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Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile – seconda parte
Nel pomeriggio di sabato 5 luglio, a partire dalle 15, il collettivo Stop Riarmo ha organizzato un pomeriggio di eventi presso il parco del Valentino. L’evento principale è il convegno “Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile”, cominciato alle ore 16. Come indicato nell’intervento introduttivo l’obiettivo del convegno è un’analisi del clima bellico in cui ci troviamo a vivere con un particolare sguardo su Torino che in questo panorama ha un ruolo fondamentale: da una parte abbiamo le aziende belliche come Leonardo, Collins e  Thales che stanno aumentando il proprio fatturato e dall’altra parte abbiamo attori fondamentali come il Politecnico di Torino ed Intesa San Paolo che si legano sempre di più alla filiera bellica attraverso investimenti e collaborazioni contribuendo alla riconversione di Torino da città dell’Automotive a città dell’Aerospace. La guerra è sempre più vicina, lo si nota nei tagli alla ricerca universitaria ed alla sanità pubblica, nella militarizzazione dei territori e delle scuole, nella riconversione delle aziende che è sempre di più asservita alle logiche della guerra. Il convegno è organizzato in due panel: il primo consente una panoramica della situazione attuale e delle tendenze ed è stato descritto in questo articolo. Il secondo è dedicato alle testimonianze di attività dal basso e sarà oggetto di questo articolo. Si sono susseguiti il racconto delle esperienze dell’Intifada studentesca, del convoglio Soumoud, del Gruppo autonomo dei portuali di Livorno e del Movimento no base. Mariangela dell’Intifada studentesca spiega che l’attività del collettivo al Politecnico ha l’obiettivo di contrastare gli interessi israeliani attraverso il boicottaggio accademico ed il sapere dal basso. Vittoria ha parlato della sua esperienza alla Global March to Gaza che è stata bloccata dalle forze dell’ordine egiziane, ma soprattutto del convoglio Soumoud, partito dalla Tunisia e bloccato in Libia. Nel convoglio c’erano cinquemila persone che hanno costituito un fronte multi-politico, multireligioso e multigenerazionale. Il Gruppo autonomo dei portuali di Livorno considera fondamentale che ogni forma di lotta sia collegata. Quello che consente al meccanismo della guerra di funzionare non sono solo le armi, ma anche tutta la logistica necessaria al funzionamento dei vari fronti di guerra: generatori, rifornimenti, mezzi di trasporto, ricambi ecc. Dal porto di Livorno passa tanta merce per Camp Darby[1] eludendo la legge 185/90; in alcuni casi si è potuto intervenire attraverso lo sciopero sfruttando i pericoli per la sicurezza di lavoratori e cittadinanza, con i lavoratori in sciopero che sostituisco dal basso gli organismo di controllo che non si occupano del loro compito istituzionale di far rispettare la legge e proteggere i cittadini. In altri casi è sufficiente mettere in evidenza il traffico d’armi; chi si occupa di questo traffico non vuole che sia reso pubblico. I portuali di Marsiglia hanno utilizzato una strategia diversa, quella di bloccare con lo sciopero la nave cargo che trasportava munizioni intimando all’armatore di scaricarle; l’armatore, che trasportava altra merce ed aveva stringenti vincoli di consegna, ha scaricato rapidamente il carico incriminato per poter proseguire il viaggio. Noi portuali possiamo fare questo tipo di azioni perché siamo dentro i porti, ma abbiamo bisogno di aiuto per raccogliere le informazioni e seguire i carichi che viaggiano per i porti d’Europa; a questo scopo è fondamentale il lavoro di organizzazioni come WeaponWatch. Presto sarà disponibile un vademecum per consentire a chiunque di aiutarci in questo lavoro informativo e creare una rete per rallentare la logistica della guerra. Il Movimento No Base contrasta il progetto di una nuova base militare a Coltano (Pisa) all’interno del Parco di San Rossore al posto dell’ex base militare CISAM che contiene al suo interno anche un reattore nucleare dismesso. Il territorio è già ampliamente militarizzato perché ospita Camp Darby, le basi della Folgore, l’aeroporto militare, uffici e fabbriche di Leonardo e la ferrovia del Tombolo usata per trasportare le munizioni per Camp Darby. La basa dovrebbe ospitare due reparti speciali dei carabinieri, il GIS (Gruppi di intervento speciale) ed il Reggimento Tuscania che operano sull’area del Mediterraneo allargato. L’obiettivo del movimento è quello di bloccare il progetto e definire delle alternative dal basso alla militarizzazione del territorio. [1] Camp Darby è una base militare dell’Esercito Italiano, dove sono stanziate e operano unità militari statunitensi, situata nella Tenuta di Tombolo del comune di Pisa. La base, chiamata in precedenza USAG Livorno, è stata riorganizzata come sito satellite dello United States Army Garrison (USAG) Italy, che ha la sua sede centrale a Vicenza, e rinominata dal 3 ottobre 2015 Darby Military Community (DMC), la quale include lo stesso Camp Darby, il deposito di Livorno e il deposito munizioni di Pisa dello United States Army. (fonte Wikipedia) Giorgio Mancuso
Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile – prima parte
Nel pomeriggio di sabato 5 luglio, a partire dalle 15, il collettivo Stop Riarmo ha organizzato un pomeriggio di eventi presso il parco del Valentino. L’evento principale è il convegno “Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile”, cominciato alle ore 16. Come indicato nell’intervento introduttivo l’obiettivo del convegno è un’analisi del clima bellico in cui ci troviamo a vivere con un particolare sguardo su Torino che in questo panorama ha un ruolo fondamentale: da una parte abbiamo le aziende belliche come Leonardo, Collins e  Thales che stanno aumentando il proprio fatturato e dall’altra parte abbiamo attori fondamentali come il Politecnico di Torino ed Intesa San Paolo che si legano sempre di più alla filiera bellica attraverso investimenti e collaborazioni contribuendo alla riconversione di Torino da città dell’Automotive a città dell’Aerospace. La guerra è sempre più vicina, lo si nota nei tagli alla ricerca universitaria ed alla sanità pubblica, nella militarizzazione dei territori e delle scuole, nella riconversione delle aziende che è sempre di più asservita alle logiche della guerra. Il convegno è organizzato in due panel: il primo consente una panoramica della situazione attuale e delle tendenze. Il secondo è dedicato alle testimonianze di attività dal basso e sarà oggetto di un altro articolo. Nel suo intervento, Michele Lancione, professore del Politecnico di Torino, suggerisce di guardare alle università israeliane e statunitensi per avere un’idea delle conseguenze e dei pericoli della collaborazione tra le università ed il complesso militare industriale; l’università perde in questi casi la fondamentale funzione di luogo del dibattito pubblico diventando un tutt’uno con il complesso militare industriale. Ad esempio, nessuna università israeliana ha preso una posizione pubblica sul genocidio a Gaza ed esistono liste di prescrizione ovvero elenchi di accademici che non possono essere invitati a tenere lezioni; anche le università statunitensi hanno, di recente, incontrato problemi a prendere posizione su questi temi. Le università italiane non sono ancora a questo stadio di compromissione con l’industria militare, ma è abbastanza chiaro che è in atto un processo in questa direzione come si può vedere nel caso del Politecnico di Torino. La causa principale dell’avvicinamento dell’industria militare all’università è la carenza dei fondi per la ricerca che spinge gli atenei a cercare fondi presso altri enti con grosse disponibilità finanziarie: fondazioni bancarie, industrie estrattive e, appunto, industria militare. Nello specifico, più l’industria militare entra nelle università più cambia l’assetto di quest’ultime e si cancella il pensiero critico; considerando dei casi specifici, FRONTEX non ha bisogno di collaborare con il Politecnico di Torino per ottenere le mappe di cui ha bisogno, ma gli è utile per questioni di immagine che quelle mappe escano con il logo del Politecnico di Torino. Il Politecnico di Torino cerca validazione collaborando con Leonardo S.p.A perché, nel suo progettare e costruire sistemi d’arma, rappresenta la punta tecnologica più avanzata; Leonardo S.p.A cerca la collaborazione del Politenico per fare washing culturale (tecno washing). Questo “abbraccio mortale” è inaccettabile perché l’università ha una valenza sociale, deve mantenere ed alimentare il pensiero critico, la possibilità di mettere in discussione quello che gli enti finanziatori fanno in giro per il mondo. Il tutto si inserisce in una crisi profonda di identità della nostra università: in una recente intervista a Repubblica, Il Rettore ha dichiarato che il Politecnico di Torino è pronto per ricevere i fondi di RearmEU. Questa dichiarazione è una novità assoluta: benché il Politecnico abbia sempre ricevuto finanziamenti dall’industria militare, mai questi finanziamenti sono stati dichiarati in maniera così esplicita. Ci sono poi le recenti modifiche al regolamento per l’etica e l’integrità della ricerca del Politecnico in cui al dettato costituzionale del ripudio della guerra è stata aggiunta un’eccezione riguardante la ricerca relativa alla difesa della patria, aprendo enormi possibilità a qualsiasi ricerca militare. Gianni Alioti dell’osservatorio Weapon Watch, analizza la questione dal punto di vista della logistica relativa alla movimentazione dei sistemi d’arma e dei sistemi che ne consentono il funzionamento. Gran parte delle armi utilizzate nei vari conflitti attivi viaggiano via mare e vengono caricate e scaricate anche nei porti italiani; in quest’ultimo caso spesso non si rispetta la legislazione italiana in merito.  Gli scioperi indetti dai lavoratori portuali per impedire di processare i carichi militari rappresentano un tentativo della base sociale di far rispettare la legge dal momento che gli organismi preposti a questo compito (Questura, forze dell’ordine, guarda costiera, finanza) più che far rispettare la legge 185/90 si preoccupano che le merci vengano processate. Weapon Watch nasce per dare supporto alla lotta dei portuali, che necessita di organizzazione e di informazioni per essere efficace, perché dal basso si può controllare la logistica della guerra mettendo sabbia negli ingranaggi di un’organizzazione complessa. Susanna di ReCommon concentra il suo intervento sull’aspetto finanziario dell’industria militare, in particolare sul ruolo di Intesa San Paolo che ha a Torino la sua sede principale. Intesa San Paolo è la più grande banca italiana, la più grande banca europea per capitalizzazione e tra le prime cinquanta banche mondiali; si tratta di una banca molto coinvolta con il finanziamento dell’industria militare, grande finanziatrice di Leonardo, ed il suo coinvolgimento con il settore è aumentato del 52% nel 2022 subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Dalla Relazione Annuale del Senato sulle operazioni svolte per il controllo delle importazioni ed esportazione d’armi risulta che nel 2024 Intesa San Paolo ha gestito transazioni per 1,6 Miliardi di euro (dei 12 Miliardi in totale) con un impegno che si è mantenuto ai livelli degli anni precedenti. Per quanto riguarda il finanziamento ai settori militari ed aerospaziali nel periodo 2016-2024, l’esposizione finanziaria di Intesa san Paolo è stata di quasi 2,5 miliardi di dollari. L’anello finanziario è fondamentale per l’industria bellica ed il mantenimento dei conflitti, tanto da essere citato nell’ultima relazione di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati; malgrado i regolamenti etici molte istituzioni finanziarie (banche, fondi di investimento, fondi pensione ecc.) stanno finanziando l’industria bellica, quando non direttamente gli stati coinvolti in guerre. Terry Silvestrini è intervenuta a nome dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. La guerra ha bisogno del consenso della popolazione e del suo ingaggio, ha bisogno della propaganda, che è già guerra; da qui l’interesse degli ambienti militari verso la scuola. I ministeri della Difesa e dell’Istruzione e del Merito hanno in atto diversi protocolli di collaborazione, innanzitutto per facilitare il reclutamento, inserendosi nei percorsi di orientamento al lavoro degli ultimi anni della scuola superiore. In questi percorsi di orientamento la carriera militare vien presentata come una scelta “smart” in grado di consentire la piena realizzazione delle proprie aspirazioni e soprattutto in grado di garantire un lavoro. L’Osservatorio lavora proprio nell’ottica di evidenziare e decostruire questa narrazione, per una scuola che educhi alla pace ed alla convivenza e non contribuisca a normalizzare il clima di guerra. Eleonora Artesio del Comitato per il Diritto alla Tutela della Salute e alle Cure sposta al punto di vista sul Servizio Sanitario Nazionale[1], uno dei servizi colpiti dall’aumento delle risorse militari al 5% del PIL. Il SSN italiano è concepito come uno dei più moderni e completi a livello mondiale, non a caso è nato su spinta di un grande movimento popolare. Questa modernità è espressa dalla sua forma universale: è un diritto della persona, non del cittadino o del contribuente. La narrazione dominante racconta che non possiamo permetterci un sistema sanitario di queto tipo, ma la realtà è la progressiva riduzione delle risorse previste in termini di percentuali del PIL che lo sta distruggendo alla radice. La difesa del SSN diventa quindi un’altra battaglia culturale e sociale fondamentale anche per scegliere come usare le risorse e bloccare il riarmo.     [1] Si parla di Servizio Sanitario Nazionale usando il termine usato nella legge 833/78 che lo istituì perché il servizio è prioritario sul sistema che lo deve garantire Giorgio Mancuso