Università: anatomia di un’istituzione in apnea

ROARS - Friday, August 1, 2025

Leggo con attenzione e ascolto con apprensione le voci dei colleghi delle università statunitensi. Appare sempre più come un sogno infranto, una perduta Atlantide, senza che sia possibile cogliere una strategia politica razionale. Guardo dentro i nostri confini nazionali e percepisco i contorni di un mondo che subisce la desertificazione culturale travestita da innovazione.

L’università — un tempo luogo elettivo dove il valore del pensiero e la ricerca del sapere non si piegavano alla contingenza — oggi si muove con passo incerto tra inossidabili resistenze di un passato baronale e moderne ansie performative e carrieristiche. In sostanza, un corpo istituzionale che sta smarrendo voce e perdendo postura. Negli Stati Uniti, le università sono state un approdo sicuro per eccellenze migranti, un laboratorio di esperimenti sociali, un ponte tra ricerca e cittadinanza. Oggi assomigliano ad un campo già minato e sul punto di deflagrare.

Il governo federale sta usando il bisturi in profondità: -78 % alla National Science Foundation, ossia l’ente che – tra le altre cose – finanzia la carriera iniziale dei giovani ricercatori, -40 % al National Institutes of Health, ovvero al sistema pubblico che dovrebbe finanziare la ricerca biomedica e sanitaria, tra cui – ad esempio – le ricerche più innovative per la cura del cancro. Alcuni bandi dedicati alla ricerca ambientale, all’astrofisica, all’ingegneria aerospaziale, alle scienze planetarie (in ambito NASA) e alla climatologia, all’oceanografia, e ai cambiamenti climatici (ambiti del National Oceanic and Atmospheric Administration) sembrano evaporati.

Non si tratta solo di scelte di economia politica: è piuttosto una forma di anatomia sconsiderata o di pura biopolitica che agisce indiscriminatamente sui luoghi dove tradizionalmente si conserva e si costruisce il sapere. È un fatto che migliaia di ricercatrici e ricercatori stanno considerando la mobilità dalle loro sedi per semplice sopravvivenza. Il sistema sta dismettendo i suoi principi fondamentali e questo salto mortale senza rete è accompagnato da una deriva fortemente aziendalista e dalla perdita delle tradizionali tutele per diversità, equità e inclusione. Questa la situazione americana, così come emerge dagli annunci dei decisori politici, ma soprattutto dalle prese di posizione e da un rumore di fondo che – via via – sta diventando assordante.

Certo, noi abbiamo l’obbligo di guardare all’Italia, in tempi di riforme avviate e nel quadro di un innegabile e generale cambiamento nei confronti del libero esercizio dell’espressione delle opinioni. Nel mondo universitario italiano, il crescente fideismo nei confronti dell’algoritmo e delle metriche rischia di diventare il vero killer seriale del tempo giusto dell’apprendimento e della crescita progressiva della qualità della ricerca. Traspare il disegno di un’università/azienda che distribuisce titoli, in un sistema che premia consenso incondizionato, velocità e silente obbedienza. Il vero rischio è quello di creare una catena di montaggio di soggetti plurititolati, ma sempre meno riflessivi e pensanti.

Di fronte a questo rischio, il corpo stesso delle comunità universitarie dovrebbe sentirsi chiamato ad una reazione propositiva e non ad una passività silenziosa.  Occorre restituire ossigeno vitale agli atenei, intesi come luogo dinamico di critica, confronto e ibridazione tra le diverse forme del sapere. Occorre tornare al tempo lungo dell’apprendimento, accettando la fertilità del dubbio, il dibattito aperto e l’originalità della critica. Si può decidere di essere anacronisticamente “inattuali”, ossia non tiranneggiati dalle urgenze performative, dal feticcio del ranking, dalla richiesta pressante del risultato a breve termine.  In un’epoca che misura e valuta tutto, l’università può ancora essere la zona franca dell’incalcolabile, dove l’unica virtù è imparare a pensare. Non è poco, non è una missione banale. Occorre un’azione polifonica di difesa consapevole dei principi fondativi. Mi piace considerarlo come un possibile atto di resistenza gentile. L’alternativa appare molto simile ad un’eutanasia, ma non altrettanto gentile.

Tuttavia, non tutto deve essere percepito in termini negativi. Ci sono proposte che emergono dal corpo vitale delle comunità universitarie e sono state avanzate da riferimenti istituzionali autorevoli. È a queste che dobbiamo guardare. La tutela dei principi  di diversità, equità e inclusione dipende da scelte che risiedono ancora nell’autonomia di governo dei singoli Atenei. È possibile – e sarebbe virtuoso – ridisegnare i bandi del Fondo Italiano per la Scienza (FIS) che attualmente premiano una percentuale davvero irrisoria dei progetti presentati (tasso di successo inferiore al 3%), ripensandoli esclusivamente come opportunità di avvio di carriera per i giovani ricercatori.  La ricerca di frontiera e di eccellenza ha una dimensione europea ed è coperta dai Progetti dell’European Research Council (ERC), che hanno tassi di successo decisamente superiori (ca. 14%).

È in questo contesto competitivo che dovrebbero essere indirizzati i progetti dei docenti e ricercatori con un livello più alto di eccellenza e di esperienza. La ricerca universitaria di base potrebbe essere rivitalizzata e finanziata ottimizzando le regole di ingaggio dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN), ideale sinergia tra reti diffuse. Infine, la dittatura numerica delle prestazioni potrebbe non essere la principale bussola di valutazione degli Atenei. Sarebbe un modo di dare ossigeno ad un’istituzione che – per chi la vive dall’interno – appare in costante apnea, costretta spesso a simulare l’eccellenza, venerando la quantità. Un’istituzione che ha l’autonomia di rivendicare che la libertà della ricerca, la formazione e la costruzione collettiva del sapere sono una missione di responsabilità sociale che – nel nostro Paese –  è ancora politicamente sostenibile.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano