Riflessioni sul Capodanno Andino
“CIÒ CHE ACCADE NELLA NOTTE DEL SOLSTIZIO D’INVERNO AUSTRALE RIGUARDA IL
SIGNIFICATO DELLA MATRICE CULTURALE ANDINO-AMAZZONICA IN CUI TUTTO CIÒ CHE
ESISTE NEL ‘PACHA’ (UNIVERSO) HA VITA. SIAMO TUTTI PARTE DI ESSO, SIAMO TUTTI
SOGGETTI E TUTTO È IN RELAZIONE CON TUTTO”.
La messa in scena dell’Inti Raymi (Festa del Sole) di Cusco si svolge ogni 24
giugno dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso. A quanto pare, i promotori
del festival hanno combinato la ricorrenza del solstizio d’inverno australe con
la festa cattolica di San Giovanni Battista. Lo segnalo perché nel 1621 Ramos
Gavilán (1), tra gli altri cronisti, afferma che “Questa festa di Intirayme si
celebrava quasi contemporaneamente a quella del Corpus Christi”.
Tuttavia, negli ultimi decenni, a Puno e anche in Bolivia, ogni 21 giugno, data
del solstizio d’inverno nell’emisfero sud, è diventato consuetudine celebrare il
“Capodanno Andino”. Esaminiamo la sua coerenza ontologica per determinare se
questo nuovo significato gli corrisponde o se si tratta di una folclorizzazione
del rituale.
Il tempo nel senso andino della vita è ciclico, come sottolineato da diversi
studiosi; Estermann (2006), nel suo lavoro sulla “Filosofia andina”, si
riferisce ad esso come a un presente permanente perché avviene in un
“tempo-spazio” espresso con un unico termine “Pacha”. Nella lingua, sia quechua
che aymara, la semplificazione di “futuro” è espressa anche come “presente
progressivo” e si posiziona grammaticalmente dietro i nostri occhi, perché il
futuro “non si vede” ed è dal passato, che si posiziona davanti ai nostri occhi,
che dobbiamo imparare. Questo orizzonte di senso configura una razionalità
diversa da quella del tempo lineare della cultura egemonica
(occidentale-moderna).
Allo stesso modo, sulla base di questa razionalità andina, molti pensatori
ritengono che la cultura andina, come tante altre culture indigene, sia una
cultura della vita.
La vita, nel caso andino, ha due momenti: uno fertile e l’altro sterile, che per
analogia si possono identificare con il ciclo agricolo nella sua stagione estiva
(piovosa e rigogliosa) e nella sua stagione invernale (secca e fredda). La morte
è solo un intervallo di transito tra questi due momenti. Come si può vedere, la
differenziazione tra le due vite, nell’orizzonte di senso andino, è funzionale
al loro ciclo produttivo.
Un’altra differenza ontologica da considerare è la nostra posizione in quanto
soggetto sociale. Nell’orizzonte andino, il soggetto è collettivo. Siamo nella
misura in cui facciamo parte o apparteniamo a una comunità, ayllu, villaggio,
nazione. La nascita che dà origine a questa appartenenza è il momento in cui si
forma la coppia che permetterà la continuità della vita e la sostenibilità del
collettivo. La parità (2) è il nucleo di base della relazione e configura i
principi etici della reciprocità, della corrispondenza, della complementarietà.
La relazione è sacra, è curata religiosamente attraverso questi principi.
Per l’antropocentrismo, ontologicamente situato nella cultura dominante
(“occidentale moderna”), l’essere, l’individuo, l’io, l’ego, è il nucleo
centrale. Pertanto, la nascita di un nuovo individuo è estremamente importante.
Diversi pensatori critici hanno dimostrato l’incongruenza di questa
configurazione della cultura. La più evidente è che essendo l’essere umano parte
di una specie gregaria, la cui caratteristica biologica è che l’individuo da
solo non può esistere, il suo orizzonte di senso si riduce all’essere umano come
centro dell’esistenza, aggravato dalla modernità, perché il centro è maschile.
Questo comporta come conseguenza, per la sopravvivenza della specie, la
cosificazione della donna.
Vediamo chiaramente che la “nascita” ha significati diversi a seconda del
“nostro luogo di enunciazione” e la riflessione ruota attorno alla questione se
continuare a considerare il 21 giugno, giorno del solstizio d’inverno, freddo,
secco, “sterile”, come il “capodanno andino” perché il “sole sta nascendo” o se
dobbiamo rivendicare il solstizio d’estate, caldo, piovoso e fertile, come
”capodanno andino“. Nella traduzione in quest’ultima data i chiwchis/coros
(infanti in quechua/aymara) avendo raggiunto lo stadio di adolescenti maschili o
femminili diventano, una volta formata la coppia (chacha/warmi), runa/jaqi
(parte del soggetto collettivo: comunità, ayllu, popolo, nazione).
Probabilmente, con l’imposizione del cristianesimo, i rituali del solstizio
d’estate nel mondo andino (21 dicembre, nel nostro emisfero) sono stati
sostituiti dalla “nascita del figlio di Dio” (Pasqua, Natale) e la
colonizzazione ha imposto il calendario gregoriano, quello che ci governa oggi.
Ho lavorato per diversi anni con le comunità contadine della zona aymara. Uno
dei compiti degli awki e degli achachila (autorità naturali) era quello di
salire sulla collina verso la mezzanotte del 20 giugno per l’incontro con il
jawira (fiume di stelle) che, in quella data, mostra tutto il suo splendore e si
possono apprezzare le costellazioni. Durante l’alba del 21, conversando con le
stelle, chiedevano ciò che dovevano sapere per la loro annata agricola (se
sarebbe stata un’annata precoce o tardiva, piovosa o secca, quando avrebbero
dovuto seminare le patate, la quinoa, se ci sarebbero state grandinate e quando,
ecc.). Queste rispondevano attraverso il loro linguaggio del colore (rossastro,
bluastro), della luminosità (intensa, tremolante, opaca) e del momento della
notte o dell’alba. Aspettavano il sorgere del sole perché era l’ultima stella ad
apparire ed era loro dovere salutarlo e anche ascoltarlo.
Con ogni probabilità – non l’ho percepito in quel momento – il rituale era
eseguito dalle autorità prima di salire sulla collina, affinché l’incontro e la
conversazione con le stelle onorassero e rafforzassero la loro relazione.
Ciò che accade tra la notte del 20 giugno e il primo mattino del 21 sarebbe
coerente con il senso della loro matrice culturale (andino-amazzonica) in cui
tutto ciò che esiste nel “Pacha” (universo) ha vita. Ne facciamo tutti parte,
siamo tutti soggetti e tutto è in relazione con tutto (3).
NOTE:
(1) Ramos Gavilán, Alonso. HISTORIA DEL SANTUARIO DE NUESTRA SEÑORA DE
COPACABANA. Lima, Perú: Ignacio PRADO PASTOR. Editore, 1988. 618 [147-157] Pp.
In: https://www.casadelcorregidor.pe/d-interes/_biblio_Ramos-Gavilan.php
(2) Si parla anche di “dualità” perché è l’insieme di due unità necessarie per
stabilire una relazione.
(3) Pino J. Ana M. e Riquelme M. Ivar R. “Coexistencia en ‘sociedades
paralelas’. Una búsqueda para su diálogo con-vivencial”. In: Pluralidades.
Revista para el diálogo intercultural. Vol. 4. Puno, Perù, 2015. Pp. 25-55.
(https://www.pluralidades.casadelcorregidor.pe/pluralidades_4/Pino-Riquel…)
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L’autrice: Ana María Pino Jordán è ingegnere zootecnico dell’ “Universidad
Nacional Agraria La Molina” in Perù, con oltre 25 anni di esperienza di lavoro
con i contadini. Attualmente è promotrice culturale, intellettuale, accademica
ed editorialista. Ha conseguito un diploma in Interculturalismo presso l’
“Instituto Ética y Desarrollo de la Universidad Antonio Ruiz de Montoya”. Membro
del “Consiglio di Ricerca del Instituto de Estudios de las Culturas Andinas
(IDECA)”. Promotrice della “Biblioteca Casa del Corregidor” e membro del “Gruppo
Pluralidades (Puno)”, che pubblica l’omonima rivista. Email:
promotora@casadelcorregidor.pe
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Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.
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