Paul Schrader / Il cinema come arte della noia
È un giovane entusiasta e “malato” di cinema – un’arte, come tutte le forme di
intrattenimento, estremamente malvista nella rigida prospettiva calvinista
della famiglia di origine che si è appena lasciato alle spalle – il
ventiquattrenne Paul Schrader che nel 1971, laureando alla UCLA (University of
California, Los Angeles), pubblica una tesi su Il trascendente nel cinema.
Mentre collabora a riviste di cinema, due anni prima di firmare la prima
sceneggiatura, una decina prima della regia di American Gigolò (1980), Mishima
(1985), o, una vita più tardi, Il collezionista di carte (2021) – solo per
citare alcuni dei suoi film più noti – il futuro sceneggiatore di Taxi Driver
(1976) e Toro scatenato (1980) è interessato alle forme che considera più
spirituali della rappresentazione cinematografica. E, prima di chiunque altri,
a tre maestri che hanno avuto un’influenza intellettuale diretta sulla sua
maturazione giovanile: il francese Robert Bresson, il giapponese Yasujirō Ozu e
il danese Carl Theodor Dreyer.
In una eco più o meno consapevole dell’educazione religiosa ricevuta, Schrader,
“un prodotto della chiesa cristiana riformata di Grand Rapids”, definiva mezzo
secolo fa lo “stile trascendentale” come quella forma filmica che aspira a
proiettarsi “al di là della normale esperienza sensoriale” o, detto in altre
parole, a misurarsi con il Sacro. Alla ricerca di una “forma universale di
rappresentazione”, che lo liberi dalle identità, che si tratti dei legami con la
cultura di appartenenza o della personalità specifica che un artista di cinema
esprime attraverso la scrittura e la regia, dichiara che: “lo stile
trascendentale tende a massimizzare il mistero dell’esistenza”. Nel suo impeto
giovanile, Schrader punta il dito sul naturalismo convenzionale, non solo di
Hollywood, con il suo carico di psicologismo e di protagonismo attoriale, non
meno che sulle tattiche dell’espressionismo intentate dalla generazione
precedente (Dreyer compreso).
All’opposto, Bresson a Ovest e Ozu a Est, hanno sviluppato strategie ritualmente
“inespressive”, volte a svuotare, con il flusso esuberante e imprevedibile della
realtà, le convenzioni narrative e le costruzioni finzionali della narrazione
cinematografica – come la trama o la characterization – prosciugando anche
l’enfasi per processi tecnici stessi come il montaggio, la colonna sonora, ecc.
Nella sua tesi Schrader – che nelle conclusioni allarga il suo orizzonte a
figure multidisciplinari come Michael Snow e al cinema expanded di George
Maciunas e Andy Warhol – individua anche le tecniche di questa “arte della
noia”, che l’avanguardia del tempo ha codificato, cifrando direzioni artistiche
più o meno distinte. Tra queste la ripresa abnorme e meticolosa del quotidiano,
per smantellare il fantoccio della realtà; la disparità che, come una crepa, si
insinua tra il protagonista e il suo ambiente; infine la stasi che lasciando
affiorare la sospirata attesa filmica dell’Altro, trascende questa disparità
senza poi risolverla. La “noia” stessa è, tecnicamente, la chiave che il
filmaker utilizza, per liberare la partecipazione dello spettatore (per fare un
esempio di maniera: insistendo un piano sequenza e aggirando invece
l’artificiosità e le convenzioni narrative del montaggio).
L’approccio “trascendentale”, che in altri contesti artistici si sarebbe forse
definito “minimale”, in questi ultimi anni è stato spesso ribattezzato slow
cinema, definizione a ombrello che, alla larghissima, abbraccia il cinema di
Theo Angelopoulos, Roberto Rossellini, o Chantal Akerman, non meno che di
Aleksandr Sokurov o Abbas Kiarostami. Una definizione d’altro canto anche pigra
perchè, come sottolinea Schrader nell’introduzione all’edizione del 2018, in
tutti questi anni assieme alle mappe sono cambiati anche i territori del cinema
e dai lunghissimi secondi che costellano i drammi familiari di Ozu si è arrivati
alle 10 ore di Il cavallo di Torino (2011) di Bela Tarr.
Che cosa è cambiato? Secondo lo sceneggiatore della ex Nuova Hollywood, sono
successe soprattutto due cose: Gilles Deleuze e Andrei Tarkovsky. Il filosofo
francese, sulla scorta di Bergson, con il concetto di immagine tempo, ha fornito
una base teorica al cinema che, a partire dal secondo dopoguerra, “plasma
l’introspezione attraverso la durata”, e non attraverso una storia, come avviene
invece nell’immagine movimento. Dal canto suo, Tarkovsky afferma un nuovo
paradigma estetico che dà forza all’immagine attraverso “il carattere del tempo
che scorre dentro un’inquadratura”. Con Tarkovsky, d’altro canto, finisce anche
virtualmente – salvo rare eccezioni – un tipo di cinema che, almeno fino agli
anni ’70, ha visto convivere nelle sale i film di Bresson – o, se per quello, di
Pasolini – accanto a Star Wars. Lo slow cinema è oggi per lo più una faccenda di
festival e, secondo Schrader, a ripercorrerne la sua storia, ha assunto
soprattutto tre direzioni artistiche, simboleggiate da altrettante figure
allegoriche.
La telecamera di sorveglianza. Ovvero, il cinema erede del Neo Realismo
teorizzato da André Bazin negli anni ’50, che da Rossellini e via Jean Marie
Straub e certo documentario antropologico approda nel nuovo millennio ad esempio
alla “trilogia della morte” di Gus Van Sant (Gerry, Elephant, Last Days,
2002-2007).
La galleria d’arte. In pratica, il cinema sperimentale, che da Walter Ruttmann,
passando per i classici Oscar Fisherman e Norman McLaren, si arriva all’ultimo
Godard ma secondo Schrader anche all’ultimo Terence Malick.
Il Mandala. Ovvero la meditazione. Dal pioniere Andy Warhol – i 10 minuti di
Blow Job erano forse meno spirituali di altre durate? – a Kiarostami e al Kim
Ki-Duk di Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003) e a
Twenty cigarettes (2011) di James Benning.
La mappatura di un fenomeno articolato e complesso che l’autore presenta nel
libro anche graficamente attraverso un diagramma riassuntivo a tre dimensioni.
Una mappa che, ovviamente, non esaurisce né completa le emersioni, in continua
metamorfosi, del territorio, e cioè del Trascendente, che come osserva Gabriele
Pedullà nell’introduzione “è tra noi, partecipa delle nostre esistenze
miserevoli, alla lettera prende corpo nelle sofferenze del mondo”.
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