istituzioni europee, definita crisi di Maastricht e Shengen; la crisi dell’idea stessa di Europa, messa in discussione da riflessioni antirazziste e decoloniali; ed infine la crisi, ma anche l’apertura di possibilità, dello spazio minimo di movimento europeo.

La crisi e fase di trasformazione attraversata dalle istituzioni europee, cosiddetta crisi di Maastricht e Shengen, si manifesta a più livelli: geopolitici, economici e valoriali. Il ritorno del protagonismo degli Stati, la difficoltà ad affermarsi come reale interlocutore economico In questo contesto, il piano per il riarmo, inizialmente Re-arm Europe e poi ribattezzato Readiness 2030, appare come tentativo da parte della governance europea di ristabilire l’ordine, proponendosi, o imponendosi, come depositaria legittima di valori universali, cercando di arginare la tendenza al ritorno del protagonismo degli Stati. è inoltre importante notare come il piano di riarmo non sia una vera ricerca di autonomia da altri attori internazionali, in quanto questo rafforzerà la dipendenza ad esempio dalla fornitura di armi statunitensi. Il riarmo, l’affermazione un’Europa guerriera, sono quindi sintomi della perdita di centralità e di profonda crisi dell’Occidente in uno scenario di guerra globale. A questa tendenza l’Europa risponde con la militarizzazione, appaiata a tagli al welfare e austerity da una parte, e rilassamento delle regole sul debito dall’altra, inedito per paesi come la Germania; con l’irrigidimento e l’ulteriore esternalizzazione dei confini, come esemplificato dal patto sulla migrazione e l’asilo e il sostegno della governance europea per il patto Italia-Albania. Questi aspetti esprimono un nazionalismo regionale, o regionalismo, che si autoafferma definendo con sempre più rigidità e violenza l’altro da sé, alimentando narrazioni genealogiche di se stessa e della propria storia che rievocano l’idea della bianchezza come dispositivo identitario, ignorando completamente l’eredità coloniale europea. La riflessione sul riarmo ci porta perciò a svelare come esso non sia solo sintomo della volontà di mantenimento dello status quo dettata dall’impreparazione europea agli imprevisti scenari globali, ma che la guerra, il riarmo, la militarizzazione siano i dispositivi che la governance europea mette in campo per rispondere a uno stato di emergenza, crisi e guerra globale e affermare con violenza la propria identità. la concezione del rapporto con le politiche internazionali che, se prima l’Europa mirava a cambiarle per renderle vicine alla politica domestica, adesso si adegua ad esse, ad esempio l’incapacità di opporsi ai dazi di Trump.

Un altro asse centrale è quello della crisi dell’idea stessa di Europa, messo in luce in modo particolare dall’incapacità di intervenire contro il genocidio in Palestina, come riflesso delle fallimentari politiche della memoria tedesche, sostenendo lo Stato sionista nella sua guerra genocida, che ogni giorno forza i limiti del diritto internazionale. Per comprendere il rinnovato impulso bellico da parte della governance europea, che va a costituire un’idea di europa guerriera è stato proposto il concetto di “pace bianca”. Infatti, l’Europa ha avuto la tendenza di autoconcepirsi come spazio civile collettivo, la cui integrazione era guidata dalla volontà di mantenere la pace. ovvero della pace solo all’interno dello spazio europeo, che. In realtà, sin dalla sua nascita, il progetto di pace europeo riguardava soltanto al suo interno, e, anzi, non ha mai esitato a ricorrere all’uso delle armi, purchè al di fuori dei suoi confini, anche nell’ottica di mantenere uno status quo interno. In questo, la guerra in Ucraina ha senz’altro sconvolto gli equilibri, ma ha anche contribuito ad una definizione più chiara dei confini europei, con l’Ucraina dentro e la Russia fuori. Si può definire quindi il riarmo contro la Russia, non tanto una rottura dalla concezione di Europa come progetto di pace, ma come un ritorno agli equilibri della Guerra Fredda e di diffusione dei conflitti. Quello che sta cambiando sono le definizioni di chi appartiene a questo spazio e chi no, alimentando i processi di polarizzazione iniziati all’inizio degli anni 2000 e che si sono intensificati con il tempo. Emerge quindi la necessità di superare la concezione di Europa bianca come unico attore politico. Anche per un’idea più ampia di Europa, il processo di militarizzazione è specchio dell’identità europea, che in questo scenario si svela nella sua ambivalenza tra realtà e mito: se il mito è quello di un’Europa fondata su una storia lineare ed omogenea che l’ha resa civilizzata e quindi civilizzatrice, depositaria di valori universali e uno spazio di pace e dello stato di diritto, la realtà si manifesta molto diversamente. La mancata decostruzione coloniale delle istituzioni europee, la crisi dei rifugiati degli ultimi dieci anni e, non ultimi, i centri di detenzione amministrativa italiani in Albania, sono manifestazioni diverse dello stesso problema identitario europeo che vuole tornare, se ha mai smesso, ad applicare il dispositivo della bianchezza come collante. Lo spazio europeo, infatti, viene negato a chi non fa parte dell’idea di bianchezza attraverso l’applicazione di norme fallaci dell’arbitrarietà della loro applicazione. necessità di guardare all’Europa in ottica decoloniale e antirazzista, partendo dal presupposto che l’Europa è fondata sulla sua stessa eredità coloniale: il razzismo sistemico è insito nelle sue radici. Anche in questo caso, la crisi si materializza come crisi della bianchezza coloniale costitutiva dell’idea di Europa, e nella fine dell’egemonia occidentale a livello globale. La costruzione materiale di un’Europa diversa deve necessariamente partire da queste riflessioni, assumendo la complessità e la molteplicità delle stesse critiche decoloniali, dove decolonialità significa continuare il processo già in corso di decostruzione delle colonie materiali e ideologiche europee.

Alla luce di queste considerazioni, è fondamentale interrogare la nozione di Europa come spazio minimo di movimento. Si è evidenziato come questa situazione apra nuovi spazi di agentività. assunto sulla non riformabilità delle istituzioni europee, esperienza Blockupy. Quindi, come stare all’interno di questo spazio di transizione senza soccombere alla paura della stessa? Ridefinendo lo spazio di azione politica e la creazione di alleanze transnazionali, sottolineando l’importanza di guardare all’Europa nell’ottica di mettere le basi per una pratica di movimento internazionalista, che sappia imparare dalle recenti esperienze di mobilitazione, dalla Francia, alla Serbia, alla Germania e oltre. Ad esempio, i movimenti in solidarietà con la popolazione e la resistenza palestinese della gioventù europea degli ultimi mesi hanno immaginato dei nuovi spazi di decostruzione europea: un movimento che non incarna soltanto le grammatiche dell’internazionalismo, criticando quindi la colonialità europea nei confronti dell’altro da sé nel Medio Oriente, ma contro la colonialità che l’Europa esprime anche al suo interno. Interrogare lo spazio minimo europeo, quindi, significa instaurare legami transnazionali dentro e fuori di esso, anche con i paesi che subiscono le politiche migratorie europee, agendo in supporto alle persone migranti e/o razzializzate auto organizzate. Significa guardare alle politiche di riarmo come spazio di possibilità di costruzione di un movimento internazionale contro la guerra, che sia in grado di mettere insieme le diverse anime e riflessioni provenienti. È stata proposta, in continuità con la discussione del workshop precedente, la creazione di una piattaforma, tuttora inesistente, di organizzazione europea, che potrebbe diventare un piano di trattazione in ottica transnazionale.

Workshop 3: Organizzazione

Il terzo workshop è stato interamente dedicato al problema dell’organizzazione politica e della sua specifica declinazione nella contemporaneità.

Gli interventi introduttivi hanno dunque tentato di fornire una panoramica dei nodi teorici e pratici che oggi non possono essere aggirati da chiunque voglia porsi tale questione con la radicalità che un’ottica di trasformazione dell’esistente necessariamente impone. Tra di essi è stata anzitutto individuata la crisi delle forme organizzative “novecentesche”, ovvero di quei corpi intermedi – principalmente partiti e sindacati – che fungevano da cinghia di trasmissione tra la totalità del sociale e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Una crisi strutturale già lentamente in atto da decenni, alla quale il regime di guerra ha impresso una brusca e probabilmente irreversibile accelerazione.

Al tempo stesso, e solo apparentemente in contraddizione con il punto precedente, un altro dato ineludibile ai fini della discussione è stato individuato nell’elevato tasso di politicizzazione e mobilitazione che caratterizza la fase attuale: da più di un decennio si riscontra un proliferare di grandi manifestazioni di piazza (transfemministe, climatiche, antirazziste, per la Palestina), vertenze, scioperi, blocchi stradali e altre forme di contestazione, che pur mobilitando nel complesso centinaia di migliaia di persone faticano, prima ancora che ad incidere materialmente, a sedimentare processi di soggettivazione duraturi, a costruire reti, alleanze e pratiche che permangano e preparino il terreno per i cicli di lotte successivi. Si è persa la capacità, in altre parole, di tenere assieme “guerra di posizione e guerra di movimento”, di connettere di volta in volta le grandi ondate di mobilitazione con quei processi di lotta caratterizzati invece da temporalità differenti, da un andamento non-lineare e dalla necessità di procedere per conquiste ed avanzamenti graduali. La sensazione è infatti di dover ogni volta ripartire da zero, nella frammentazione e nell’isolamento: in assenza di un orizzonte condiviso, di una capacità di costruire convergenze reali, i soggetti di volta in volta in mobilitazione tendono a ricadere in forme organizzative già note e tendenzialmente autoreferenziali. Il problema di cosa voglia dire fare militanza politica oggi, per chi e soprattutto in vista di che cosa – si è detto – deve necessariamente essere posto su questo terreno, che implica evidentemente una certa dose di autocritica e autoriflessione.

A partire da queste considerazioni è emerso come ulteriore elemento decisivo il tema dell’identità, o meglio delle identità, in qualche modo interpretabile come croce e delizia di molte delle lotte che animano e hanno animato questa fase. Se infatti l’identificazione in determinate comunità o soggetti politici rappresenta evidentemente un potente vettore di soggettivazione e attivazione politica delle singole persone, essa esaurisce ben presto la sua spinta trasformativa proprio perché di per sé priva degli strumenti utili a costruire relazioni durature e concrete con soggetti altri, originando la circolarità viziosa precedentemente delineata. La mobilitazione delle identità, anche quando si presenta come plurale e inclusiva, rischia sempre di tradursi in una mera somma di parti eterogenee che non riescono, o addirittura si rifiutano, di ibridarsi per dare vita e respiro ad un orizzonte di lotta comune. Com’è possibile, allora, tenere insieme l’eterogeneità dei soggetti in lotta da un lato, senza pretendere di ridurla ad unità, e dall’altro la necessità di costruire alleanze e reti che non siano semplicemente addizioni di sigle, che rischiano di puntare in ultima analisi alla pura auto-affermazione?

A questo riguardo, sin dall’apertura del workshop la riproduzione sociale è emersa nettamente come il terreno a cui guardare per cercare di uscire da questa impasse. Ancora in fase introduttiva si è infatti evidenziato come essa sia l’ambito che più duramente verrà colpito e trasformato dal regime di guerra, sia in termini di (ulteriore) definanziamento, che di disciplinamento sociale e inasprimento del controllo e delle gerarchie. Proprio per questo, tuttavia, la riproduzione sociale viene ad essere il terreno prediletto per pensare e praticare tanto un allargamento quanto un più profondo radicamento della mobilitazione, in nome di un’opposizione trasversale al regime di guerra e alla sua evidente insostenibilità rispetto ai bisogni materiali dell’enorme maggioranza della popolazione.

La riproduzione sociale si presenta dunque come il luogo in cui la convergenza si dà materialmente, ma deve essere politicamente organizzata: una comune condizione di precarietà esistenziale legata alla distruzione del welfare, della sanità, dell’istruzione, ad un generale peggioramento della qualità della vita fuori e dentro il luogo di lavoro, alla gestione sempre più violenta e securitaria della marginalità e del disagio, è ciò che attraversa l’eterogeneità del sociale scavalcando ogni possibile identitarismo. A questa comune condizione e a questa eterogeneità la militanza di oggi deve imparare a guardare teoricamente e a rivolgersi praticamente.

Per questo è stato sottolineato come le innumerevoli esperienze di mutualismo, solidarietà e cura da sempre ed in misura crescente negli ultimi anni attive sui territori – scuole di italiano, spazi di doposcuola, sportelli legali, ambulatori, cucine e palestre popolari – vengano ad occupare una posizione particolarmente privilegiata per dare vita a processi inediti di soggettivazione e costruzione di alleanze. Si tratta infatti di luoghi evidentemente distanti dalla sfera tradizionale della militanza politica e che tuttavia, in una fase di evidente attacco alle infrastrutture della riproduzione sociale, rispondono a dei bisogni materiali che li portano ad incontrare proprio quell’eterogeneità sociale che la militanza tradizionalmente intesa faticherebbe ad intercettare.

A riprova della bontà di questa intuizione, i contributi di esponenti del mondo sindacale hanno a loro volta evidenziato come la loro attività oggi giunga inevitabilmente ad interfacciarsi con problematiche non immediatamente riconducibili a quelle tradizionalmente appartenenti alla sfera delle lotte sul luogo di lavoro. Il modo in cui il collettivo di fabbrica GKN ha saputo riportare in primo piano la connessione strutturale tra lotta climatica e lotta operaia è in questo senso un esempio particolarmente noto e virtuoso, ma senz’altro non l’unico: nei territori, si è detto, l’attività sindacale si trova continuamente a dover fare i conti con i problemi della casa, dell’educazione, del razzismo, del patriarcato.

La necessità di assumere questa ottica complessiva e di fare i conti con una crescente eterogeneità di questioni e soggetti interessati, del resto, non è altro che il sintomo di un mutamento radicale nella composizione di classe, determinato a sua volta dalle profonde trasformazioni dei meccanismi di estrazione di valore verificatesi negli ultimi decenni. Se in passato il primo passo da fare per disarticolare il comando e l’organizzazione capitalista del lavoro era individuare la figura specifica di volta in volta posta al centro dei processi di sfruttamento (operaio massa, operaio sociale, ecc.), tale gesto sembra oggi irripetibile poiché l’estrazione di valore si è estesa ben oltre i luoghi e i tempi di lavoro – di per sé già estremamente precarizzati e frammentati dopo decenni di attacco neoliberale –, proiettandosi altresì su ogni ambito della vita attraverso l’onnipresenza dei dispositivi digitali e delle relative piattaforme. Ogni tentativo di ricostruire un’organizzazione di classe all’altezza dei tempi deve dunque riuscire ad interpretare e riconnettere questa molteplicità frammentata di soggetti apparentemente diversi ma di fatto sottoposti ad un comune regime di lavoro povero, precarietà esistenziale e continua estrazione di valore.

Il tema dell’identità è a questo punto tornato al centro della discussione, per essere esaminato nella sua connessione con i rapporti di produzione da un lato e con il discorso reazionario sulle guerre culturali dall’altro. Non è infatti più possibile ignorare l’efficacia e la pervasività con cui l’estrema destra ha saputo riqualificare il discorso sulle identità, trasformando queste ultime in vere e proprie armi con cui definire e rafforzare i blocchi contrapposti nel regime di guerra globale: nel discorso reazionario, le identità di genere, razza e classe vengono ipostatizzate come dati immediatamente naturali, privi di qualsivoglia rapporto con la sfera dei rapporti di produzione. La guerra delle identità così concepite satura lo spazio di ogni possibile conflitto, cancellando la possibilità stessa di praticare quello sociale e venendo a rappresentare, evidentemente, un enorme ostacolo teorico e pratico per ogni tentativo di articolare una ricomposizione di classe nell’ottica precedentemente descritto.

Al tempo stesso, si è messo in luce un pericoloso equivoco in cui si potrebbe incorrere nel cercare di aggirare questo dispositivo retorico reazionario. Se è infatti imprescindibile, ai fini della ricostruzione di un’organizzazione materialista e di classe, tornare a gettare luce sui rapporti di produzione invisibilizzati, bisogna tuttavia guardarsi dal fare della classe un ulteriore feticcio identitario, da contrapporre gerarchicamente alle altre come identità più originaria e fondante. Questa tentazione “rossobruna” non coglie infatti il punto fondamentale di come la classe stessa sia internamente intersecata e attraversata dai processi di produzione delle identità, e rischia di tornare a concepirla come un insieme in sé omogeneo, finendo così per ricadere nel gioco di contrapposizioni identitarie su cui l’estrema destra costruisce la propria egemonia.

La soluzione, allora, sta nell’adottare un’analisi intersezionale dei rapporti di produzione attuali che sappia mantenere bene in vista il loro nesso con la produzione delle identità. Che significa anche, si è detto, abolire ogni subordinazione gerarchica tra produzione e riproduzione sociale (o, si potrebbe forse dire, tra contraddizioni primarie e secondarie) ad ulteriore conferma dell’importanza cruciale che quest’ultima riveste nelle trasformazioni che caratterizzano la fase attuale.

Infine, si è ricordato come ogni teoria materialista dell’organizzazione abbia dovuto storicamente fare i conti con il mutevole ruolo di volta in volta assunto dallo Stato nelle varie congiunture. Non potendoci esimere dal fare altrettanto oggi, si è cercato di delineare i mutamenti complessivi che stanno ridefinendo fisionomia e prerogative dell’istituzione statale soprattutto in rapporto ai processi di accumulazione di capitale. Se infatti da una parte assistiamo all’avanzata di retoriche nazionaliste e securitarie che fanno leva sul potere repressivo e disciplinante dello Stato, dall’altro appare evidente come l’autorità di quest’ultimo risulti fortemente limitata per quanto riguarda il governo dei flussi di capitale e della complessiva riconfigurazione degli equilibri economici e finanziari globali. La vicenda dei dazi voluti da Trump è forse l’esempio più significativo di questa tendenza: persino il presidente di uno dei maggiori attori economici mondiali, oltre che il massimo rappresentante dell’autoritarismo di destra oggi alla ribalta, ha dovuto rivedere le proprie draconiane misure protezionistiche e scendere a patti con i limiti oggettivi ed invalicabili imposti dalle catene di approvigionamento del commercio globale e dai relativi flussi finanziari.

È anche e soprattutto dentro lo spazio europeo – si è quindi precisato, anche in riferimento al workshop svoltosi in mattinata – che bisogna mantenere lo sguardo su questo epocale riassestamento dei processi di accumulazione. L’Europa è infatti in primis uno spazio monetario continentale pienamente inserito in queste dinamiche di riorganizzazione globale, sulle quali essa ha, nonostante la sua conclamata crisi, un margine d’azione senz’altro maggiore rispetto ai singoli stati membri. Ogni prospettiva di mobilitazione tanto dentro questi ultimi, quanto nell’Europa come spazio complessivo, deve necessariamente confrontarsi anche con questa dimensione.

Ulteriore condizione imprescindibile per comprendere il ruolo dello Stato oggi, infine, è rappresentata dalle grandi piattaforme digitali, in quanto oligarchie dotate di un crescente potere non solo economico ed infrastrutturale, ma sempre più scopertamente politico – il sodalizio di Musk con Trump, per quanto concluso, resta in questo senso paradigmatico. È infatti imperativo chiedersi che effetti abbia sul potere statale, e sul rapporto di quest’ultimo con le piattaforme stesse, il totale monopolio detenuto da queste ultime di gran parte delle infrastrutture divenute fondamentali per il sociale: servers, satelliti, data center e via dicendo. Se la conoscenza del territorio e della popolazione sono stati i perni su cui si è costruita e consolidata l’attività di governo dello Stato nell’epoca moderna, a che trasformazioni va incontro quest’ultimo nel momento in cui un tale sapere non è più prerogativa sua, ma di attori privati dotati di impareggiabili risorse economiche e tecnologiche?

Da tutte queste considerazioni – si è concluso – non bisogna inferire che lo Stato sia scomparso o ridotto all’impotenza; conserva ancora, evidentemente, delle funzioni e degli ambiti di autonomia. Tuttavia, questi ultimi possono essere individuati e compresi solo mantenendo lo sguardo sulla dimensione globale ed epocale dei processi in atto, e sulla varietà di attori che li determinano – con evidenti conseguenze per quanto riguarda l’elaborazione teorica dei movimenti in merito alle loro prospettive organizzative e ai loro obiettivi.

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