Tag - Sahara Occidentale

Il Marocco espelle giornalisti e un attivista che sostengono il Sahara occidentale
Le autorità di occupazione marocchine hanno espulso l’8 luglio 2025 due giornalisti e un attivista per i diritti umani che si trovavano nel Sahara Occidentale per osservare e raccontare la situazione del popolo Saharawi; le persone coinvolte lavoravano in coordinamento con Equipe Media. Questo atto – definito illegale – sottolinea la continua repressione marocchina della libertà di stampa e dei difensori dei diritti umani nel territorio occupato. Gli espulsi sono la giornalista asturiana Leonor Suárez, Óscar Allende (direttore del media digitale El Faradio) e Raúl Conde, membro dell’organizzazione Cantabria per il Sahara. I tre sono stati intercettati e trattenuti durante un controllo della polizia a El Aaiún, capitale del Sahara Occidentale occupato. Dopo l’arresto, le autorità marocchine li hanno dichiarati “personae non gratae” (persona non gradita) senza fornire alcuna giustificazione formale. Sono stati quindi costretti a lasciare il territorio con la loro auto e scortati da quattro veicoli della polizia segreta marocchina fino alla città di Agadir, in Marocco. Gli espulsi hanno denunciato che «questa detenzione ed espulsione è la prova delle vessazioni subite non solo dagli attivisti saharawi, ma anche da coloro che cercano di sostenerli». Hanno aggiunto che «queste azioni riflettono il fatto che il Marocco non rispetta i diritti umani più elementari ed è preoccupante che continui a essere un partner preferenziale di Paesi democratici come la Spagna». Le tre persone espulse oggi portano a 330 il numero totale di osservatori e attivisti espulsi dal Sahara occidentale dalle autorità marocchine negli ultimi anni. Traduzione dallo spagnolo di Stella Dante. Revisione di Mariasole Cailotto. Equipe Media
Cittadinanza e riconoscimento: dal Sahara Occidentale ai municipi italiani, il valore politico di un gesto simbolico
Ius soli, ius scholae: cittadinanza negata, confini di classe La questione della cittadinanza in Italia non è soltanto un tema giuridico o identitario: è un tema profondamente politico e, soprattutto, sociale. La normativa vigente — basata sullo ius sanguinis — riflette una visione arretrata e selettiva di appartenenza nazionale, che si traduce in una vera e propria discriminazione di classe. Chi nasce da genitori stranieri, pur crescendo in Italia, vivendo in italiano, studiando nelle scuole pubbliche e contribuendo alla comunità, rimane a lungo privo di cittadinanza. Ma non tutti subiscono questo vuoto in egual misura. In un sistema formalmente neutro, sono le condizioni socio-economiche a determinare le possibilità di accesso ai diritti. Serve tempo, serve stabilità economica, servono documenti, una casa, un reddito minimo. E serve anche familiarità con la burocrazia italiana, una lingua che spesso è ostacolo più che ponte. Così, la cittadinanza diventa il traguardo di pochi e non il punto di partenza per tutti. È una cittadinanza per ceti agiati, per famiglie stabili, integrate, con tempo da dedicare ai procedimenti e risorse per affrontarne i costi. Per tutti gli altri — precari, disoccupati, donne sole, famiglie numerose in affitto — il diritto a diventare italiani resta sulla carta. Questa distorsione produce un effetto perverso: la cittadinanza non è solamente negata a chi non ha il sangue “giusto”, ma anche a chi non ha il reddito “giusto”. Una cittadinanza su base patrimoniale che tradisce lo spirito stesso della Repubblica, nata sui valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale. È in questo contesto che lo ius scholae — la proposta di riconoscere la cittadinanza ai minori stranieri che abbiano completato un ciclo scolastico in Italia — si configura non semplicemente come un atto di civiltà, ma soprattutto come uno strumento di riequilibrio democratico. La scuola è il luogo in cui si costruisce il senso di appartenenza, di responsabilità, di cittadinanza attiva. Ed è proprio da lì che dovrebbe partire una nuova definizione dell’essere italiani. Tuttavia, anche questa proposta moderata e ragionevole viene bloccata da anni da chi cavalca paure identitarie e da una retorica dell’invasione sempre più pervasiva. Una retorica che ignora deliberatamente il fatto che il vero problema non è chi arriva, ma chi viene tenuto ai margini. In risposta, molte amministrazioni locali hanno scelto di agire. La concessione simbolica della cittadinanza onoraria a studenti e studentesse straniere nate o cresciute in Italia è un atto politico che denuncia l’ingiustizia del sistema nazionale e allo stesso tempo rivendica un’idea diversa di appartenenza: inclusiva, concreta, vissuta. Popoli invisibili: il Sahara Occidentale tra esilio e oblio La battaglia per la cittadinanza e per il riconoscimento non riguarda solamente chi vive in Italia: ci sono popoli interi per i quali la cittadinanza è un diritto negato da decenni. È il caso del popolo saharawi, costretto dal 1975 a vivere esiliato in campi profughi nel sud-ovest dell’Algeria, nella regione desertica di Tindouf. Dopo la fine del colonialismo spagnolo, il Sahara Occidentale è stato occupato dal Marocco con il sostegno degli Stati Uniti e della Francia. Da allora, il popolo saharawi — rappresentato dal Fronte Polisario — ha combattuto per l’autodeterminazione, ottenendo parziali riconoscimenti internazionali, ma restando sostanzialmente ostaggio di un conflitto congelato. Le promesse di un referendum per l’autodeterminazione non sono mai state mantenute, mentre i territori sono ancora occupati militarmente da Rabat, in violazione del diritto internazionale. Nel frattempo, oltre 170.000 persone vivono da oltre cinquant’anni nei campi di rifugiati di Tindouf, in condizioni climatiche estreme, con risorse scarse e prospettive di vita limitate. Una generazione intera è cresciuta senza patria riconosciuta, senza documenti ufficiali, senza futuro. La proposta spagnola: riconoscere la cittadinanza ai saharawi In questo quadro drammatico, una recente proposta politica ha riacceso il dibattito sul destino del popolo saharawi: il partito spagnolo Sumar ha proposto di riconoscere la cittadinanza spagnola a tutti i saharawi nati nel Sahara Occidentale durante il periodo coloniale (fino al 1975) e ai loro discendenti diretti. La proposta si fonda su un principio giuridico e storico: la responsabilità della Spagna come ex potenza coloniale, che ha abbandonato il territorio senza assicurare un percorso di decolonizzazione. In realtà, già oggi vi sono saharawi con passaporto spagnolo, ma si tratta di casi isolati o frutto di ricorsi giudiziari individuali. Con questa proposta, invece, si riconoscerebbe un diritto collettivo, un atto di giustizia storica. Ma non si tratta soltanto di un tema giuridico: si tratta di dare un’identità, una protezione, un passaporto e un futuro a decine di migliaia di persone, finora condannate all’apatridia. Le reazioni non si sono fatte attendere: da una parte il Marocco ha condannato duramente la proposta, vedendola come una minaccia alla sua occupazione; dall’altra, numerose organizzazioni per i diritti umani, insieme a settori della sinistra iberica, l’hanno accolta come un segnale forte, necessario, a lungo atteso. Ambasciatori di Pace: l’Italia accoglie, i Comuni riconoscono Ogni estate, diverse associazioni italiane accolgono nelle loro città gruppi di bambine e bambini saharawi provenienti dai campi profughi. Il progetto, fortemente voluto dalla Rappresentanza in Italia del Fronte Polisario e dalla Rete italiana di solidarietà col popolo sharawi, dei “Piccoli Ambasciatori di Pace” ha una valenza umanitaria — offrire cure mediche, sollievo dal caldo estremo, esperienze educative — ma anche fortemente politica: è un grido di attenzione lanciato alle nostre coscienze. Negli ultimi anni, molte amministrazioni locali hanno scelto di conferire a questi bambini la cittadinanza onoraria simbolica. È accaduto a Sesto Fiorentino, Montemurlo, Empoli, Livorno, Grottammare, Fucecchio, solo per citarne alcune. Gesti forti, capaci di trasformare l’accoglienza temporanea in un riconoscimento permanente. In alcuni casi, questi atti si legano a patti di amicizia e cooperazione sottoscritti con le istituzioni del popolo saharawi in esilio, rafforzando una diplomazia dal basso che ha un peso e una dignità propria. Questi bambini non sono considerati ospiti: sono portatori di memoria e di diritti negati. Il loro arrivo, i loro sorrisi, le loro storie, mettono in discussione la nostra idea di cittadinanza. Quando un Comune italiano concede loro la cittadinanza onoraria, sta affermando qualcosa che va ben oltre un gesto cerimoniale: afferma che l’identità non è una formalità, ma una relazione, un riconoscimento reciproco, un’appartenenza. Conclusione: la necessità di un diritto che riconosca la realtà, non il privilegio La cittadinanza non è soltanto un documento. È il diritto ad avere diritti, come scriveva Hannah Arendt. È una protezione giuridica, ma anche una legittimazione esistenziale. È uno strumento che può includere o escludere, valorizzare o discriminare. In Italia è urgente una riforma che riconosca i legami vissuti, i percorsi reali, le appartenenze costruite nella quotidianità, nei territori, nelle scuole, nelle relazioni sociali. Una riforma che abbandoni finalmente la logica classista e patrimonialista che oggi condiziona l’accesso alla cittadinanza: un meccanismo che favorisce chi ha risorse e stabilità e che esclude sistematicamente chi vive ai margini, pur contribuendo alla società. In questo senso, i gesti dei Comuni italiani verso i bambini saharawi — così come verso gli studenti stranieri nati o cresciuti qui — ci mostrano una strada. Sono pratiche di riconoscimento, atti di giustizia simbolica che evidenziano l’ingiustizia sostanziale dell’ordinamento vigente. Concedere la cittadinanza onoraria ai piccoli ambasciatori di pace non è un vezzo retorico, ma una denuncia politica che dà voce a un’idea diversa di appartenenza: si è cittadini dove si cresce, si studia, si partecipa, si costruiscono legami. È tempo che la politica nazionale raccolga il segnale di questa diplomazia dal basso. È tempo di una riforma profonda e coraggiosa, che superi l’arretratezza di una legge classista, inadeguata e discriminatoria, e che restituisca senso e dignità al concetto stesso di cittadinanza democratica. Simone Bolognesi, Presidente di Città Visibili APS Redazione Toscana
Sahara Occidentale: arriva khaima.net per dare voce agli attivisti
“Khaima”, cioè tenda in lingua araba, vuol dire “luogo del cuore” nella cultura saharawi, simbolo di ciò che accoglie ma anche di resistenza: per questo un gruppo di giornalisti e attivisti ha scelto questa parola per il nuovo portale di approfondimento Khaima.net. Con l’agenzia Dire ne parla uno dei suoi membri e fondatori, Mohamad Dihani, rifugiato saharawi in Italia. “Intendiamo portare la voce del popolo saharawi in Italia” spiega. “L’idea è partita da giornalisti e attivisti che si trovano nelle regioni occupate dal Marocco e coinvolgerà anche attivisti che, come me, vivono all’estero con lo status di rifugiati”. Nel 1976 il popolo saharawi proclamò la nascita di una Repubblica democratica araba in un territorio ricco di fosfati e risorse naturali, a poche ore dalla fine del mandato spagnolo – di eredità coloniale – del territorio collocato tra il sud del Marocco e il nord della Mauritania, che passava sotto il controllo del Marocco. Rabat da allora ne rivendica la piena sovranità. Fino al 1991 si era però combattuta una guerra, che si era conclusa con un cessate il fuoco e una risoluzione delle Nazioni Unite che aveva stabilito la tenuta di un referendum tra le popolazioni locali per scegliere tra l’annessione della regione al Marocco oppure la nascita dello Stato indipendente. Come avverte Dihani, però, “i saharawi ancora aspettano di vedere riconosciuto il proprio diritto all’autodeterminazione”, mentre il cessate il fuoco che aveva retto per tre decenni, “tre anni fa è stato rotto”. Oggi, continua il reporter-attivista, “vediamo che il diritto internazionale viene violato in tutto il mondo e quindi anche nel Sahara occidentale: rileviamo violazioni sistematiche contro gli attivisti, con arresti e aggressioni sono continue”. Khaima.net riporta di quattro attivisti aggrediti dalla polizia marocchina a maggio, citando un comunicato dell’Isiacom, l’Organizzazione saharawi contro l’occupazione marocchina. Parte della popolazione saharawi vive nel sud dell’Algeria, dove fanno base anche i vertici del governo dell’autoproclamata Repubblica democratica araba guidata dal Fronte Polisario. Secondo Dihani, le violenze colpirebbero “anche i rifugiati laggiù”. L’attivista inoltre denuncia che quando questi rifugiati tentano di “tornare nelle parti liberate, vengono bombardati da droni marocchini”. A livello politico, Dihani avverte che la risoluzione Onu del 1991 “viene ancora bloccata alle Nazioni Unite da Francia e Spagna, che sostengono le rivendicazioni del Marocco”. E così, essendo decaduto il cessate il fuoco, “è tornata la guerra” denuncia il giornalista: “Le due parti si colpiscono a vicenda, come accade in tante zone dell’Africa e del Medio Oriente”. Quest’ultima regione secondo il co-fondatore di Khaima.net “sta oscurando mediaticamente tanti conflitti, come quello in Sudan, dato che il mondo è concentrato sul genocidio in corso a Gaza, che invece viene protetto da quei governi che dovrebbero fermarlo e che appoggiano anche il governo che lo sta commettendo”. Dihani sottolinea: “Riteniamo che tutto ciò danneggi la fiducia per i governi democratici e le istituzioni internazionali (come Onu e Ue)”. Il giornalista continua: “Noi africani abbiamo sempre creduto nella democrazia ma oggi vediamo violate tutte le leggi, locali e internazionali, pur di opprimere le voci di chi vorrebbe denunciare”. Secondo Dihani, Israele non sarebbe un pericolo solo per i palestinesi, ma per gli stessi saharawi per via della “collaborazione molto stretta e sorprendente” che si sarebbe instaurata a partire dal 2021 tra Tel Aviv e Rabat, dopo la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo. Questa si espliciterebbe, denuncia Dihani, attraverso “la costruzione di basi militari israeliane in Marocco, vendita di armi – tra cui i droni usati anche contro i civili – e programmi di spionaggio” impiegati “contro attivisti saharawi, tramite società israeliane” che avrebbero permesso di “rafforzare l’occupazione”. Relazioni che, sempre stando al giornalista-attivista, “portano molti cittadini africani a riferirsi al Marocco ormai come all’Israele del Nord Africa”. Agenzia DIRE