Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza
Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne
afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei
talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e
dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla
legittimazione dell’intervento militare nel Paese del 2001, il quale avrebbe
avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana.
Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole
che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo
definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta
la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di
oppressione fosse scritta nel loro destino.
Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la
rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i
talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per
cambiare il loro Paese va avanti, faticosamente e lentamente, certo, ma senza
sosta.
Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far
studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano
coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia.
Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti
che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden,
Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3
febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha
scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno
imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze
proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo
pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così
come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”.
Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8
settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani,
Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria
per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che
a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità
di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale
per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra
nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che
le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro
corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa
maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere
visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono
alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano
esposte”.
Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a
sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività
sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state
strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le
attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare
di sport femminile fuori dalle mura domestiche.
Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa
e nella speranza di poter lasciare il Paese e salvarsi dalla persecuzione che
sarebbe caduta su di loro.
Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a
fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro
ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della
nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella
speranza di riuscire a fuggire dal Paese.
Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriare e hanno ripreso ad
allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la
propria famiglia in Afghanistan.
Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e
fiori, perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili
di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce
derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il
Paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle
innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i
soldi provenienti dall’estero facevano gola.
In occasione dei Giochi Olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana
Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in
modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante
avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne,
quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico
Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai
rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan.
Secondo Rezayee permettere al suo Paese di essere rappresentato con tanto di
bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il
concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione
agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli
atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole
rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e
un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team).
La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia
delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di
smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così
definito anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto
delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La
socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino
durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la
frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea
dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere
fisico e psicologico.
Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente
la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi,
alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina.
I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i
talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che
era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah.
Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno
bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali
che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in
quanto essere umano. Non può essere negato.
Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa
essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket
di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile
sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali
dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive
internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni
che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket
afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da
Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana
continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo
afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile.
Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua
parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto
fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e
donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del
controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a
praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime, oppure al
contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo.
CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane