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La Cina compra MediaWorld e Unieuro: test del golden power per il governo Meloni
Il colosso cinese dell’e-commerce JD.com ha annunciato l’acquisizione del gruppo tedesco Ceconomy, la holding tedesca che controlla MediaMarkt e Saturn. L’operazione regala al dragone rosso l’accesso a due marchi simbolo del retail tecnologico tedesco e italiano: MediaWorld e Unieuro. Con il controllo di Ceconomy, JD.com ottiene, infatti, un accesso indiretto anche a Unieuro, in quanto, la holding tedesca detiene il 23,4 % della francese Fnac Darty, che nel 2024 ha acquistato la catena italiana. Si tratta di un affare da 2,2 miliardi di euro, con un’offerta pubblica d’acquisto al prezzo di 4,60 euro per azione. Una mossa studiata nei minimi dettagli: JD.com acquisisce così una rete distributiva imponente con 48.000 dipendenti, oltre 22 miliardi di euro di fatturato (dati 2023/2024) e una presenza in 11 Paesi. In Italia, dove MediaWorld è il secondo mercato per volumi dopo la Germania, la rete conta 144 negozi e 5.000 lavoratori. Il completamento dell’operazione è previsto per la prima metà del 2026, dopo il monitoraggio e il via libera delle autorità antitrust europee. La mossa non è solo economica, ma geopolitica e in Italia dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme. JD.com – terzo player cinese dell’e-commerce dopo Alibaba e Pinduoduo – non è nuovo ai colpi di scena. Già attivo in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi con la sua piattaforma Ochama, ora entra dalla porta principale nel Vecchio Continente con l’acquisizione di Ceconomy. Fondata nel 1998 da Richard Liu con il nome 360Buy, JD.com è diventata negli anni una delle realtà più avanzate dell’e-commerce globale, distinguendosi per una strategia radicalmente diversa dai competitor cinesi come Alibaba e Temu. Mentre questi ultimi si affidano a modelli marketplace aperti a venditori terzi, JD.com controlla direttamente l’intera filiera, dalla logistica alla consegna, fino alla piattaforma tecnologica. In Cina può contare su oltre 820 magazzini, più di 37.600 veicoli per le consegne e una forza lavoro logistica di oltre 323 mila persone. leggi l'articolo
Europa complice: «regala» a Tel Aviv i dati personali dei suoi cittadini
LA DENUNCIA DELLE ASSOCIAZIONI PER I DIRITTI DIGITALI «Vengono utilizzati per facilitare gli omicidi indiscriminati» nella Striscia Sì, anche i dati. Fornisce soldi e armi per il genocidio, aiuta nella ricerca di nuovi strumenti per lo sterminio. Ma questo lo sanno tutti, lo conferma la «non sospensione» dell’accordo di associazione di poche settimane fa. Pochi, però, sanno che l’Europa fa di più: fornisce, “regala” ad Israele anche i dati dei suoi cittadini. Che in qualche modo aiutano quel genocidio, sono un “pezzo” del genocidio. BENINTESO, la notizia non è nuova. Perché in Europa funziona così: c’è il Gdpr – la più avanzata delle leggi in materia di privacy e che, non a caso, infastidisce il comitato di big tech che governa gli Usa – che regola e vieta nel vecchio continente l’estrazione delle informazioni sugli utenti digitali. Nel resto del mondo però non ci sono le stesse norme. Così l’Europa – quando i diritti contavano, all’epoca di Rodotà per capirci – decise che i dati personali potevano essere trattati da paesi extra europei solo se garantivano gli stessi standard, la stessa protezione. Un tema delicatissimo – lo si intuisce – perché i server dei colossi digitali più usati hanno tutti sede negli States, dove le leggi in materia semplicemente non esistono. E questo ha dato vita a molti contenziosi, per ora tutti vinti dai difensori dei diritti, l’ultimo dei quali deve ancora concludere il suo iter. Ma questo è un altro discorso. Qui si parla di Israele. Otto mesi dopo l’avvio delle stragi a Gaza, 50 associazioni si rivolsero alla commissione di Bruxelles perché era già evidente che non esistessero più le condizioni – se mai ci fossero state – per definire «adeguata» la protezione dei dati europei in Israele. Di più: le organizzazioni rammentavano che la reciprocità nell’uso dei dati può avvenire solo – è scritto testualmente – con paesi e governi che assicurino il «rispetto dei diritti umani». leggi l'articolo
Così gli USA controllano la sovranità digitale delle istituzioni internazionali e della UE
Il 6 febbraio 2025 il presidente USA Donald Trump ha imposto una serie di sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su personale statunitense e su alcuni alleati, incluso Israele. Le sanzioni sono state applicate non con una legge, ma con un executive order — una sorta di “potere speciale” che il presidente USA può utilizzare in casi di estrema gravità senza dover passare prima dal Parlamento. In sintesi, dunque, a prescindere dalla possibilità di un controllo da parte delle corti USA e non di quelle dei Paesi UE, il dato di fatto —e di diritto— è che l’esecutivo può decidere di bloccare la funzionalità dei servizi erogati da Big Tech e ha il diritto, o meglio, il potere, di prendere i dati localizzati nell’Unione. Al netto delle sottigliezze del linguaggio diplomatico, infatti, in nessuno di questi accordi è previsto che la UE possa avere voce in capitolo nelle scelte di homeland security e di politica internazionale degli USA. Dunque, non si capisce quale sia l’utilità di avere incluso nel regolamento sulla protezione dei dati personali delle norme da applicare direttamente in altri Paesi quando questi, come da ultimo dimostra il caso DeepSeek, possono tranquillamente ignorarle in nome del principio dell’autonomia delle giurisdizioni. I fatti e la storia hanno dimostrato come free software e open source rappresentano un modello alternativo ed efficace per la gestione della sovranità su dati, informazioni e programmi. Utilizzare questo approccio alla proprietà intellettuale consente di avere il controllo pieno sul modo in cui funzionano le infrastrutture e di alimentare la creazione di un mercato dei servizi alle istituzioni pubbliche e private che non dipende necessariamente da soggetti stranieri, e lascia le risorse investite nel territorio della UE. Articolo completo qui