Le classifiche delle università non ci piacciono più
L’Economist del 18 Luglio ha pubblicato un articolo, di cui qui sotto riportiamo
una traduzione, in cui si commenta in maniera critica il ranking delle
istituzioni accademiche stilato dalla rivista Nature, il Nature Index. E’ uno
dei primi, se non il primo, articolo di critica ai rankings delle università
apparso su una rivista “mainstream”. I lettori di Roars conoscono bene il
problema: le classifiche delle università hanno il valore scientifico degli
oroscopi come abbiamo spiegato tanto volte.
Il Nature Index, a differenza di altri rankings in cui il punteggio finale viene
costruito tenendo conto di variabili molto fragili (ad esempio, l’opinione dei
datori di lavoro), si basa su un indicatore riproducibile: una selezione di
circa 145 riviste scientifiche internazionali ritenute tra le più prestigiose
nel campo delle scienze naturali (fisica, chimica, scienze della vita, scienze
della Terra, ecc.).
Per ogni articolo pubblicato in una delle riviste selezionate, vengono assegnati
punteggi secondo due modalità:
Article Count (AC): ogni articolo conta come 1 per ciascuna istituzione che ne è
co-autrice.
→ Es: se un articolo ha 3 autori da 3 istituzioni diverse, ognuna riceve un
punto AC.
Fractional Count (FC): il contributo è suddiviso tra le istituzioni coinvolte.
→ Es: se un articolo ha 4 autori da 2 istituzioni, ognuna ottiene 0.5 FC.
La classifica principale del Nature Index si basa sul Fractional Count, perché
tiene conto in modo più preciso del contributo effettivo di ogni istituzione.
Il Nature Index è concentrato esclusivamente sulle scienze naturali, ed esclude
campi come:
* le scienze sociali
* le scienze umane
* l’ingegneria applicata (in parte)
* l’informatica teorica (è sottorappresentata)
L’articolo dell’Economist è interessante perché mette in luce il fatto che ora
16 delle prime 20 università sono cinesi e tre americane. Questo debacle delle
istituzioni occidentali è significativa anche perché è impressionante il trend
di crescita delle istituzioni cinesi. Solo 10 anni fa neppure una accademia
cinese era nella top ten. E allora cosa si conclude?
> il modo in cui viene costruita la classifica favorisce i punti di forza della
> Cina.
Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.
--------------------------------------------------------------------------------
Dieci anni fa, Nature, una prestigiosa rivista scientifica, ha iniziato a
conteggiare i contributi forniti dai ricercatori di diverse istituzioni agli
articoli pubblicati in una selezione di 145 riviste accademiche di alto livello.
Quando nel 2016 fu pubblicato il primo Nature Index, l’Accademia Cinese delle
Scienze (CAS) si classificava al primo posto, ma le istituzioni americane ed
europee dominavano ancora la top ten. Harvard era seconda, Stanford e il MIT
erano rispettivamente quinta e sesta; il Centro Nazionale Francese per la
Ricerca Scientifica (CNRS) e la Società Max Planck tedesca occupavano il terzo e
quarto posto; Oxford e Cambridge si piazzavano al nono e decimo (il settimo e
ottavo posto erano invece occupati rispettivamente dalla Helmholtz Association e
dall’Università di Tokyo).
Col tempo, tuttavia, la classifica si è capovolta. Nel 2020, la Tsinghua
University di Pechino è entrata nella top ten. Nel 2022 Oxford e Cambridge sono
uscite, sostituite da due rivali cinesi. Nel 2024, solo tre istituzioni
occidentali sono rimaste nella top ten: Harvard, il CNRS e la Società Max
Planck. Quest’anno, Harvard è seconda e Max Planck nona. Otto delle prime dieci
posizioni sono occupate da istituzioni cinesi.
Questo cambiamento riflette un miglioramento reale e rapido delle capacità
scientifiche della Cina. Nell’ultimo decennio, il paese ha aumentato la spesa
per la ricerca e sviluppo (R&S) di circa il 9% all’anno in termini reali. Nel
2023, correggendo per il potere d’acquisto, la Cina ha superato sia gli Stati
Uniti sia l’Unione Europea nella spesa combinata di governo e università per la
R&S. Inoltre, ha richiamato in patria molti ricercatori cinesi precedentemente
all’estero, noti come haigui (“tartarughe marine”), un gioco di parole che
richiama il ritorno “dal mare”.
Tutti questi sforzi hanno dato i loro frutti. La Cina oggi pubblica più articoli
ad alto impatto (quelli che rientrano nel top 1% per citazioni) rispetto agli
Stati Uniti o all’Europa. In settori come chimica, ingegneria e scienza dei
materiali, è ormai considerata leader mondiale. Produce anche un’elevata
quantità di ricerche di alta qualità in informatica. L’Università di Zhejiang,
quarta nel Nature Index 2025, ha formato Liang Wenfeng, fondatore di DeepSeek,
una delle aziende cinesi più avanzate nel campo dell’intelligenza artificiale.
Tuttavia, il modo in cui viene costruita la classifica favorisce i punti di
forza della Cina. Le riviste incluse nell’indice sono scelte per rappresentare
la ricerca d’eccellenza nelle scienze naturali, e la loro composizione viene
aggiornata regolarmente. L’aumento delle pubblicazioni nelle riviste di chimica
e scienze fisiche ha portato queste aree a costituire oltre la metà del campione
nel Nature Index 2025. Le riviste di scienze biologiche e della salute, dove
l’Occidente mantiene un dominio, rappresentano solo il 20% dell’indice.
Inoltre, i centri di ricerca cinesi scendono di molto nella classifica quando si
considera solo la produzione nelle riviste Nature e Science, generalmente
considerate le più prestigiose. Solo la CAS figura tra le prime posizioni in
questa classifica, piazzandosi al quarto posto.
Gli osservatori dovrebbero comunque interpretare queste classifiche con cautela.
Pur essendo una misura utile della forza scientifica di un’istituzione o di un
paese, il Nature Index offre una valutazione inevitabilmente incompleta. Molte
ricerche di valore vengono pubblicate in riviste meno note, e le innovazioni che
cambiano il mondo non provengono necessariamente dalle istituzioni ai vertici
della classifica. Detto ciò, le università Zhejiang, Pechino e Tsinghua si sono
meritatamente guadagnate, insieme alla CAS, un posto tra le migliori al mondo.