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Sui nuovi mondi
SI POTREBBE COMINCIARE DA QUELLE COMUNITÀ CHE, TRA INEVITABILI FRAGILITÀ, COSTRUISCONO RELAZIONI SOCIALI DIVERSE NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NEI PICCOLI PAESI COME NELLE CITTÀ. ENZO SCANDURRA HA INSEGNATO URBANISTICA PER OLTRE QUARANT’ANNI: IL SUO INVITO A METTERE AL CENTRO IL FARE DI QUELLE ESPERIENZE CHE CERCANO NUOVI MONDI TRA MUTUO SOCCORSO E DEMOCRAZIA COMUNITARIA, È ACCOMPAGNATO DA ALCUNE DOMANDE. COME APRIRE UNA DISCUSSIONE SU UN CONCETTO ABBANDONATO, IL SOCIALISMO, IN ITALIA? SIAMO IN GRADO DI ALLONTANARCI DA INUTILI RIUNIONI E LITI SU LEADER E FORMAZIONE DI NUOVI ALLEANZE? E SE RINUNCIASSIMO A QUESTO PER VIVERE “COME SE”, COME SE IL SOCIALISMO FOSSE GIÀ PRATICATO? QUESTE E ALTRE DOMANDE HANNO PERÒ BISOGNO DI UN ÀNCORA: “MOLTI DI QUELLI CHE PARLANO DI SOCIALISMO COL SOLITO LINGUAGGIO, CON QUEL TRABOCCHETTO CHE AFFERMA CHE NON HANNO IMPORTANZA I MEZZI ATTRAVERSO I QUALI SI RAGGIUNGE QUESTO FINE, SARANNO COLORO I QUALI, CAMBIANDO SISTEMA, IL SOCIALISMO LO OSTACOLERANNO… NON SI PUÒ PRATICARE LA VIOLENZA PER COSTRUIRE UN MONDO DAL QUALE SI VUOLE ESPELLERLA” San Michele Salentino. Foto di Attacco Poetico -------------------------------------------------------------------------------- C’è un dibattito sul socialismo a venire? Ben venga in questo Paese anestetizzato, dalla coscienza atrofizzata, dalla mancanza di qualsiasi stupore per ogni cosa. Come sempre, si scontrano diverse analisi e visioni; tutte partono dal rifiuto di come va il mondo adesso, delle guerre, delle mediocri personalità che ci governano, delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle miserie e della crisi climatica che ci minaccia; insomma dal rifiuto del capitalismo e dell’ideologia neoliberista che rischia di trasformare il pianeta in un deserto. Eppure mi sento a disagio a parlare di questo tema in termini teorici: quale socialismo; quando il socialismo? Anziché immergerci in queste dotte analisi e pensieri, compito spropositato, preferirei pensare alla vita quotidiana delle tante piccole comunità disseminate un po’ ovunque, che senza parlare direttamente del tema, lo vivono con il proprio corpo, le fatiche del vivere, i piccoli conflitti, la gioia di fare insieme e di cenare insieme, l’amicizia, l’amore per le cose e la natura. Non è forse questo il socialismo? Oppure mi sbaglio? Penso a quel bel quadro di Pellizza da Volpedo e ci sembra che in esso, nelle sue figure ottocentesche, ci sia l’immagine del socialismo. Piuttosto che cercarlo nelle teorie, si potrebbero osservare queste comunità, la vita in piccoli paesi quasi abbandonati, il ritorno a pratiche di vita desuete, a un’economia che non abbia il fine del profitto, ma la produzione di beni materiali necessari alla vita quotidiana (La Restanza di Vito Teti). Lo sguardo della sinistra dovrebbe ruotare di 180 gradi e rivolgersi verso queste comunità e il loro modo di vita. Si impara solo spingendosi ai limiti per inoltrarsi su sentieri nuovi, mai praticati. Abbandonare le inutili riunioni, gli stanchi dibattiti, le liti nella sinistra, il leaderismo, la ricerca del Capo, la formazione di nuovi schieramenti e lasciarli soli questi politici, che si azzuffino pure per futili motivi, per contendersi qualcosa di cui non abbiamo bisogno. Senza il nostro riconoscimento essi sono personaggi inutili, senza alcun potere, persino ridicoli. E se appunto rinunciassimo a tutto questo e decidessimo di vivere “come se”, come se il socialismo fosse già praticato? E se ci immergessimo, noi non più giovani, in questo nuovo mondo di resistenza (femminismo, movimenti giovanili, studenti, ecc.)? Bisogna partire da se stessi, rinunciare al dover essere, al presidenzialismo, ai propri privilegi perché se uno sta più bene degli altri, ci saranno sempre quelli che stanno meno bene di lui. E rinunciare al dominio del patriarcato che affiora anche ai livelli istituzionali (vedi Nordio, Roccella). Partiamo dalle città, i luoghi dove vive e lavora la maggior parte delle persone (destinate a crescere nel tempo). Nulla ci impedisce di pensare (come già immaginava Murray Bookchin) che esse possano diventare “culle di comunità”, dove gli abitanti sono legati da vincoli comunitari e dove la solidarietà e la convivenza ne sono i requisiti fondamentali. Oggi siamo ben lontani da questa situazione, il capitalismo e l’ideologia neoliberista stanno trasformando le nostre città in luoghi di disperazione, di solitudine, di una guerra silenziosa tra ricchi e poveri. In primo luogo, bisogna abbandonare l’idea di metropoli, quel non-luogo di flussi e merci devastatore di territori e luoghi. Perché le persone abitano i luoghi fisici e non i flussi. Ma se si vogliono salvare le città (“Non si salva il pianeta se non si salvano le città” è il titolo di un bel libro di Giancarlo Consonni), bisogna ridefinire il concetto di democrazia, ovvero il suo perno fondamentale che consiste nella (crisi della) rappresentanza. Una democrazia reale si fonda sul volere/potere dei cittadini che si organizzano in comunità che, in quanto tali, prendono decisioni sull’organizzazione della propria vita; in sostanza comunità autogovernanti e di mutuo soccorso. Esperienze di tal genere si sono realizzate anche in Italia, purtroppo, in situazioni di emergenza come a L’Aquila (post terremoto), e durante l’epidemia di Covid. Una comunità non è un semplice aggregato di individui, afferma Debbie Bookchin (vedi Pratiche urbane e alleanze dei corpi, ne il manifesto del 20.11.2025): “una forma di organizzazione che chiamiamo comunitarismo. Si tratta di un progetto profondamente educativo in cui ci riappropriamo del senso di solidarietà e impariamo di nuovo ad autogovernarci”. Perché è proprio dalle città che nascono e si moltiplicano movimenti antagonisti al potere autocratico, come recentemente avvenuto a New York. Le città sono diventate fiere futili di eventi, di spettacoli, di turisti mossi dall’ansia di consumare, di rapine da parte di fondi immobiliari stranieri e non che le spolpano di ogni ricchezza e bellezza. Ma tanto più diventano prigioni per motivi di sicurezza, tanto più crescono movimenti antagonisti, per ora isolati, silenziosi, afoni. Casematte di un possibile risveglio? Esempi virtuosi di un altro mondo? È sufficiente questo? No, credo di no. Bisogna anche impegnarsi a cambiare i nostri governanti, a combattere per sostituirli con rappresentanti più onesti e capaci. Ma solo a partire dalle esperienze di questi nuovi mondi inascoltati e invisibili dalla politica, senza le quali ogni rinnovamento diventa impossibile. C’è poi il problema delle istituzioni; quelle in cui riponevamo la nostra fiducia non esistono più. Il neoliberismo si è mosso nella direzione di neutralizzarle: governi che decidono senza parlamenti, leggi che stanno per introdurre il presidenzialismo (leggi: fascismo), aggiungiamo il tentativo di eliminare i sistemi di controllo internazionali e quelli nazionali (Corte dei Conti, Banca d’Italia, magistratura). Difficile quindi contare in esse, piuttosto ci si dovrebbe interrogare su come risanare e rafforzare le “vecchie istituzioni” (Onu), e al tempo stesso crearne di nuove sovranazionali per affrontare problemi nuovi, sconosciuti in altre epoche, per esempio quelli connessi alla minaccia climatica (Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra; Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale). Crediamo però che molti di quelli che parlano di socialismo col solito linguaggio, con quel trabocchetto che afferma che non hanno importanza i mezzi attraverso i quali si raggiunge questo fine, saranno coloro i quali, cambiando sistema, il socialismo lo ostacoleranno, come già accaduto nella storia. Non si può praticare la violenza per costruire un mondo dal quale si vuole espellerla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sui nuovi mondi proviene da Comune-info.
Il Mega Maga è sempre aperto
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- In un paese dell’appennino molisano non hanno molto rispetto per lo slogan Make America Great Again, noto come “Maga”, utilizzato da Trump ma prima ancora da Clinton. La “casa degli oggetti” messa su un anno fa a Capracotta si chiama Mega Maga, dove Maga in realtà sta per magazzino. Presto diventerà un Repair Café, un Caffè delle riparazioni, cioè uno spazio aperto alla comunità nel quale le persone possono portare oggetti rotti e imparare a ripararli grazie all’aiuto di volontari. Ma già oggi è possibile portare e ritirare oggetti al Mega Maga, al momento completamente autogestito, tanto da essere sempre aperto: un semplice chiavistello, infatti, senza alcun lucchetto, permette di aprire dall’esterno la porta di questo capannone di due piani abbracciato da un piccolo giardino. Le spese dell’affitto, spiega Antonio D’Andrea, che più di altri ha creduto nell’idea, sono per ora coperte dalle donazioni. Nel Mega Maga trovano spazio mobili, elettrodomestici, lampadari, piatti, coperte ma anche libri e giocattoli. “Quando hanno portato una macchina da cucire ho pensato che sarebbe bello creare l’Angolo del cucito per recuperare i tanti abiti che abbiamo raccolto – dice Antonio – E poi l’Angolo della falegnameria, l’Angolo artistico e ovviamente l’Angolo del tè…”. Intanto mostra un forno praticamente mai utilizzato: era di una signora che non c’è più, i figli l’hanno portato sperando che possa essere finalmente utile a qualcuno. Colpisce la quantità di lana accumulata. “Stiamo immaginando di ricavarne dei cuscini paraspifferi, indispensabili qui in montagna, o dei teli per la pacciamatura in agricoltura, oppure della bambole ribelli dedicate a Rosa Luxemburg”, dice convinto Antonio. L’idea è che una volta a settimana qualcuno doni del proprio tempo non solo per aggiustare o trasformare qualche oggetto ma anche per insegnare ad aggiustare. Al momento, Pietro, che sa far di tutto con gli attrezzi, ha cominciato frequentare il Mega Maga. C’è anche Michele, che invece ha messo a disposizione il suo camioncino per ritirare gli oggetti più ingombranti. E nel paese altri si stanno interrogando su come dare una mano. Tutto senza l’intermediazione del denaro. Di certo, il grande tavolo di legno posto al centro del salone sarà il piano di appoggio per tanti aggiustatori. Diverse associazioni della regione hanno cominciato a conoscere il Mega Maga (per contatti è possibile scrivere a barchettaebbra at gmail.com). E il Comune? “Purtroppo la cooperativa che gestisce il porta a porta non è del paese e quindi è difficile creare una relazione”, spiega Antonio. Di certo, tra mille difficoltà, questo luogo sembra pronto a ridare vita a tanti oggetti, mettendo in discussione la logica delle discariche, ma anche a ricomporre relazioni e a immaginare un futuro diverso per un territorio alla prese con lo spopolamento. Ha scritto Vito Teti: «Abbiamo bisogno, per salvarci, per salvare la specie, se siamo ancora in tempo, di una grande rivoluzione culturale, morale, di rigenerare i luoghi e i cuori, di un nuovo vocabolario, di nuove parole, di nuove pratiche… Dobbiamo pensare altrimenti…» (leggi Il mio paese non è un borgo). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Avviare un Caffè delle riparazioni -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il Mega Maga è sempre aperto proviene da Comune-info.
Accompagnamento al declino
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Ambra Pastore -------------------------------------------------------------------------------- L’invecchiamento dell’Italia non è dovuto solo al calo demografico. Quest’ultimo dipende, unicamente, da scelte sbagliate fatte in passato, e che provocano la stasi attuale. Il primo implica l’involuzione culturale conseguente a indirizzi specifici di mala gestione politica. In questi giorni se ne è tornato a parlare perché è emerso, nonostante la scarsa informazione dei media mainstream, il programma previsto dal Piano Nazionale Strategico relativo alle Aree Interne. Oggi sopravviviamo sulle macerie. Trent’anni di politiche neoliberiste hanno ridotto i Paesi in stato vegetativo. Da noi, in particolare, le scelte operate dalla classe dirigente sono state funzionali a quella che allora veniva chiamata globalizzazione economica. Sul mercato hanno messo di tutto pur di fare cassa e accompagnare il passaggio d’epoca. Il che si è tradotto nell’impoverimento sociale e culturale dei territori. Il venir meno della gestione collettiva – pubblica e/o dal basso – di settori, beni e funzioni indispensabili alla vita associata, e il loro affidamento a soggetti privati nazionali ed esteri (le privatizzazioni, i monopoli) hanno determinato il declino sociale del paese. A subirne maggiormente le conseguenze sono le zone definite “più arretrate” (non per colpa loro ma per processi storico-politici e condizioni geografiche). Queste, già pagavano la mancanza di possibilità adeguate dovute alle condizioni ereditate, ed alla carenza infrastrutturale e di servizi inefficienti. Globalizzazione, taglio della spesa pubblica, vincoli fiscali austeritari, un continuum devastante, che ha impattato sul mondo del lavoro, rendendolo povero e insicuro. Sulle attività produttive sottomesse alla sleale concorrenza dei grandi distributori. Ripercussioni riguardanti la biodiversità e i servizi ai cittadini con l’accorpamento di scuole, il ridimensionamento di uffici, la sparizione di sportelli bancari e postali. E il complesso del trasporto pubblico inidoneo. Sono le aree interne (paesi collinari, di montagna, rurali) le vittime preferite. A pagare il prezzo di decisioni fatte da privilegiati che vivono altrove. E che tutt’al più vanno in questi posti per presenziare a celebrazioni fini a se stesse, o per riposarsi qualche giorno nel silenzio di luoghi con ritmi di vita ancora parzialmente autonomi. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI VITO TETI: > Requiem prima della morte -------------------------------------------------------------------------------- Da decenni sentiamo parlare di desertificazione sociale, migrazione economica, eppure nulla è stato fatto per invertire la rotta. Quando le persone abbandonano i comuni in cui sono nati, svuotano gli stessi di competenze, saperi, interrompendo il futuro. Venendo meno il presidio fisico manca anche la salvaguardia degli stessi (il patrimonio boschivo e idrico ad esempio). Pensiamo all’assetto idreologico, alla manutenzione, alla tutela e preservazione, soprattutto in presenza di fenomeni climatici estremi e sempre più diffusi. In tanti, così, decidono malvolentieri di spostarsi altrove. Presso città e metropoli in cerca di opportunità che da loro latitano. Andando, inevitabilmente, a ingrassare la massa di quell’esercito di riserva italiano e straniero che, anche se riuscirà a trovare un salario, spesso non sarà sufficiente a garantire una vita dignitosa. In considerazione del caro affitti e della gentrificazione degli spazi. La classe politica, nazionale e locale, dopo aver svenduto l’impossibile adesso punta sul turismo per la ripresa. Bisognerebbe chiedersi per chi? A quanti giova davvero l’economia basata sul turismo modaiolo e invasivo? Le città d’arte per vacanzieri mordi e fuggi, dagli affitti brevi, sono diventati posti standardizzati, tutte uguali, spesso in mano a brand esteri, che lavorano estraendo valore che non viene distribuito sui territori. Albergatori, case vacanze, ristoratori, sagre, mentre i cittadini reclamano il necessario che non c’è. Dopo aver vissuto una vita intera a Venezia, Firenze, Roma ecc. sono costretti ad abbandonare, tristemente, tali posti perché stressati dal ritmo vacanziero quotidiano imposto da amministratori e gestori di locali. Il grosso del meridione, arretrato da un punto di vista di infrastrutture, con il suo sistema di viabilità e i collegamenti, i carenti servizi dedicati all’infanzia, ai giovani, e agli anziani, il lavoro non previsto per chi non ha amicizie politiche, si è ridotto, esclusivamente, ad attrarre i vacanzieri stranieri o benestanti. Mentre il resto dell’anno sopravvive a fatica. L’esempio eclatante può essere la città di Matera. Passata dal dimenticatoio ad essere Capitale europea della cultura. Ciò ha portato un tornaconto di visibilità ed economico rilevante. Eventi e iniziative come mai prima di allora, però, al di fuori della passeggiata da ospiti rimangono differenze preoccupanti. Gli affitti sono balzati alle stelle per i residenti, la sanità è in condizione pietose (molti vanno a visitarsi fuori regione), il trasporto pubblico dentro e per Matera è quasi completamente assente. All’interno della visione miope degli amministratori locali, con l’unico scopo di andare all’incasso di finanziamenti pubblici-comunitari-del PNRR, mentre la crisi sociale aumenta, prende forza l’intento dei governi nazionali, che da Renzi all’Autonomia Differenziata hanno contribuito ad aumentare il divario. Quindici anni fa leggevamo di come il Sud vedeva sparire in media un comune di circa duemila abitanti ogni anno. Lo SVIMEZ parlava di un Paese diseguale e a due velocità. L’Italia aveva più di sessanta milioni nel 2014 e nel 2024 siamo scesi sotto i cinquantanove; nel meridione in vent’anni se ne sono andate più di un milione di persone; la piccola Basilicata ha perso quasi il dieci per cento (cinquantamila abitanti in dieci anni); la Calabria circa centocinquantamila. Adesso arriva il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Dovrebbe contenere un progetto di ripresa, invece la “strategia” consiste nell’accompagnamento al declino. Il governo di estrema destra che parla di sovranismo, ma fa il gioco delle élite. Disinteressandosi della sorte di quattromila comuni – circa la metà del totale italiano – e tredici milioni di persone. Tutto il contrario di quanto fanno gli altri, come la Francia o i Paesi del Nord Europa, che investono sulle aree rurali per offrire alternative sostenibili di vita e opportunità alle giovani generazioni, senza dimenticare il welfare. Nel documento pubblico tenuto nascosto ai media viene detto, chiaramente, che il declino delle aree interne è inarrestabile. Quindi nessun investimento per offrire opportunità lavorative, sociali, e prestazioni al cittadino. Violando esplicitamente principi, come la solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e l’eguaglianza formale e sostanziale (art. 3), che garantiscono la coesione attraverso la cooperazione, rimuovendo le differenze. Per i fratellitalioti, sorelle e affiliati, l’ordinaria amministrazione consisterà in quel residuo di funzioni a disposizione di quanti potranno ancora permetterselo (l’assistenza considerata l’avanzata età anagrafica). Le ultime generazioni con un reddito sufficiente (le pensioni) a garantirsi un minimo vitale. I posti in montagna, i piccoli borghi, diventeranno come cattedrali nel deserto. Paesi fantasma da appaltare per set cinematografici e fiction. E di cui leggere sui libri di storia, al fine di conservare (e possibilmente tramandare) quella memoria mancante a chi decide. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Accompagnamento al declino proviene da Comune-info.
APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI
Il 9 aprile scorso la Cabina di regia, istituita presso il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio, ha approvato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Lo ha fatto senza una … Leggi tutto L'articolo APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.