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Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata
Stretti in una morsa, forza, diamo fine a questa farsa Forse ci meritiamo una fine diversa Kid Yugi, Fido Guido, Ilva (Fume scure rmx) La storia di quello che è successo il 28 luglio 2025 – e sta seguendo in questi giorni – merita di essere raccontata con la dignità politica che le corrisponde, e merita di essere inserita nell’archivio di resistenza della comunità tarantina. È stata una grande giornata di lotta, e di questo bisogna prendersi i meriti. Nonostante i principali giornali locali e nazionali abbiano ridotto l’evento a un caso di “tensione” e “minacce” verso il sindaco, ignorando le ragioni profonde della contestazione, la realtà è che quella piazza ha rappresentato un rifiuto deciso della violenza strutturale conservata dalle istituzioni. Ancora una volta, la stampa di stato ha dimostrato la sua incapacità nel pensare il conflitto politico: questo non si dà esclusivamente nelle forme e nei costumi dettati dalla classe politica dirigente, cosa che lo ridurrebbe alla difficile digestione di un boccone amaro. Mobilitazione significa frizione, e dobbiamo tornare a riconoscerlo. Normalizziamo genocidio, razzismo, sessismo, classismo e chiamiamo “violenta” la forza che libera da queste catene. Accettiamo come neutrale l’esercizio delle funzioni istituzionali, mentre ignoriamo che la violenza può essere distillata lentamente, firma dopo firma, come l’inquinamento che ci ammala poco a poco. > Quella giornata – e quella piazza – vanno ricordate perché testimoniano la > forza di una comunità capace di unirsi sotto una stessa lotta: quella della > liberazione dalla condanna ad una morte prematura, contro la subalternità > politica per l’autoderminazione del proprio futuro. Liberazione e > autodeterminazione: la Palestina ci insegna e ci mostra la via. La piazza del 28 luglio non era solo un “no” all’ex-Ilva. C’erano i comitati per il fiume Tara, minacciato dal dissalatore; l3 cittadin3 di Paolo VI contro la nuova discarica e quell3 di Statte contro la precedente; le mamme e i genitori del quartiere Tamburi contro l’avvelenamento e l’abbandono; l3 emigrat3 tornati a casa per sostenere la lotta; le collettive femministe e queer a rivendicare l’autodeterminazione sui propri corpi e sul proprio territorio, oltre il ricatto salute-lavoro. Mamme, bambin3, operai, casalinghe, disoccupati, persone queer, giovani e anziane, ammalat3, “disabil3”, “pazz3”: una comunità che resiste, oltre le frontiere fisiche e immaginarie, perché la questione Taranto non è esclusivamente operaia, non è esclusivamente climatica. Taranto fa scuola perché il problema è complesso, e la resistenza è instancabile, di generazione in generazione. Tramandiamo questa storia di lotta, non lasciamo che trovi posto nell’androne di una scala, raccontata di fretta, per passaparola. Celebriamola. ANNI ’60-’20: UNA STORIA DI LOTTA E DI RESISTENZA È ormai noto che la fabbrica, costruita negli anni ’60 a seguito dell’espianto di centinaia di ulivi, abbia inquinato, ammalato e ucciso l’ecosistema e la società tarantina. Dopo le crisi dell’acciaio degli anni ’70-’80, negli anni ’90 viene venduta alla famiglia Riva: così si inaugura non solo un periodo di aggravamento dell’inquinamento, ma in generale delle condizioni di morte prematura dell’ecosistema tarantino. È stato inquinato il suolo, l’aria, gli alimenti, gli animali, e le persone, con danni sulla salute dell’ecosistema e dei quartieri: l’aumento di malattie, tumori ha significato un aumento e un peggioramento delle condizioni del lavoro di cura non retribuito di donne, madri, badanti, figli e famiglie che hanno preso in carico questa situazione a fronte dell’assenza di adeguate infrastrutture sanitarie. Non solo, con la privatizzazione Riva, è stata legittimata la stagione della pesante repressione del dissenso operaio, del mobbing, dell’interruzione degli scioperi e della creazione di quelli falsi, della complicità dei sindacati confederati, dell’insabbiamento delle morti sul lavoro. La comunità tarantina non si è mai arresa, e ha dimostrato un’incredibile capacità di resistenza. È del 2012 la storica sentenza della magistratura per il sequestro di sei impianti della fabbrica: la proprietà dei Riva viene imputata di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per questo, i Riva vengono condannati, e la gestione della fabbrica finisce prima allo stato – per amministrazione straordinaria – e poi torna ai privati, questa volta partener internazionali (la società franco-indiana ArcelorMittal). Del 2022, invece, è la dichiarazione ONU di Taranto come zona di sacrificio dei diritti umani. Nonostante ciò, la fabbrica continuerà a produrre – sotto sequestro con facoltà d’uso – grazie ad una gestione emergenziale del suo regime produttivo: 18 decreti cosiddetti “salva ILVA” saranno votati dalle maggioranze di qualsiasi colore, del cui l’ultimo è del 9 giugno 2025. Questa gestione emergenziale dell’economia e dei problemi sociali è tipica della storia dei nostri territori meridionali e insulari, integrati a forza dentro un regime produttivo capitalistico e coloniale proprio grazie a soluzioni eccezionali calate dall’alto. 2025: L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, I REQUISITI PER LA VENDITA La nostra storia comincia nel febbraio 2025, quando la fabbrica torna in amministrazione straordinaria da parte dello stato. Come mai? A seguito dell’insostenibilità finanziaria della produzione di acciaio – il regime produttivo della fabbrica è infatti calato con solo 1 altoforno su 5 in attività – lo stato ha iniziato a cercare un nuovo partner commerciale internazionale che possa acquistare la fabbrica. Le trattative al momento sono con l’azienda azera Baku Steel, ma la fabbrica ha diversi problemi: l’inquinamento è il primo, ma anche l’obsolescenza degli altoforni, e i conseguenti costi di messa a norma che l’acquirente dovrà sostenere; la quantità di lavoratori (8.000) decisamente in esubero rispetto alle esigenze produttive, il che significherà licenziamenti e conflitti interni; la restituzione del credito promesso ai lavoratori dell’indotto a causa dell’amministrazione straordinaria. Ma il problema più consistente è quello relativo alle autorizzazioni di produzione, nello specifico l’Autorizzazione Integrata Ambientale, che autorizza il funzionamento degli impianti industriali. A Taranto è scaduta nel 2023, ma la fabbrica ha continuato a produrre indisturbata sino al 2025, quando – qualche giorno fa – è stata rinnovata. Ad annunciarlo è stato il Ministro Urso nella sede della CISL.Tuttavia, l’AIA approvata non recepisce quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE in fase di consultazione da parte del tribunale di Milano, a cui si erano rivolti alcuni genitori tarantini: ossia che non si può autorizzare un impianto potenzialmente dannoso per la salute senza una preventiva valutazione del danno sanitario, che non si possono omettere sostanze dalla valutazione delle emissioni ambientali, e che non è lecito differire l’adeguamento dell’AIA. L’AIA emessa impone di presentare in sede di riesame da parte dell’acquirente una valutazione di impatto sanitario basata su danni inerenti ai cicli produttivi successivi, e non precedenti: in altre parole, su dati presunti e non reali. Che libertà stiamo lasciando al futuro gestore della fabbrica? A quali condizioni si continuerà a produrre? LA “DECARBONIZZAZIONE”: IL GAS, L’ENERGIA, LA COLONIALITÀ Qui si apre un capitolo che riguarda non solo il rispetto della salute ecologica ma anche il piano energetico di produzione: la cosiddetta “decarbonizzazione”, ossia la transizione ad un modello produttivo sostenibile. Un discorso non semplice, ma non dobbiamo lasciarci intimorire; la responsabilità di una adeguata formazione climatica non ricade solo sulle nostre spalle, ma soprattutto su quelle di chi ha il potere di fornircela e non lo fa.   > Dobbiamo smontare l’idea di una tecnicità della scienza climatica e chiedere > saperi popolari ecologisti: uno dei limiti del movimento ambientalista bianco, > in Europa e negli USA – e quindi una delle sue debolezze – è stata la sua > ricerca di legittimità attraverso il costante riferimento alla scienza > accademica e liberale. Ciò ha significato classismo, esclusione e infantilizzazione di coloro che non avessero il privilegio di accedere alle stesse risorse formative, nonché svalutazione dei saperi popolari . Affrontiamo quindi il problema della decarbonizzazione con scrupolosità. La proposta del presidente della Regione Puglia, Emiliano, e del suo partito, il PD, avvallata dai sindacati confederati – CGIL, CISL, UIL, storicamente collusi con il progetto di una fabbrica inquinante – è quella di decarbonizzare l’impianto. Questo significa una trasformazione della qualità energetica delle fonti produttive, ossia di passare dal carbone al gas, e dal gas all’elettrico. In altre parole, la fabbrica, dichiarata di interesse strategico per la nazione, non può essere semplicemente chiusa: le sue fonti vanno trasformate in fonti elettriche, passando per il gas. I problemi però sono tanti, e non di natura leggera. Il primo è che i tempi sono molto lunghi per arrivare all’elettrico. Il secondo, è che un processo chiamato “decarbonizzazione” che preveda un ritorno ad un regime produttivo maggiore dell’attuale, con la riapertura degli altiforni, e che si basi proprio sul carbone, è una contraddizione in termini, o meglio una forma di greenwashing, cioè di presa per il culo. Il terzo è che il gas non è affatto una fonte energetica migliore del carbone, e ha effetti inquinanti analoghi.Inoltre, attingere al gas significherebbe o ricorrere al TAP – storico sito di contestazione pugliese – e potenziare il gasdotto, ma questo richiederebbe troppo tempo; oppure far arrivare una nave rigassificatrice nel porto di Taranto, ma ciò contrasta – secondo il sindaco di Taranto – con la “vocazione turistica e commerciale del porto di Taranto”. Una impasse bella e buona. Ma anche se fosse possibile far arrivare il gas a Taranto, da dove proverrebbe questo gas? La cosa che possiamo sperare è che non venga dai progetti di approvvigionamento del gas che il governo Meloni ha messo in piedi con il Piano Mattei: uno di questi, il cosiddetto Corridoio Sud dell’Idrogeno, un gasdotto lungo 3.300km, dovrebbe portare il gas prodotto in Tunisia verso l’Italia sino alla Germania. Se il gas che arriva a Taranto dovesse arrivare grazie ad uno di questi progetti la produzione tarantina diverrebbe complice di un flusso di beni di natura estrattiva e neocoloniale, di cui SNAM, principale promotrice del piano, sarebbe pienamente responsabile. D’altronde, né il governo italiano né ENI sembrano prendere sul serio le proprie responsabilità coloniali, continuando in pieno genocidio palestinese con l’esplorazione di giacimenti di gas nelle acque gazawi, e stringendo accordi con Ithaca Energy, società inglese partecipata all’89% – e quindi, di fatto, di proprietà – dalla israeliana Delek Group, denunciata dall’ONU per le operazioni nei Territori Occupati palestinesi e ora complice del genocidio. Rimane quindi in gioco la questione di come effettuare questa transizione senza macchiarsi le mani di sangue. VERSO UN COINVOLGIMENTO ECOLOGISTA POPOLARE Torniamo così al nostro 28 luglio. Il 28 luglio 2025 la comunità tarantina si riunisce sotto il palazzo del Comune. Il motivo è un confronto tra l’amministrazione comunale e i movimenti, le associazioni, l3 cittadin3 in generale rispetto al cosiddetto accordo di programma, ossia il documento che disegna il programma della transizione energetica dell’ex-Ilva. L’accordo deve essere firmato da governo, regione, comune, e sindacati. Pensata per ascoltare l3 cittadin3 prima dell’incontro ufficiale con le istituzioni del 31 luglio – ora rinviato al 12 agosto – quella giornata è diventata marea: da anni chiediamo la chiusura degli altiforni, la bonifica dei terreni contaminati, e la fine di modelli produttivi nocivi. Come avremmo potuto reagire, dopo anni di indifferenza, ad un’occasione di confronto? E non è nemmeno successo nulla, solo qualche lucculo (grida, nda). Se le istituzioni si chiedono come si sfiata una pentola a pressione, la risposta è semplice: rimuovendo la pressione. Quello che ci serve è la proliferazione di spazi democratici reali di confronto, che le istituzioni aprano realmente tavoli di trattativa con i movimenti e le associazioni, e non scappino dalle responsabilità politiche. > Serve un coinvolgimento della cittadinanza permanente: tavoli, assemblee, > audizioni, che costruiscano collettivamente un immaginario e un piano di > trasformazione non solo produttiva e climatica, ma ecologica, complessiva, > mettendo in primo piano i bisogni realmente espressi dalle persone. Non più solo verità e giustizia, ma alternativa: al ricatto salute-lavoro, alla produzione inquinante, al lavoro di cura invisibilizzato, alla complicità con il sistema coloniale, alla subalternità politica. Un’alternativa capace di riparare al danno commesso in decenni di sacrificio, all’altezza della dignità politica di una lotta che continua a resistere. Un piano di trasformazione popolare, sociale, che cambi completamente i rapporti di produzione e di riproduzione con il territorio. Il cuore ora ci batte a mille, lasciamo che si alzi ancora nel cielo il coro più minaccioso di quella giornata di luglio: “Vogliamo vivere”. L’immagine di copertina è di Le Benevole (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata proviene da DINAMOpress.
Taranto e il perimetro dell’emergenza
Il 21 luglio, una piazza ampia e plurale ha proclamato lo «stato di emergenza democratica, sanitaria e ambientale». Un gesto carico di implicazioni politiche, rivolto al governo nazionale e alle istituzioni europee, che prende le mosse da un passaggio cruciale – il rinnovo dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per l’ex-Ilva – ma che punta più in alto. Mette in discussione un equilibrio profondo e radicato, quello che da molti decenni tiene la città sospesa tra un’esposizione strutturale al rischio ambientale e una transizione continuamente annunciata ma mai realizzata. Le mobilitazioni che attraversano Taranto sono segnate da nuove parole. Non si limitano a denunciare la gravità dell’inquinamento: inaugurano un cambio di prospettiva. Oggi, persino tra chi difende gli impianti inquinanti, nessunə osa più negarne la nocività – a differenza del passato, quando l’occultamento del danno ambientale serviva a giustificare l’inerzia. Ora la tecnica di governo è un’altra. Se crisi non si può più nascondere, se ne rinvia continuamente la soluzione. Il governo continua a evocare percorsi di transizione ecologica, ma senza strumenti concreti per renderli effettivi. Il risultato è una paralisi mascherata da progettualità: l’inquinamento prosegue e la città è in un tempo sospeso. > La dichiarazione dei movimenti del 21 luglio cerca di rompere questo stallo. > La posta in gioco va oltre la dimensione tecnica dell’AIA: investe la > legittimità dell’intero paradigma produttivo che ha orientato – e continua a > vincolare – il destino della città. È un passaggio decisivo, anche per la tempistica. Il 30 luglio il Consiglio comunale sarà chiamato a discutere l’accordo di programma proposto dal governo, un documento giuridicamente ambiguo ma altamente significativo nella definizione dell’orizzonte urbano e industriale. Proprio su questo crinale, l’emergenza può diventare la leva attraverso cui ridefinire priorità, processi decisionali e strumenti di governo. NOMINARE L’EMERGENZA Stabilire cosa sia un’emergenza – e come vada governata – è un atto profondamente politico. Significa decidere chi ha il potere di intervenire, con quali strumenti e in quale relazione con la popolazione. Nella riflessione giuridico-politica del Novecento – da Schmitt ad Agamben – l’emergenza rappresenta l’angolo cieco del diritto: lo spazio in cui il potere sovrano si afferma sospendendo la norma. A Taranto, però, la torsione è diversa: non è l’abuso dello stato d’eccezione, ma la sua negazione a diventare tecnica di governo. L’emergenza ambientale, cronicizzata, smette di essere trattata come fatto straordinario e viene espunta dal discorso pubblico. L’evidenza dell’inquinamento non interrompe la continuità degli assetti produttivi: diventa parte del contesto. In questo scenario, la dichiarazione del 21 luglio non è solo un gesto simbolico o una forma di protesta. È un atto di riappropriazione del potere di nominare la propria condizione: un esercizio di contro-sovranità che riapre la dimensione costituente della democrazia. Le coordinate dell’emergenza sono molteplici. Alla specificità territoriale – un’esposizione prolungata e sistemica a un polo industriale ad alto impatto – si intreccia un orizzonte più ampio: la crisi climatica, la devastazione degli ecosistemi, la centralità di modelli produttivi incompatibili con i limiti del pianeta. Articolare insieme il “qui e ora” di Taranto e l’altrove diffuso della crisi ambientale globale può consentire, nello sviluppo delle mobilitazioni attuali, di sottrarre la città all’isolamento dell’eccezione e di inserirla in un paesaggio più vasto di lotte, in cui costruire alleanze, scambi, riconoscimenti. COMPOSIZIONE SOCIALE E APERTURA DEL CONFLITTO Il 21 luglio segna un salto qualitativo nelle mobilitazioni. Colpisce non solo la consistenza numerica della piazza – tra le più partecipate dell’ultimo decennio – ma soprattutto la sua composizione eterogenea. A prendere parola sono stati molteplici movimenti, soggettività ambientaliste, lavoratorə, precariə, insegnanti, studentə, genitori. Una presenza che non nasce dalla somma di sigle, ma dalla coesistenza di traiettorie esistenziali, condizioni materiali, desideri tra loro differenti e tutti legittimi, senza un ordine gerarchico. La piazza restituisce una pluralità che sfugge alle vecchie dicotomie – ambientalistə contro operai e viceversa – e si propone come spazio politico in cui bisogni, rivendicazioni e forme di vita si intrecciano e si ricompongono. > Le domande che attraversano il conflitto non si esauriscono nel rapporto tra > salute e lavoro: riguardano la qualità della democrazia, la possibilità di > influire sulle decisioni, il riconoscimento di saperi e vissuti finora > esclusi. Riflettere su chi ha il potere di nominare l’emergenza significa riscrivere la grammatica della democrazia: chi ha voce? Chi viene ascoltatə? Chi è ammesso nel perimetro della decisione pubblica? In questo senso, la scadenza del 30 luglio si profila come un momento cruciale, non solo per gli esiti dell’accordo di programma, ma per il metodo che potrebbe inaugurare. Nello scenario attuale, dopo la decisione del governo di procedere al rinnovo dell’AIA, non avrebbe senso respingere di per sé l’idea di un accordo di programma. Con l’AIA approvata, l’unico esito sarebbe la cristallizzazione dell’attuale devastazione: un presente insostenibile senza alcuna prospettiva di cambiamento. Al contrario, è necessario accettare la sfida dell’accordo, ma rovesciarne radicalmente le coordinate. Questo strumento – nonostante la sua ambiguità giuridica – può diventare l’occasione per imprimere una svolta sostanziale, a condizione che se ne riscriva completamente il contenuto, a partire dai punti fondamentali rilanciati dalla piazza: la chiusura di ogni fonte inquinante, la riprogrammazione del futuro della città in termini di ambiente e salute, ma anche di welfare, giustizia sociale e partecipazione democratica. La frattura crescente tra governo centrale ed enti locali può far crescere le mobilitazioni e suggerire un cambio di paradigma: la città non più come oggetto di decisioni imposte, ma come soggetto capace di orientare, negoziare, imporre l’ordine del discorso. In questo quadro, l’emergenza non è più solo il segno della vulnerabilità. Può diventare un’occasione per un salto qualitativo delle lotte. L’immagine di copertina è di Lanzate, creative commons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Taranto e il perimetro dell’emergenza proviene da DINAMOpress.
Il tempo della piazza. A Taranto si riapre la partita sull’ex Ilva
UNA CREPA NEL COPIONE Il tempo, in politica, è una risorsa decisiva. Può essere mobilitata con le finalità più disparate. Nelle politiche ambientali, il rinvio è una tecnica collaudata per non intervenire davanti all’avanzare della crisi climatica. A Taranto, in questo momento, il tempo gioca un ruolo del tutto differente. Il rinvio al 31 luglio della decisione sull’accordo di programma in tema di ex Ilva non ha una mera dimensione procedurale: è un’apertura politica. Indica uno spazio di possibilità. > Per i movimenti e per quella parte di città che immagina un futuro > radicalmente diverso dalle macerie del presente, è una buona notizia. Un primo prodotto della mobilitazione collettiva che può permettere di allargare lo scenario e sperimentare nuove alleanze. In questa direzione, la mobilitazione convocata per il giorno precedente ha avuto un ruolo di primo piano. Il 14 luglio, la piazza ha fatto irruzione nella partita. Davanti a Palazzo di Città, il presidio convocato da Giustizia per Taranto ha portato in strada una composizione larga, plurale, arrabbiata. Generazioni, contesti, storie diverse. Soprattutto: un’atmosfera elettrica, come non si respirava da tempo. Le parole d’ordine si alternano: c’è chi urla “chiusura!”, chi evoca le barricate, chi se la prende con lə protagonistə istituzionali della vicenda – Michele Emiliano è il più citato. Ma la postura della piazza è chiara: rigettare l’accordo così come prospettato dal governo. Riaprire una partita che sembrava chiusa. Costruire – qui e ora –  una discontinuità radicale. Il giorno dopo, nessuna firma è stata apposta. È stata accolta la richiesta del sindaco Bitetti di sottoporre la decisione al Consiglio comunale, convocato per il 30 luglio. Nel verbale si individua anche una commissione tecnica, incaricata di valutare le opzioni progettuali. Per la città è una boccata d’ossigeno. Il tempo guadagnato è molto prezioso. Può consentire di cambiare i termini della discussione. COS’È L’ACCORDO DI PROGRAMMA E COSA PREVEDE L’Accordo di Programma è lo strumento con cui le pubbliche amministrazioni disegnano il futuro dell’ex Ilva e della città. Il suo impatto giuridico diretto è limitato: sono altri gli atti – a cominciare dall’Autorizzazione Integrata Ambientale – che definiscono concretamente la cornice operativa dell’impianto. Ma l’accordo ha una funzione politica fondamentale: cristallizza i rapporti di forza del presente e prova a renderli orizzonte di governo. Dentro ci sono scelte produttive, traiettorie tecnologiche, margini di compromesso ambientale e occupazionale. Il contenuto dell’accordo è variato più volte. La versione attuale prefigura la cosiddetta decarbonizzazione dell’impianto, con la realizzazione di forni elettrici. La fonte di alimentazione – e quindi il ruolo della nave rigassificatrice da collocare nel porto – è parte fondamentale della contesa. Gli scenari tecnici sono cambiati più volte, ma rimangono allarmanti secondo associazioni ambientaliste ed espertə. Nella forma attuale – per quanto migliorata rispetto al “prendere o lasciare” presentato dal governo solo poche settimane fa – il piano non disegna una transizione complessiva fondata sulla giustizia ambientale e sociale. La variabilità dell’accordo, modificato in corsa sotto pressione, ne svela la natura flessibile. È un campo negoziale, non un esito obbligato. Anche per questo il rinvio al 31 è significativo: mostra che l’accordo può essere ancora ridiscusso. È il segno che la piazza può incidere. LE RAGIONI DEL CONFLITTO Nella percezione comune in città, l’ex Ilva è un dispositivo tossico. Non solo per l’ambiente, ma anche per la vita politica, economica e culturale della città. La proposta di accordo attualmente in discussione non viene percepita come un’occasione di rottura sostanziale col passato. I problemi sono due, distinti ma in dialogo. Il primo riguarda la configurazione produttiva disegnata. L’accordo è visto come un tentativo di normalizzare la presenza dell’ex Ilva, in una congiuntura in cui la chiusura dello stabilimento – sotto il fuoco incrociato di crisi ambientale, produttiva, finanziaria – appare per la prima volta concretamente possibile. Il secondo riguarda gli impatti specifici del piano proposto: la decarbonizzazione ipotizzata comporterebbe nuovi e differenti rischi ambientali. A rendere più complessa la partita, c’è il nodo dell’AIA – l’Autorizzazione Integrata Ambientale – in discussione nella Conferenza dei Servizi del 17 luglio. È il provvedimento che autorizza il funzionamento dell’impianto e si esprime sull’attuale assetto produttivo. L’AIA di cui si discute continua a basarsi sul carbone. Il rischio è che venga approvata in fretta, rendendo cogente la continuità industriale e chiudendo ogni spazio di transizione reale. Da qui al 31 luglio si gioca una partita decisiva come poche nella storia recente della città. Dal punto di vista delle piazze, non si tratta di sommare sigle o ricostruire fronti organizzativi tradizionali. La posta in gioco è più ampia: come consolidare un “noi” plurale – sufficientemente largo da includere tutte le soggettività disposte a mobilitarsi per la giustizia ambientale? Quali parole d’ordine possono avere un impatto espansivo? Come evitare che distinguo e protagonismi indeboliscano una dinamica che, per ora, appare promettente? Il passaggio in Consiglio comunale del 30 luglio potrebbe innescare nuove convergenze. L’investitura del Consiglio comunale, chiamato a discutere dei contenuti dell’accordo di programma, ha una valenza politica simbolica e materiale. Non si tratta solo di un passaggio formale, ma della possibilità concreta di rimettere al centro della vita istituzionale i destini della città. L’iniziativa dellə consiglierə che hanno chiesto al sindaco di non firmare l’ultima versione dell’accordo ha giocato un ruolo cruciale nella riapertura della partita: ha segnalato che esiste uno scarto tra la linea governativa e una parte della rappresentanza territoriale, attenta alla pressione esercitata dalla mobilitazione. Anche se, com’è evidente, il Consiglio comunale non è un’istituzione di partecipazione diretta, può diventare, in questa fase, un luogo in cui si esercita una forma di democrazia sostanziale. Questo può avvenire se non si limiterà a ratificare decisioni prese altrove, ma svilupperà una discussione aperta, profonda, sulle alternative possibili per la città. Perché questo accada, è utile immaginare forme creative di connessione tra piazza e aula consiliare: confronti pubblici, audizioni, assemblee informali, strumenti che rendano permeabile e aperto un processo che non può richiudersi nel recinto della tecnica. COSA INSEGNA TARANTO ALLE LOTTE AMBIENTALI Come spesso accade, la partita che si gioca a Taranto supera i confini della città. Non è in discussione solo un impianto industriale inquinante, ma la possibilità di affermare una politica dell’ambientalismo capace di radicarsi anche in contesti e conflitti apparentemente distanti. A Taranto, oggi, la giustizia ambientale non si limita a una critica esterna, etica o testimoniale. Entra nel merito della contesa, rivendica spazio decisionale, ambisce a determinare l’esito del confronto. > Il punto di forza della mobilitazione è la capacità di tenere insieme una > direzione strategica chiara – la chiusura delle fonti inquinanti – con parole > d’ordine flessibili, capaci di tradursi in obiettivi intermedi – che > prefigurano e anticipano l’obiettivo finale. Il rifiuto dell’attuale accordo di programma può rappresentare una di queste: una piattaforma in grado di tenere dentro posizioni diverse, anche parziali, accomunate dalla volontà di superare l’attuale modello produttivo. È una postura che non si limita a commentare dall’esterno. Segnala un metodo di intervento politico. La piazza dimostra che le decisioni non sono blindate neanche quando sono presentate come tali. Che gli atti istituzionali sono contendibili. Che la mobilitazione può modificare il corso delle cose. LA CONTESA È APERTA Il 14 luglio, per la città, è uno snodo carico di tensione simbolica. Evocare la presa della Bastiglia fa sorridere, per ora. Ma Taranto, città di tumulti profondi, ha più volte mostrato che la storia può riaprirsi anche quando sembra bloccata. Anche stavolta, la faglia è netta: da un lato chi difende la continuità produttiva; dall’altro chi prova a praticare una discontinuità sociale e politica ad ampio spettro. Un dettaglio racconta bene il momento. Ogni sera, dal Castello Aragonese, l’inno nazionale viene diffuso dagli altoparlanti. Il 14 luglio, per un attimo, ha coperto le voci della piazza. L’effetto è straniante. Ma poi la piazza ha ripreso ritmo e voce. È l’immagine plastica dello scontro in corso: da una parte il dispositivo nazionale – governo, ministeri, apparati – impegnato a garantire la continuità produttiva a ogni costo. Dall’altra, una città che non accetta l’accordo e prova a riscrivere le condizioni del presente. L’accordo di programma, se osservato dal cuore della piazza non è un mostro intoccabile. Non è nemmeno un elemento dato. È una tigre di carta: il contenuto è cambiato più volte. Può ancora essere ribaltato. I prossimi giorni saranno decisivi. Il 16 e il 21 luglio sono già stati convocati nuovi appuntamenti pubblici. Il 30 si riunisce il Consiglio comunale. La contesa è aperta. E si può ancora vincere. Immaginare l’accordo come una tavolozza bianca, più che come un testo da emendare, è un utile esercizio collettivo. Significa non limitarsi a migliorare ciò che propone il governo, ma pretendere di definire nel complesso le condizioni, la cornice, il futuro della città. Lo scenario della chiusura delle fonti inquinanti – per la prima volta – è percepito come una possibilità concreta. È un’immagine che suggestiona. Può essere allo stesso tempo affascinante e drammatica. Può ridefinire il futuro di Taranto su coordinate radicalmente diverse. Ma non accadrà senza l’energia che è tornata in circolo. Il tempo – almeno per ora – lo ha conquistato la piazza. Ora si tratta di usarlo con intelligenza collettiva e coraggio. L’immagine di copertina è di DimiTalen, da wikicommon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il tempo della piazza. A Taranto si riapre la partita sull’ex Ilva proviene da DINAMOpress.