Taranto si mobilita contro genocidio e sfruttamento della città
Rode to Haifa in a Tesla
Told the soldier to relax
Kickin’ us out of our homes
But they know we takin’ them back
Haifa in a Tesla, Saint Levant
Taranto e la sua emigrazione non smettono di essere laboratorio di resistenza.
Quella tarantina è una realtà particolare: radicata e dispersa, fatta di chi
resta e di chi emigra, di chi vive la città giorno per giorno e di chi, altrove,
non vuole dimenticare. Taranto è fatta di chi non si rassegna alla frattura tra
un “su” e un “giù”, di chi cerca di trasformare questa frattura in una nuova
forma di appartenenza, ibrida e multipolare, capace di dare corpo all’idea che
si parte e si torna insieme. È una realtà di persone che si fa comunità quando
si riconosce in un progetto comune che rifiuta il sacrificio come destino
imposto, che ricostruisce senso e politica oltre lo svuotamento della città e lo
spaesamento dell’emigrazione.
In questi mesi – e nuovamente nelle ultime settimane – questa moltitudine sparsa
di persone si è fatta antagonismo e comunità, rivelando la capacità di tenere
insieme le contraddizioni e attraversarle. È in questa prospettiva che le lotte
del territorio si sono unite come parte di un movimento di riflessione,
comunicazione e organizzazione continuo, che ha visto nelle grandi mobilitazioni
di luglio sotto il palazzo del Comune e in quelle di settembre sotto la Leonardo
e al porto mercantile alcuni dei suoi picchi. Queste lotte sono intrecciate le
une con le altre, e raccontano un desiderio diverso per il futuro di Taranto. Ma
non solo. A chi sostiene infatti che Taranto è un caso isolato, che la nostra
storia è un’eccezione, e per questo vorrebbe metterci da parte, al margine,
rispondiamo che ci sono mille Taranto in tutto il mondo. Taranto è un punto di
caduta di un intero sistema, e in questo senso è emblematica del suo
funzionamento; al contempo, non ha nulla di speciale, perché nel mondo ci sono
decine di migliaia di territori e comunità come queste. Pensare ciò che accade a
Taranto, ascoltare la voce di chi lotta per Taranto, significa pensare e
ascoltare quello che accade nel mondo.
IL BLOCCO AL PORTO E IL TRITTICO DEL FOSSILE
La notte del 24 settembre 2025 è stato bloccato l’approdo della nave SeaSalvia,
diretta al porto di Taranto per il rifornimento di greggio alla raffineria ENI,
situata davanti allo stabilimento ex-Ilva. L3 cittadin3 di Taranto, sollecitate
dal movimento dello sciopero generale del 22 settembre, dai continui blocchi dei
porti in tutta Italia, e dalla mobilitazione costante che avevano preparato in
questi mesi – e che li ha visti nella giornata del 27 settembre davanti allo
stabilimento della Leonardo s.p.a. a Grottaglie, in provincia di Taranto – si
sono dirett3 al porto, di concerto con il coordinamento delle organizzazioni
internazionali dell3 palestines3 in diaspora, dei sindacati di base, e di tutt3
l3 cittadin3 di provincia e pugliesi che sono accorsi. Il blocco del greggio
aveva un forte valore simbolico: il petrolio è simbolo del genocidio e della
complicità italiana, che continua a rifornire Israele di armi e carburante
mentre propone il riconoscimento di uno stato palestinese ormai a brandelli; e
il petrolio è simbolo della zona di sacrificio, perché è in nome di un sistema
fossile e produttivo che Taranto è stata sacrificata.
Taranto e la Palestina sono legate da questo filo, che si chiama economia
fossile e coloniale: una filiera che si basa su un sistema che ha bisogno di
genocidi e zone di sacrificio per funzionare, per scaricare i costi della
produzione e della riproduzione, per legittimarsi schiacciando la resistenza e
le lotte autoctone. A Taranto, se la raffineria ENI è il luogo del petrolio,
l’ex-Ilva è il luogo del carbone. E all’orizzonte si profila ora il terzo
elemento: il gas. Il piano di riconversione energetica dell’ex-Ilva prevede
infatti la costruzione di forni DRI per l’accorciamento della catena produttiva
dell’acciaio attraverso l’uso del gas. Tuttavia, i problemi non si fermano alla
natura inquinante del gas – che produce emissioni soprattutto nei processi di
rigassificazione e liquefazione, nonché nel trasporto – ma si estendono al
possibile coinvolgimento di Taranto nella filiera dell’economia
fossile-coloniale israeliana.
In Italia, infatti, il gas arriva in due modi: tramite gasdotti o navi. Con
l’invasione russa dell’Ucraina la maggior parte dell’importazione di gas si è
spostata nell’area Mediterranea (Qatar, Algeria) e la dipendenza dalle navi
rigassificatrici USA è aumentata. ENI e SNAM in questo senso hanno iniziato ad
interessarsi dello spazio gazawi, la prima accettando le concessioni illegali di
Israele per l’esplorazione di giacimenti di gas nelle acque gazawi, la seconda
partecipando con una quota del 25% al progetto del gasdotto che collega Israele
all’Egitto. I giacimenti Gaza Marine e Leviathan sono oggetto di attenzioni
coloniali da parte di Israele da anni, che ha provato a sfruttare i giacimenti
già in passato e prevedeva di continuare anche quest’anno. Perciò, se Israele
occupasse Gaza e acquisisse la proprietà dei giacimenti, cosa gli impedirebbe di
estrarre ed esportare quel gas in Italia? Cosa impedirebbe a ENI e SNAM di
commerciarlo? E quali garanzie ci sarebbero che non sia proprio Taranto a
riceverlo?
La città, opponendosi al rifornimento di greggio al porto, ha già espresso con
chiarezza il proprio rifiuto delle logiche coloniali e genocidarie di Israele:
non è possibile allora sostenere un piano di transizione energetica che non dia
garanzie in questo senso. Che ci sia un vizio di fondo nel continuare ad
ignorare le richieste tarantine lo sappiamo, e lo dimostra la vicenda della nave
Sea Salvia: dopo il blocco del 24 settembre è stato necessario tornare in
presidio il 27, perché la nave è riuscita ad attraccare e a caricare il greggio.
Le comunità e il territorio di Taranto vengono continuamente scavalcate, ma
continuano a opporsi: esistono ancora gerarchie che decidono chi ha diritto a
essere ascoltat3 e chi può essere ignorat3, gerarchie che non si fermano ai
confini nazionali e che travolgono insieme Taranto e la Palestina.
I SOGGETTI DELLA MOBILITAZIONE DEGLI ULTIMI MESI
Eppure, Taranto sta dicendo no a tutto questo. Non solo le mobilitazioni del
24-27 settembre contro il genocidio e l’economia dell’occupazione, ma anche
quelle dei mesi precedenti raccontano la storia di una città che “non vuole più
dare”, come diciamo spesso, e che in realtà non avrebbe mai dovuto dare. La
lotta di questi mesi si è data in modi diversi, eppure complementari: la difesa
del fiume Tara ha seguito logiche e pratiche ispirate a quelle dei movimenti per
la difesa dell’ambiente; la mobilitazione contro la discarica ha avuto come
protagoniste le mamme del quartiere popolare Paolo VI, che hanno politicizzato
l’esperienza della malattia e dell’aumento del lavoro di cura in una zona
segnata dal ricatto industriale; e infine il nodo della transizione energetica
della fabbrica è stato affrontato dai soggetti autonomi – cittadine/i,
attiviste/i, comitati di operai e sindacati di base – che guardando al di là
della fabbrica, hanno lottato contro un modello produttivo che non li
rappresenta.
C’è però ancora un nodo irrisolto nella costruzione di questa convergenza. È un
problema che attraversa da anni la storia di questa città e che già nel 2012
portò alla nascita di uno sciopero autonomo di lavoratori che volevano farla
finita con le industrie inquinanti. Lo stesso nodo si è ripresentato con il
coinvolgimento degli operai nello sciopero contro l’economia di guerra di
Leonardo S.p.A., e ancora con il blocco del greggio e la mobilitazione portuale.
È il problema della mobilitazione operaia, una questione che rimanda
direttamente alla storia di Taranto, a quei discorsi sviluppisti e coloniali che
hanno convinto generazioni di futuri operai a volere la fabbrica, in nome di una
mentalità di partito e sindacale che vedeva nel progresso, nella modernità e
nell’industria i suoi simboli e valori.
di Giulio FZ (Flickr)
Con la promessa di uscire da quello che chiamavano “sottosviluppo”, hanno fatto
accettare il ricatto industriale: il salario come unico riscatto possibile, da
difendere anche a costo della devastazione ambientale, dell’inquinamento del
cibo, della malattia. Oggi, guardando alla storia di Taranto e a quella della
Palestina, è chiaro come proprio quei valori abbiano legittimato lo sfruttamento
e la distruzione. Eppure, ancora oggi molti sindacati restano arroccati
unicamente a difesa del lavoro, ma è proprio questo il nodo da sciogliere:
bisogna abbandonare la prospettiva del lavoro come soluzione al problema operaio
e dire la verità sull’origine del ricatto industriale.
Bisogna riconoscere che la disoccupazione non è un fatto naturale, ma un
prodotto artificiale, creato e mantenuto per costruire consenso attorno al
ricatto. La disoccupazione, così come l’idea che certi modelli di vita siano
arretratezza da superare, è stata imposta con l’esproprio delle terre, la
repressione, la conversione industriale e militare del territorio. In questo
processo di trasformazione economica si è scelto di non riconoscere come lavoro
salariato le attività di cura e di riproduzione, di sacrificare il valore
dell’ambiente: un lavoro fondamentale, quello affidato a madri, sorelle, figlie,
zie, dato per scontato e non retribuito come fosse naturale.
È proprio questa invisibilità e gratuità che ha reso il salario di fabbrica
l’unica alternativa apparente: il sistema regge perché, se il capitale deve
concedere qualcosa agli operai, lo compensa scaricando il costo sul lavoro di
cura e la devastazione ambientale – ma questo è un danno per tutt3, anche per
l’operaio, che si ritrova così, in un territorio sacrificato, con un salario che
non può comprare la guarigione dalle malattie dei suoi cari, che non lo protegge
dall’ondata di precarizzazione che investirà il mercato immobiliare, la sanità,
e le scuole, che non combatte la solitudine di quelle amicizie cameratesche dove
c’è spazio solo per la frustrazione e il vittimismo maschile, e che non lo
solleva dal peso della complicità con un sistema genocida. Si tratta di
esperienze profondamente politiche: i sindacati confederali devono riconoscere
questo meccanismo e smetterla di fingere che lo sciopero transfemminista e i
movimenti ecologisti non abbiano insegnato nulla in tutti questi anni.
Intanto, la comunità che lotta si muove in altri luoghi: nelle case, nelle
piazze, davanti alle fabbriche e ai porti, dentro relazioni nuove che
intrecciano la giustizia ambientale con quella di genere, quella sociale con
quella globale. In gioco ci sono tutt3 coloro che subiscono gli effetti di un
sistema coloniale e industriale, tutt3 coloro che sono convint3 che la
liberazione passa attraverso l’autodeterminazione collettiva.
LE FABBRICHE DI MORTE VANNO CHIUSE
Che cosa ci insegna il movimento di liberazione della Palestina? In che modo la
solidarietà alla resistenza può trasformarsi da assistenza a trasformazione
radicale del nostro modo di fare politica? Lo vediamo nuovamente per la vicenda
dell’ex-Ilva. Ora che nessuno vuole acquisire la fabbrica, i sindacati
rilanciano la proposta di nazionalizzarla – ma a quale fine? Per continuare a
produrre come prima, spostando la proprietà senza toccare il modello? Per
attribuire il debito allo stato, con la promessa di vigilare sulla riparazione e
messa a norma dello stabilimento? Sembra che non ci siano acquirenti disposti a
rilevare l’impianto, segno che questa fabbrica è arrivata al capolinea.
Serve chiusura, risarcimento, e autodeterminazione sul proprio futuro. Serve una
rottura radicale con le strutture contro cui ci opponiamo, e non una
negoziazione. Se un internazionalismo decoloniale può esistere, come ci stanno
insegnando le mobilitazioni per la Palestina, questo mette al centro il diritto
non-negoziabile dell’autodeterminazione. Ricade totalmente sulle persone il
diritto di decidere del proprio futuro, delle proprie forme di resistenza, del
tipo di società che vogliono costruire, radicate nei propri valori e nel proprio
sapere, libere dal colonialismo e dall’imperialismo. Evitare che ciò accada
costituisce una cattiva fiducia nella capacità di queste persone di
autodeterminarsi; costituisce un residuo di suprematismo bianco, di controllo,
di machismo nei confronti di un popolo e di persone che sono considerate
incapaci di auto-governarsi secondo giustizia. Il progetto rivoluzionario
decoloniale ci chiede uno smantellamento del potere, non una negoziazione: il
processo rivoluzionario è abolizionista. Abolire ciò che ci fa soffrire, creare
secondo i nostri bisogni e desideri. Significa riconoscere che le comunità
tarantine, le sole che hanno vissuto questa realtà per oltre 60 anni, sono le
sole autrici della propria liberazione. Significa riconoscere che le comunità
palestinesi, le sole che hanno vissuto questa realtà per oltre un secolo, sono
le sole autrici della propria liberazione.
Un modello sociale ed economico che continua a basarsi su acciaio e guerra non
ha futuro: porta soltanto morte. Questo modello sopravvive oscurando le
alternative: il lavoro di cura, l’autodeterminazione dei corpi e dei territori,
l’autogestione di economie sostenibili e circolari, l’abitare di comunità. Non
generano profitto e per questo vengono bollate come utopie, ma è proprio lì che
il reddito dovrebbe riversarsi, non nelle fabbriche di morte. Viviamo in un
territorio militarizzato, dominato da una mentalità coloniale e industriale, che
ci impedisce di respirare a pieni polmoni un’aria di libertà, di dare libero
sfogo ai nostri sogni. È qui che il residuo coloniale del cattolicesimo –
reazionario e mafioso – diventa l’unica valvola di sfogo per dare senso al
dolore e alla sofferenza.
Chiudere le fabbriche significa fermare l’inquinamento, riconoscere che guerra e
genocidio sono tra le industrie più devastanti per l’ambiente, ma anche
affermare un modo radicalmente diverso di immaginare la vita insieme, l’abitare
questi luoghi, l’amore per le nostre terre e le nostre relazioni. Ci serve sì
uno sciopero generale, ma uno che sia sciopero dalla guerra, dal genocidio, e
dalla subalternità politica. Sul futuro di Taranto e della Palestina devono
decidere l3 su3 abitanti: Taranto e la Palestina non sono il resort o la
discarica di nessuno.
Vogliono essere libere.
L’immagine di copertina è di Piet Sinke (Flickr)
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps
Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per
sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le
redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno
L'articolo Taranto si mobilita contro genocidio e sfruttamento della città
proviene da DINAMOpress.