Michela Murgia / Raccontare la sua voce
Anna della pioggia è molto più che una raccolta di racconti: è una costellazione
di voci, una geografia affettiva e politica, una mappa dell’immaginario che
Michela Murgia ha abitato e costruito in anni di scrittura militante e poetica.
È un libro postumo, sì, ma non malinconico: è pieno, vivo, urgente. È un libro
che ci raggiunge nel tempo giusto — un tempo in cui le parole sembrano gridare
per essere ascoltate, e dove la molteplicità di sguardi è non solo un valore, ma
una necessità democratica.
Il titolo, tratto dal racconto d’apertura, racchiude già molto del suo
spirito. Anna della pioggia è la figura liminare di una donna che corre nel
temporale, quasi danzando tra le crepe del reale, accompagnata da pensieri
minimi e rivoluzionari: una lavastoviglie, un pupazzo, l’istinto di fuga. In
quella corsa che non è solo fisica, ma simbolica, emerge una condizione
esistenziale — il bisogno di attraversare le proprie stanze interiori, i propri
dissesti, per potersi dire vive. È una fuga dal dovere e dalla domesticità
imposta, ma anche un’epifania. «Non c’è nulla che sia davvero tuo se devi
chiederlo».
Questo libro, curato con attenzione filologica e affetto narrativo da Alessandro
Giammei, raccoglie racconti disseminati in epoche diverse della vita e della
carriera dell’autrice: testi scritti per festival, per blog, per radio; testi
regalati ad amici, racconti letti in pubblico e poi lasciati scivolare
nell’oralità; e testi inediti che non avevano ancora trovato casa. Ora la
trovano qui, in un libro che è anche, forse soprattutto, casa comune. Perché
ognuno di questi racconti è una porta socchiusa, una finestra aperta su un mondo
che riconosciamo come nostro anche quando parla di voci e luoghi lontani.
La varietà di stili e registri è sorprendente, ma mai dispersiva. Ci sono
racconti in forma di favola, come quello in cui una bambina vive la sua prima
vendemmia tra adulti che parlano con il corpo e con i silenzi. C’è l’ironia
tagliente di una voce narrante che osserva con lucidità il linguaggio
dell’autorità e le sue maschere. Ci sono le riscritture mitiche di figure
femminili come Elena di Troia e Morgana: donne che, nei testi classici, sono
state oggetti di narrazione e che qui invece si raccontano da sole, rivendicando
parola e autonomia. «Le parole che non si possono dire trovano altre forme per
esistere».
Una costante è la centralità del corpo: mai corpo astratto, idealizzato o
punito, ma corpo vissuto, abitato, trasformato. Corpo queer, corpo malato, corpo
che ama, corpo che dice no. La maternità – così spesso trattata nella nostra
cultura come destino – diventa qui possibilità, scelta, costruzione affettiva.
Famiglia non è necessariamente sangue, ma alleanza, cura, responsabilità
condivisa.
Come già aveva fatto con potenza in Ave Mary e Istruzioni per diventare
fascisti, Murgia non smette, neppure in forma breve, di interrogare i meccanismi
del potere: chi ha diritto alla parola, chi ha diritto a esistere, chi può
essere ascoltato? La scrittura si fa strumento di restituzione, di riscatto, di
riscrittura del mondo. Ma non lo fa con toni moralistici. Lo fa con la forza
dell’intelligenza emotiva, con un’ironia acuminata, con una tenerezza che non
scade mai nel sentimentalismo.
Centrale, come sempre, la Sardegna: non come esotismo da cartolina, ma come
luogo fondante della lingua, della memoria e della resistenza. La Sardegna di
Murgia è radice e ferita, suono e silenzio. I racconti sardi della raccolta
hanno l’odore della terra, il ritmo orale delle storie tramandate, ma si
intrecciano a temi universali. In questo senso, anche ciò che è apparentemente
locale si fa globale: parla a chiunque abbia mai sentito di non appartenere, di
essere “fuori campo”. «Di storie ne servono molte, moltissime, per non diventare
schiavi di un solo punto di vista».
C’è anche, in filigrana, la consapevolezza della fine. Alcuni racconti parlano
del morire, del lasciare andare, della trasformazione. Ma anche qui, la morte
non è mai tragica o vuota: è un passaggio, una soglia, un cambio di stato.
Persino una falena che resuscita può essere un miracolo, se la si guarda con gli
occhi giusti. E Murgia ha sempre avuto questi occhi, capaci di vedere oltre la
superficie delle cose, di cercare il significato nel dettaglio minuscolo, nella
crepa, nella fenditura. Anna della pioggia è dunque un lascito, ma non un addio.
È una continuazione. Un libro che si può aprire a caso, rileggere, tornare a
visitare. È un’opera che dice che le storie, se ben raccontate, non muoiono mai:
si depositano, come pioggia leggera, nei solchi della memoria. «Una voce, anche
quando tace, continua a esistere nella memoria di chi l’ha ascoltata». E noi,
che l’abbiamo ascoltata, non possiamo che continuare a raccontarla.
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