Israele. Il grido muto dei bambini di Gaza: «Piloti, non sganciate più bombe»
Si muovono all’unisono: un organismo compatto formato da una cinquantina di
individui. Giunti sul ciglio della strada che conduce al cancello di Tel Nof si
dispongono ordinati, uno accanto all’altro. Insieme, con un’unica, repentina,
rotazione delle braccia, sollevano le gigantografie che hanno portato senza
proferire una parola. I corpi si trasformano in altrettanti pannelli espositivi
per i volti di Ahlan, Maron, Firas, Jowan e alcuni dei circa 2mila bimbi di Gaza
– secondo le stime del locale Ministero della Sanità – uccisi dalla fine
dell’ultimo cessate il fuoco, lo scorso 18 marzo. Nel silenzio in cui si svolge
la dimostrazione, sono gli occhi di questi piccoli a denunciare, a gridare, a
interpellare. A domandare perché.
Perché donne e uomini hanno sganciato la bomba da cui sono stati dilaniati. Non
lo chiedono – con la loro presenza muta – al governo israeliano, al comando
militare, all’esercito, alla leadership di Hamas in Qatar o nella Striscia.
Interrogano le persone incaricate di premere il pulsante da cui è dipesa la loro
morte: i piloti della base a pochi passi, la Airforce 8, la più antica del
Paese, situata a cinque chilometri a sud di Rehovot e a una ventina da Tel Aviv.
È la prima volta che l’iniziativa, volutamente senza nome, riprende dalla
“Guerra dei dodici giorni” con l’Iran.
«Speriamo sia un ritorno di breve durata», racconta Yali Marom, tra le
promotrici. Una nuova tregua si profila finalmente all’orizzonte. Per tantissimi
bambini della Striscia arriverà, comunque, troppo tardi. «Per quale ragione non
smettere già ora di premere il pulsante letale?», prosegue l’attivista che, da
ventuno mesi, dall’appartamento di Rehovot, sente il rombo sinistro degli aerei
sulla sua testa. «Ad ogni passaggio, le pareti di casa tremano La ripresa
dell’offensiva israeliana , dopo la prima tregua di 4 mesi fa, mi ha fatto
capire che dovevo smettere di gridare al cielo “basta” e fare qualcosa. Ho
parlato con alcuni amici. Siamo consapevoli dell’impossibilità di convincere
Benjamin Netanyahu per il quale la sopravvivenza politica conta più della vita
degli ostaggi, dei militari, dei palestinesi. Abbiamo, però, fiducia
nell’umanità dei nostri connazionali di Tel Nof che possono decidere di fare la
cosa giusta».
Più che una protesta, quello che da oltre tre mesi, una volta alla settimana,
davanti alle installazioni dell’aeronautica di Rehovot o Hatzor o Palmachim – è
un dialogo silenzioso. Intavolato da pacifisti storici come da cittadini mai
scesi in piazza prima d’ora. Non si tratta di una vera e proprio organizzazione.
È un sentire comune che si fa azione grazie al passaparola. Ad Ayala l’ha
suggerito l’amica Moria. A quest’ultima ne ha parlato il compagno. Iris è venuta
una prima volta senza sapere bene che cosa aspettarsi. Ed è tornata. Lo stesso
ha fatto Michal nonostante i suoi 77 anni. I pionieri fissano ora, giorno –
tutte le volte diverso – e punto di ritrovo su Signal per questioni di
sicurezza. Dimostrare all’esterno dei compound militari non è illegale.
Nel clima di tensione bellica, però, la cautela è d’obbligo. Per questo, la
mobilitazione è preceduta da un briefing in cui si ripassano le regole di
“ingaggio”: stare uniti, non cedere a eventuali provocazioni, non ribattere,
prepararsi a “scenari sfavorevoli” ovvero l’arresto o un pestaggio da parte di
qualche fanatico. Stavolta si incontrano in un luogo neutro della Road 40:
l’incrocio tra Bilu e Gedera, nel tardo pomeriggio. Da là guidano in corteo, per
una decina di minuti, fino a Tel Nof. Per molti militari, quell’orario coincide
con la fine del turno. Le loro auto rallentano mentre costeggiano la sequenza di
foto rette raccolte pazientemente, a partire dal 7 ottobre, insieme ai nomi e a
frammenti di storie, dall’artista e attivista Adi Argovi con il progetto
“Forcibly involved”, “coinvolti per forza”.
Qualcuno getta un’occhiata fugace, fa un video con il telefono, mormora
un’imprecazione, scaglia un insulto o uno sputo. «Siete una vergogna, state
devastando il Paese. Il massacro del 7 ottobre è tutta colpa vostra», urlano tre
giovani soldatesse. Nessuno si scompone: Sapir si avvicina per parlare, con tono
pacato, alle ragazze. «Non ce l’abbiamo con i militari, né li giudichiamo. La
presa di coscienza richiede tempo. Spieghiamo e aspettiamo: stavolta molti hanno
preso i nostri volantini. Magari li leggeranno. Magari troveranno il coraggio di
compiere un atto di autentico eroismo e si fermeranno», afferma. Un pilota, nel
frattempo, si arrampica sul tettuccio di una vettura e sventola senza sosta una
bandiera israeliana.
Trascorrono 35 minuti prima dell’arrivo di due pattuglie della polizia. «In
teoria non possono fare niente. In pratica… L’ultima volta ci hanno multati per
aver attraversato la carreggiata fuori dalle strisce pedonali», dice, non senza
ironia Ayala. Stavolta va bene: la dimostrazione procede per quasi un’ora.
Quando la tensione inizia a salire e i miliziani dell’ultradestra ad avvicinarci
minacciosi, la catena umana si scioglie e il gruppo si disperde in fretta.
Torneranno. Fino a quando qualcuno non cesserà il fuoco».
Ripubblicazione autorizzata dall’autrice
Redazione Italia