Rafał Wojaczek / In ascolto delle viscere: nel corpo lacerato della poesia e del mondo
Immaginate i versi maledetti e modernissimi dei Fiori del male di Baudelaire e
della Stagione all’inferno di Rimbaud – amore morte viaggi tossici e onirici
ascesa e sgretolamento della società moderna e passioni estreme e smodate –
mescolati forte e risputati fuori in polacco nel bel mezzo della Guerra fredda e
avrete un capolavoro di poesia infervorata e dolente. Questa traduzione, per la
prima volta in italiano, dei versi del poeta Rafał Wojaczek (1945-1971), per i
tipi di Delufa Press, giovane, intraprendente e indipendente casa editrice
romana, giungono fino a noi come una scheggia impazzita e sferzante.
Wojaczek esordisce a vent’anni, nel 1965, con sette poesie dal tono provocatorio
e certamente dissonante con la Polonia dell’epoca: oppressa dalla cappa
sovietica e, nel 1969, la sua prima silloge squaderna in forma di metafora
quelli che saranno per lui questioni dominanti, quasi delle ossessioni: lo
sgretolamento del mondo, la paura, l’amore e il corpo. In quel volume, nei versi
di Era primavera era estate, Wojaczek scrive del trascorrere dei giorni e della
motivazione del poeta che si affievolisce: il poeta che “non incanta più ma
bestemmia” e che al contrario prima “incantava” “Per la patria, questa materia
di morte non riuscita”. L’estrema consapevolezza della caducità del corpo detta
letteralmente il passo di versi scanditi dall’urgenza di sviscerare – quando non
eviscerare – la rabbia l’amore il dolore. I versi di Wojaczek nascono dentro e
sul corpo, sono versi che dal corpo promanano come lacerazioni: è un corpo che è
vivo in quanto straziato: “Di tanto in tanto / per controllare / se sono vivo
ancora / mi pungo con uno spillo / e m’inserisco un piccolo / trapano nel
cranio”.
La poesia, per il maledetto poeta polacco, è un attraversamento drammatico di
fiumi di sangue e sperma che scorrono, inesorabili, verso “La fine della poesia”
stessa che
[…] dovrebbe essere in un corridoio buio
di una casa popolare che sa di cavolo come una latrina
Dovrebbe essere la benedizione inaspettata di un coltello
Sotto una vanga o un piede di porco alla tempia conciso come un amen
Dovrebbe essere un carrarmato di un cielo scatenato
La fine della poesia dovrebbe essere più veloce anche del pensiero
Wojaczek celebra malinconicamente un mondo decadente, militarizzato e recintato,
dove la disperazione evoca miseria ed escrementi. Versi quali “Cammino e chiedo:
dov’è la mia forca?” raccontano come in molti versi il percorso verso la morte
sembra segnato, anche se la pratica stessa del fare poesia è un luogo di
r/esistenza in vita: esserci in voce e corpo prima dell’inaggirabile
putrefazione. Si tratta di una forma di resistenza che Wojaczek instilla in
versi spesso estremamente lirici e travolgenti perché, occorre dirlo, questa è
una raccolta poetica incendiaria che ci riconcilia con una poesia di materia
pulsante viva o quasi morta che, in questi nostri tempi malandati, votati a
forme oscure di disumanità troppo disumana, ci restituiscono una pietas profonda
verso tutto ciò che attraversa il nostro passaggio (sempre troppo) breve su
questa Terra.
Questo volume dovrebbe finire tra le mani di giovani lettori e lettrici, qui e
ora, per riconnettere l’Europa nel segno dell’urlo, ritornare a Est seguendo un
ago che, se da un lato sfila la trama della Storia fino al 1989, dall’altro
ricuce ipotesi di futuro, perché da Est viene il futuro, si ode stridere e
sollevarsi dalle strade di Belgrado e di Istanbul – come dalle strade di Praga
era arrivato il 1968. Ed è dallo stridore e dai corpi lacerati, ci ricorda il
giovane Wojaczek, del resto, che si fa la poesia.
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