Narco-stato e fascismo criminale in Messico
Ciao a tutt*, siamo qui a dare la nostra parola come collettivo
internazionalista Nodo Solidale, un piccolo gruppo di militanti con un sogno
rivoluzionario, piantato su due sponde dell’oceano, una in Messico e l’altra in
Italia.
Partendo dalla nostra umile e specifica esperienza politica, speriamo di
stimolare e nutrire il dibattito, necessario, che ci propone questa meravigliosa
realtà che ringraziamo e di cui ci sentiamo parte. Perché Renoize è la memoria
viva di Renato, idea e pratica mai sopita di antifascismo comunitario che ancora
ci unisce in questa città sempre più delirante e difficile. Come molt* già
sanno, per il nostro collettivo esserci oggi è una questione d’infinito,
inesauribile, amore ribelle.
Come bianchx europex che attraversano, vivono, amano e si riconoscono complici
di quel Messico “dal basso”, ribelle e resistente, proveremo a tradurre in
questo intervento ciò che osserviamo da circa vent’anni, citando talvolta i
nostri stessi contributi su nodosolidale.noblogs.org
Il tema che ci convoca è la guerra contro l’umanità che stiamo vivendo. Ormai
sappiamo che le guerre servono all’autocrazia mondiale – passatecelo come
concetto critico e metaforico – per «distruggere e spopolare» per poi
«riordinare e ripopolare i territori» secondo gli interessi di un unico
vincitore: il capitale. È questa la formula coniata dagli e dalle zapatiste
dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) per leggere la «Quarta
guerra mondiale». “Quarta” perché durante quella che fu definita “Guerra fredda”
si sono combattutte più di un centinaio di guerre in tutto il pianeta, insomma
di freddo c’era poco… La guerra globale permanente che sta combattendo il
capitale globale contro l’umanità.
Il genocidio in Palestina preparato da anni di occupazione, assedi e attacchi
sistematici al popolo palestinese, ne è tragicamente la dimostrazione più feroce
e palese. «L’atto finale del colonialismo bianco», così lo definisce il
giornalista Bellingausen.
Come scrive Rita Laura Segato, ci sono massacri che non si limitano allo
sterminio fisico: colpiscono la trama stessa del vivente. Non si uccidono
soltanto corpi: si spezzano genealogie, si interrompono legami, si devastano
comunità. È un femminicidio mondiale, dove ciò che è relazionale, ciò che
custodisce e protegge la vita, viene ferito al cuore, proprio perché la vita è
l’antitesi del capitalismo.
Accade oggi in molte parti del mondo quello che giustamente qui chiamate «regime
di guerra». E non si tratta soltanto del cosiddetto «modello Orbán“ delle
destre: anche governi che si proclamano progressisti riproducono, con maschere
nuove e un lessico più seducente per le masse, le stesse logiche di dominio e
sfruttamento del capitale globale. In questo senso, il Messico e la guerra non
dichiarata che vi si consuma, rappresentano oggi un laboratorio “anomalo” di
potere e sfruttamento, un esempio drammatico che non possiamo ignorare e che
vorremmo provare a inquadrare insieme.
LA QUARTA TRASFORMAZIONE
Citiamo ancora l’EZLN che, in uno dei suoi comunicati più recenti ha descritto
il pianeta come un unico e grande latifondo: i padroni sono le grandi imprese
multinazionali, mentre i governi non sono altro che i caporali che si alternano
nella gestione tirannica del pezzo di proprietà loro assegnato. L’alternanza fra
i diversi caporali è quella che chiamano democrazia. E In quest’ ottica,
l’arrivo di Morena (Movimiento de REgeneración Nacional) al governo non ha
cambiato il sistema, ma soltanto chi lo amministra, il caporale, appunto.
In Messico, dopo due sconfitte elettorali, Andrés Manuel López Obrador decise di
abbandonare il PRD e fondare appunto Morena, un nuovo movimento che si
presentava come voce della sinistra popolare e alternativa al sistema dei
partiti tradizionali: un partito costruito intorno alla sua figura, più che su
un progetto collettivo. Nel 2018, al terzo tentativo, ha conquistato la
presidenza con un consenso senza precedenti, presentandosi come paladino della
“Quarta trasformazione” del Paese, dopo l’Indipendenza (1810-’21), la Riforma
liberale (1867) e la Rivoluzione Messicana (1910-’17).
> Al posto di una vera democratizzazione si è consolidato invece un potere
> personalistico, con programmi sociali più utili al consenso che alla giustizia
> strutturale. La militarizzazione della sicurezza è proseguita, smentendo gli
> impegni iniziali, mentre le politiche economiche hanno favorito le pratiche
> estrattiviste.
Nel 2024 Claudia Sheinbaum è diventata la prima donna presidenta del Messico, ma
la sua elezione è stata solo un sigillo di continuità con il governo precedente.
Sul piano sociale, a livello micro-economico, si è tentata una ridistribuzione
dei redditi, soprattutto nelle campagne e nelle zone più povere del Paese,
attraverso numerosi programmi puramente assistenzialistici. Questi interventi,
infatti, pur alleviando un po’ le difficoltà immediate di sopravvivenza, restano
privi di una reale prospettiva di cambiamento strutturale delle vite e spesso
sono stati utilizzati in chiave controinsorgente: per cooptare, comprare le
coscienze e indebolire le lotte sociali e i movimenti popolari, soprattutto
quelli autonomi.
A livello macro-economico, i governi progressisti di López Obrador e Claudia
Sheinbaum hanno invece continuato e, in certi casi, approfondito il solco delle
politiche neoliberali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e da organismi
finanziari continentali come il Banco de Desarrollo Interamericano. In questo
contesto, il Messico si presenta come nuova potenza regionale “latina”, sia
culturalmente che politicamente, ma il suo rapporto di sudditanza con gli Stati
Uniti resta invariato: la dipendenza economica e politica limita le possibilità
di indipendenza e di trasformazione reale, consolidando invece il modello di
sviluppo orientato al mercato e alle élite transnazionali più che ai bisogni
della popolazione.
Foto Nodo Solidale
I MEGA-PROGETTI E IL MODELLO ESTRATTIVISTA
Il progetto trentennale di riordino strutturale e geostrategico, noto come Plan
Puebla-Panamá, ostacolato storicamente dalle resistenze locali, trova oggi nuova
linfa con i governi progressisti messicani. In Messico l’estrattivismo resta il
vero motore dell’economia, con i settori minerario, petrolifero e forestale che
servono principalmente a garantire profitti alle grandi imprese, calpestando i
diritti delle comunità locali. I governi recenti hanno puntato a rafforzare la
Comisión Federal de Electricidad (CFE) come strumento di sovranità nazionale, ma
al contempo hanno aperto sempre più spazi alle grandi imprese e investitori
esteri, che continuano a esercitare un’influenza decisiva. Nel 2025 il governo
di Sheinbaum vanta il record di investimenti stranieri: 36 miliardi di dollari.
I progetti di energia rinnovabile, spesso promossi come sostenibili, convivono
con centrali fossili e idroelettriche ad alto impatto sociale e ambientale, che
espropriano terre e risorse delle comunità locali. Progetti energetici come la
raffineria di Dos Bocas a Tabasco non mirano tanto allo sviluppo interno, quanto
a fornire energia agli Stati Uniti, rafforzando un modello di subordinazione
economica e geopolitica.
Così sviluppo, estrattivismo e controllo politico si intrecciano, trasformando
risorse naturali e territori in spazi di messa a valore, mentre le popolazioni
locali pagano il prezzo ambientale e sociale.
Progetti come il Tren Maya rappresentano uno specchietto per le allodole:
presentati come iniziative di sviluppo turistico e valorizzazione culturale,
dietro il marketing verde e sostenibile si nasconde un impatto ambientale e
sociale devastanti. La costruzione della ferrovia attraversa ecosistemi fragili,
distruggendo porzioni significative di selva maya e habitat naturali, mettendo a
rischio specie animali e piante endemiche. Allo stesso tempo, le comunità
indigene e rurali lungo il percorso subiscono espropri, pressione economica e
marginalizzazione, senza ricevere veri benefici dal progetto. Su quei binari
viaggiano soprattutto merci, mentre il turismo promesso risponde agli interessi
delle grandi imprese e degli investitori, riducendo territori ricchi di
biodiversità a semplici scenografie per flussi rapidi e superficiali. Così, il
Tren Maya diventa un altro esempio di come il discorso di sviluppo sostenibile
possa mascherare pratiche estrattiviste, neoliberali e di sfruttamento dei
territori e delle popolazioni locali.
Il Corredor Transístmico rappresenta uno dei progetti infrastrutturali più
ambiziosi di questi governi progressisti. Attraversando l’istmo di Tehuantepec,
collega l’Oceano Pacifico con l’Atlantico, posizionando il paese come
alternativa commerciale strategica al canale di Panama. Il progetto integra
porti, ferrovie, strade e zone industriali in un corridoio che trasforma
radicalmente il territorio: vaste aree rurali e indigene sono espropriate, gli
ecosistemi fragili vengono travolti dalla linea ferroviaria di altà velocità e
il paesaggio naturale riscritto per accogliere infrastrutture logistiche e
attività produttive intensive. Dal punto di vista logistico, il corridoio
accelera in maniera vertiginosa i flussi di merci, materie prime e persino
turisti, integrando il Messico in catene globali di commercio e consolidando la
sua funzione di hub regionale a beneficio delle élite e del capitale
internazionale.
Non si tratta solo di Grandi Opere o Mega-progetti, ma di dispositivi
geopolitici di controllo su territorio e popolazione. La trasformazione non è
mai neutra: diventa accumulazione capitalistica e controllo sociale, mentre i
benefici restano simbolici o concentrati in poche mani. I mega-progetti
messicani mostrano così il volto reale di uno sviluppo estrattivista e
politicizzato, dove tutto è subordinato a profitto e potere.
UN’IMMENSA FRONTIERA
Nella logica violenta del riordino territoriale rientra naturalmente anche la
gestione delle frontiere. Il Messico, sotto la pressione costante degli Stati
Uniti, continua, per esempio, ad applicare il Plan Frontera Sur, rilanciato e
inasprito nel 2024 con nuovi fondi statunitensi, droni di sorveglianza e
pattugliamenti congiunti. L’obiettivo dichiarato: contenere le migrazioni prima
che arrivino al confine nordamericano. L’obiettivo reale: esternalizzare il
confine USA fino al Guatemala, trasformando tutto il Messico in una immensa zona
di frontiera. Mentre il governo federale stringe accordi con Washington per
contenere il flusso migratorio, intere regioni diventano zone cuscinetto, dove
la migrazione è gestita come una minaccia militare invece che come una crisi
umanitaria. Il dramma migrante in Messico, infatti, non è solo il risultato di
rotte pericolose o confini militarizzati, ma è il frutto di un sistema che
trasforma la mobilità umana in problema di sicurezza. La migrazione viene
gestita come minaccia, mentre chi fugge da fame, violenza o disastri climatici
si trova intrappolato tra politiche repressive, gruppi criminali e frontiere
invisibili che segnano territori e corpi. Centri di detenzione, pattugliamenti,
accordi internazionali con gli Stati Uniti e controllo tecnologico del
territorio rendono ogni passo del cammino un percorso di costante rischio,
mentre i diritti fondamentali vengono negati e la dignità calpestata. I dati
ufficiali parlano di un flusso verso il nord di circa un milione e mezzo di
migranti all’anno, ma solo nel 2024 questo governo di “sinistra” ha dichiarato
di averne arrestati 925.000.
> Circa 9.000 le denuncie di migranti desaparecid@s, scomparsi, numero
> nettamente inferiore alla realtà, perché ovviamente è estremamente complicato
> per i familiari di un altro Paese realizzare la pratica della denuncia in
> Messico.
La presenza dei cartelli del narcotraffico, poi, lungo le rotte migratorie di
Chiapas, Oaxaca, Veracruz, Tabasco, con percorsi secondari in Guerrero e
Campeche, si intensifica sempre di più: sequestri per estorsione, stupri a fini
di tratta e reclutamento forzato. Desaparecid@s in tutto il Paese. I migranti
sono costretti a lavorare come sicari o come braccianti nei campi di oppiacei o
nei laboratori di metanfetamina, mentre le donne sono trascinate nel girone
infernale della prostituzione forzata e della tratta. La frontiera non è una
linea: è una trappola, un labirinto di checkpoint, milizie, sequestri, fosse
comuni e omertà che pervade il Paese. La migrazione diventa così un altro
laboratorio di sfruttamento, esclusione e violenza, dove lo Stato, le mafie e
gli interessi geopolitici definiscono chi usare, chi può sopravvivere, chi deve
arretrare e chi scompare nell’oblio di rotte invisibili.
Per anni la frontiera nord del Messico è stata il simbolo del dramma, con il
muro che separava famiglie, sogni, vita e morte. Ma anche al sud la violenza era
già presente e oggi si è moltiplicata, trasformando intere regioni in teatri di
guerra silenziosa. Nord e Sud sono ormai scenari di un conflitto che colpisce
migranti e comunità locali, lasciando dietro di sé terre devastate e vite
spezzate: una narco-dittatura, feroce forma di fascismo criminale in America
Latina.
Foto Nodo Solidale
NARCO-STATO: FRAMMENTARE, IMPAURIRE, SORVEGLIARE E PUNIRE
Insomma, questa politica del riordino territoriale che “distrugge e spopola” per
“ricostruire e ripopolare” che è tipica del capitalismo estrattivista globale,
si innesta anche in Messico e lo fa su di un elemento nazionalista: l’uso della
forza dello Stato non solo come strumento di controllo ma anche di gestione
economica. Gli appalti per le grandi opere vengono assegnati alle imprese
costruttrici tramite la SEDENA (Secretaría de Defensa Nacional, il ministero
della Difesa) e custoditi dalle forze militari grazie a un decreto che definisce
questi mega-progetti «territori di rilevanza strategica nazionale».
Con gli ultimi due governi progressisti, l’Esercito messicano ha rafforzato il
proprio peso politico, assumendo funzioni civili e di polizia, fino
all’incorporazione nel 2024 della Guardia Nacional nella SEDENA. Ispirata al
modello dei Carabinieri italiani, la Guardia è nata nel 2019 come corpo
militarizzato alternativo alla corrotta Policia Federal. Oggi conta 130.000
agenti, assorbiti dalle Forze Armate e dispiegati in tutto il paese. In
particolare, sono concentrati lungo la frontiera sud e in quei luoghi
considerati strategici per l’economia nazionale, fungendo sia da barriera per
respingere i migranti in arrivo dal Centroamerica, sia da protezione del
capitale investito nelle grandi opere e nelle attività estrattiviste. In
definitiva, è una mercificazione capitalista dei territori, sostenuta e difesa
dal braccio armato dello Stato: l’Esercito federale. Un’alleanza potente e
spaventosa, soprattutto quando è risaputo – e dimostrato – che in Messico le
forze armate sono complici e socie dei consorzi criminali, specialmente dello
storico cartello di Sinaloa.
Al di là della rappresentazione simbolica che spoliticizza i “narcos” – o
addirittura li rende accattivanti attraverso serie tv e film –, infatti,
crediamo che il fenomeno vada letto come una forma di organizzazione specifica
dell’economia capitalistica neoliberale e globalizzata. Ci azzardiamo a dire che
in molte parti del mondo l’economia criminale sta penetrando nelle relazioni
economiche come un vero e proprio modo di produzione capitalistico, un modo
assolutamente violento, quindi “fascista” in senso ampio. Non è una peculiarità
esclusiva del Messico o dell’America Latina, basti pensare alle mafie europee,
come quella russa, alle organizzazioni camorristiche e ‘ndranghetiste in Italia
capaci di muovere capitali globali, alle “scam cities” asiatiche, alle triadi
cinesi, alla Yakuza giapponese o ai cartelli africani legati ai traffici di
materie prime e migranti.
> Se il profitto economico è il principio cardine della politica contemporanea,
> il crimine organizzato è l’attore perfetto della distopia capitalista: si
> presenta come un imprenditore dotato di capitali inesauribili, capaci di
> scorrere dai mercati sommersi a quelli formali, contaminandoli.
Le sue fonti di ricchezza sono le più estreme forme di mercificazione: i corpi
(con il traffico di organi, la prostituzione, lo sfruttamento dei migranti), le
armi, le droghe e tutto ciò che può generare valore di scambio. La mano d’opera
quasi schiavizzata, tra precarietà assoluta e negazione di ogni diritto
lavorativo, permette inoltre l’immpennata della curva del plusvalore,
accelerando l’accumulazione di ricchezza. Oltre a questa presenza attiva nel
mercato, il crimine organizzato, che nei fatti si fa socio della classe politica
che corrompe e protegge, rappresenta anche il “nemico perfetto” nel discorso
pubblico dei governi perché si consolida come il pretesto inoppugnabile per
incentivare le spese militari, estendere la militarizzazione, aumentare gli
effettivi di polizia, affinare le forme di tecno-controllo sulla popolazione,
che, di fronte alla reale e spietata violenza di questi consorzi mafiosi, spesso
applaude addirittura le politiche securitarie e repressive. Così che l’applauso
del popolo e la narrativa delle istituzioni distolgono l’attenzione da un fatto
socialmente comprovato: il crimine organizzato è parte viva e integrante tanto
dell’apparato economico, amministrativo e repressivo come del suo tessuto
sociale. È un elemento fondamentale e attivo dell’economia attuale di un Paese
come il Messico, solo per rimanere nell’esempio di cui stiamo parlando. È una
struttura fluida e diffusa che pervade imprese e istituzioni.
Infine il crimine organizzato offre allo Stato la possibilità di una repressione
in “outsorcing”: fuori dai corpi armati ufficiali del potere, le bande di
criminali diventano, infatti, i mercenari e i paramilitari contemporanei che,
mentre generano terrore nella popolazione per sottometterla alle proprie
necessità economiche, eliminano selettivamente chiunque si opponga o denunci
queste convivenze criminali. Giornalist*, compagn*, attivist* sociali,
ambientalisti, madres buscadoras, leader indigeni o comunitari, vengono tutt*
falciati dalle smitragliate dei “narcos” o fatti sparire, mentre i governi,
anche quelli progressisti, se ne lavano le mani, giocando ad accusare la
criminalità “narco” di questi tristi, interminabili e sempre impuniti delitti.
> In Messico, questa guerra invisibile e “democratica” va avanti dal 2006, dalla
> cosiddetta “guerra al narcos” di Felipe Calderón fino al 2025, ha già prodotto
> 532.609 morti, di cui almeno 250.000 sotto i governi progressisti di López
> Obrador e Sheinbaum. Parallelamente, 123.808 persone
> risultano desaparecidas (dato ufficiale al 13 marzo 2025), quasi 50.000 negli
> ultimi sei anni.
La tragedia avviata dalle destre non si è fermata con il progressismo: si è
moltiplicata. Tutti i governi, senza distinzione ideologica, hanno le mani
sporche di sangue.
È da più di quindici anni che, come collettivo, ci uniamo a quella parte della
società civile organizzata che denuncia questa guerra negata, manipolata o
romanticizzata, per esempio, lo ripetiamo, nelle serie televisive dedicate al
narcos. Si tratta invece di una guerra e di un modello eminentemente
capitalista, che accumula enormi ricchezze attraverso il traffico di merci, armi
e corpi. Quelli dei migranti, delle donne e dei bambini rapiti, dei giovani
attratti da offerte di lavoro ingannevoli e arruolati a forza. Corpi torturati,
smembrati, sciolti nell’acido, ridotti a niente. È la fabbrica del terrore, la
necro-produttività capitalista.
La repressione e il terrore, in questo contesto, non sono più diretti solo
contro guerriglieri o attivisti, ma diventano una forma di governance flessibile
e spietata: un dispositivo che disciplina territori e popolazioni, che difende
il capitale e normalizza l’orrore. Questo meccanismo, oltre a reificare e
mercificare tutto, persone, corpi, spazi e tempi di vita, ha anche un ruolo
ideologico decisivo: spoliticizzare la lotta di classe, trasformare la
resistenza in “criminalità”, oscurare il saccheggio dietro la retorica della
sicurezza.
Si potrebbe pensare, ironicamente, che «almeno non piovono le bombe dal cielo»,
che il Messico non sia come la Palestina, la Siria, il Kurdistan, il Sudan o
l’Ucraina. Eppure il numero delle vittime è paragonabile, a volte persino
superiore. Non è una guerra simmetrica tra eserciti, né la classica guerra
asimmetrica tra Stato e nemico interno.
Il Messico è quindi il laboratorio di una nuova forma di conflitto: una guerra
di frammentazione territoriale. Le aree più colpite sono le periferie rurali e
semi-rurali, ma anche città e metropoli subiscono gli effetti di questa guerra
fatta di micro-conflitti ad altissima intensità di fuoco, disseminati e
invisibili, che devastano la vita civile, condotta da una moltitudine di attori
armati come cartelli, paramilitari, bande giovanili, forze speciali di polizia
come i Pakales, esercito federale, Guardia Nacional e gruppi di autodifesa più o
meno legittimi che si contendono territori e mercati. Ripetiamo: Stato e crimine
non sono blocchi contrapposti e monolitici, ma componenti fluidi di un vasto
mercato condiviso, dove politici, giudici, militari, narcos e imprenditori si
intrecciano in una feroce lotta per risorse, corpi, territori e flussi
economici.
In Chiapas, dove vari compagn* del nostro collettivo vivono, il sud profondo del
Paese, la situazione è esplosiva. Si contano 15,000 “desplazados“, sfollati di
intere comunità indigene e contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a
causa dell’intensificarsi dei conflitti armati, con il cartello di Sinaloa e
Jalisco Nueva Generación che si intrecciano a forze di sicurezza e paramilitari.
Solo in questi primi sei mesi del 2025 sono state scoperte 27 fosse comuni
clandestine nella zona a ridosso la frontiera. In varie aree, lo Stato si
ritira. In altre, convive o subappalta al crimine organizzato la gestione
della res publica come l’elezione pilotata dei sindaci (o la loro soppressione),
la riscossione delle “tasse” o il pizzo, la gestione delle licenze,
l’imposizione di orari di coprifuoco. Altrove, lo Stato reprime. Sparizioni
forzate, imboscate e sparatorie in pieno giorno, femminicidi come pratica
sistematica, villaggi rasi al suolo e fosse comuni clandestine sono l’orrore
quotidiano di questa guerra di frammentazione territoriale, dove ogni metro
quadrato del Chiapas sembra ardere per un conflitto diverso, per il
moltiplicarsi degli attori armati in gioco. E non si sa mai bene chi è stato,
perché il nemico è ovunque, volutamente spoliticizzato, cangiante, feroce.
Resta dunque una domanda cruciale: Come ci si scontra con le mafie quando queste
governano? Come ci si ribella a un nemico politicamente impalpabile? Non a un
esercito in uniforme, ma a una moltitudine camaleontica di imprenditori della
violenza, senza regole, senza etica, senza patto sociale. Contro chi dirigere la
rabbia sociale? A chi chiedere giustizia? Questa è la potenza terribile del
dispositivo: rendere la rivolta quasi impossibile.
Eppure, nonostante tutto, comunità e movimenti continuano a resistere, a
costruire autonomia, isole di speranza nel mare infuocato di questa guerra
anomala. Nella selva del Chiapas, sulle coste del Pacifico, nelle periferie
delle megalopoli, negli assolati deserti del nord decine di collettivi,
organizzazioni popolari, comunità indigene costruiscono spazi di speranza,
mantenendo una fiammella accesa in questa terribile oscurità… con il sogno di
veder bruciare un giorno i palazzi del potere e costruire sulle loro macerie un
mondo più umano.
Immagine di copertina di Nodo Solidale, manifestazione a Città del Messico
Articolo pubblicato originariamente sul blog Nodo Solidale
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