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Enshittification: il progressivo degrado delle piattaforme digitali
Immagine in evidenza: rielaborazione della copertina di Enshittification di Cory Doctorow Da alcuni anni conosciamo il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”: un modello economico basato sull’estrazione, controllo e vendita dei dati personali raccolti sulle piattaforme tecnologiche. Lo ha teorizzato Shoshana Zuboff nel 2019 in un libro necessario per comprendere come Meta, Amazon, Google, Apple e gli altri colossi tech abbiano costruito un potere senza precedenti, capace di influenzare non solo il mercato e i comportamenti degli utenti, ma anche, tramite il lobbying, le azioni dei decisori pubblici di tutto il mondo. L’idea che queste grandi piattaforme abbiano sviluppato una sorta di potere sulle persone tramite la sorveglianza commerciale, com’è stata teorizzata da Zuboff, è però un mito che è il momento di sfatare. Così almeno la pensa Cory Doctorow, giornalista e scrittore canadese che negli ultimi anni ha pubblicato due libri particolarmente illuminanti sul tema.  In “Come distruggere il capitalismo della sorveglianza”, uscito nel 2024 ed edito da Mimesis, Doctorow spiega come molti critici abbiano ceduto a quella che il professore del College of Liberal Arts and Human Science Lee Vinsel ha definito “criti-hype”: l’abitudine di criticare le affermazioni degli avversari senza prima verificarne la veridicità, contribuendo così involontariamente a confermare la loro stessa narrazione. In questo caso, in soldoni, il mito da contestare è proprio quello di poter “controllare” le persone per vendergli pubblicità.  “Penso che l’ipotesi del capitalismo della sorveglianza sia profondamente sbagliata, perché rigetta il fatto che le aziende ci controllino attraverso il monopolio, e non attraverso la mente”, spiega Doctorow a Guerre di Rete. Il giornalista fa l’esempio di uno dei più famosi CEO delle Big Tech, Mark Zuckerberg: “A maggio, Zuckerberg ha rivelato agli investitori che intende recuperare le decine di miliardi che sta spendendo nell’AI usandola per creare pubblicità in grado di aggirare le nostre capacità critiche, e quindi convincere chiunque ad acquistare qualsiasi cosa. Una sorta di controllo mentale basato sull’AI e affittato agli inserzionisti”.  Effettivamente, viste le perdite che caratterizzano il settore dell’intelligenza artificiale – e nel caso di Meta visto anche il fallimento di quel progetto chiamato metaverso, ormai così lontano da non essere più ricordato da nessuno – è notevole che Zuckerberg sia ancora in grado di ispirare fiducia negli investitori. E di vendergli l’idea di essere un mago che, con cappello in testa e bacchetta magica in mano, è in grado di ipnotizzarci tutti. “Né Rasputin [il mistico russo, cui erano attribuito poteri persuasivi, ndr] né il progetto MK-Ultra [un progetto della CIA per manipolare gli stati mentali negli interrogatori, ndr] hanno mai veramente perfezionato il potere mentale, erano dei bugiardi che mentivano a sé stessi o agli altri. O entrambe le cose”, dice Doctorow. “D’altronde, ogni venditore di tecnologia pubblicitaria che incontri un dirigente pubblicitario sfonda una porta aperta: gli inserzionisti vogliono disperatamente credere che tu possa controllare la mente delle persone”.  IL CARO VECCHIO MONOPOLIO Alla radice delle azioni predatorie delle grandi piattaforme, però, non ci sarebbe il controllo mentale, bensì le pratiche monopolistiche, combinate con la riduzione della qualità dei servizi per i miliardi di utenti che li usano. Quest’ultimo è il concetto di enshittification, coniato dallo stesso Doctorow e che dà il nome al suo saggio appena uscito negli Stati Uniti. Un processo che vede le piattaforme digitali, che inizialmente offrono un servizio di ottimo livello, peggiorare gradualmente per diventare, alla fine, una schifezza (la traduzione di shit è escremento, per usare un eufemismo). “All’inizio la piattaforma è vantaggiosa per i suoi utenti finali, ma allo stesso tempo trova il modo di vincolarli”, spiega il giornalista facendo l’esempio di Google, anche se il processo di cui parla si riferisce a quasi tutte le grandi piattaforme. Il motore di ricerca ha inizialmente ridotto al minimo la pubblicità e investito in ingegneria per offrire risultati di altissima qualità. Poi ha iniziato a “comprarsi la strada verso il predominio” –sostiene Doctorow – grazie ad accordi che hanno imposto la sua casella di ricerca in ogni servizio o prodotto possibile. “In questo modo, a prescindere dal browser, dal sistema operativo o dall’operatore telefonico utilizzato, le persone finivano per avere sempre Google come impostazione predefinita”. Una strategia con cui, secondo Doctorow, l’azienda di Mountain View ha acquisito qua e là società di grandi dimensioni per assicurarsi che nessuno avesse un motore di ricerca che non fosse il suo. Per Doctorow è la fase uno: offrire vantaggi agli utenti, ma legandoli in modo quasi invisibile al proprio ecosistema. Un’idea di quale sia il passaggio successivo l’abbiamo avuta assistendo proprio a ciò che è successo, non troppo tempo fa, al motore di ricerca stesso: “Le cose peggiorano perché la piattaforma comincia a sfruttare gli utenti finali per attrarre e arricchire i clienti aziendali, che per Google sono inserzionisti ed editori web. Una porzione sempre maggiore di una pagina dei risultati del motore di ricerca è dedicata agli annunci, contrassegnati con etichette sempre più sottili, piccole e grigie. Così Google utilizza i suo i dati di sorveglianza commerciale per indirizzare gli annunci”, spiega Doctorow.  Nel momento in cui anche i clienti aziendali rimangono intrappolati nella piattaforma, come prima lo erano stati gli utenti, la loro dipendenza da Google è talmente elevata che abbandonarla diventa un rischio esistenziale. “Si parla molto del potere monopolistico di Google, che deriva dalla sua posizione dominante come venditore. Penso però che sia più correttamente un monopsonio”. Monopoli e monopsoni “In senso stretto e tecnico, un monopolio è un mercato con un unico venditore e un monopsonio è un mercato con un unico acquirente”, spiega nel suo libro Doctorow. “Ma nel linguaggio colloquiale dell’economia e dell’antitrust, monopolista e monopsonista si riferiscono ad aziende con potere di mercato, principalmente il potere di fissare i prezzi. Formalmente, i monopolisti di oggi sono in realtà oligopolisti e i nostri monopsonisti sono oligopsonisti (cioè membri di un cartello che condividono il potere di mercato)”. E ancora scrive: “Le piattaforme aspirano sia al monopolio che al monopsonio. Dopo tutto, le piattaforme sono ”mercati bilaterali” che fungono da intermediari tra acquirenti e venditori. Inoltre, la teoria antitrust basata sul benessere dei consumatori è molto più tollerante nei confronti dei comportamenti monopsonistici, in cui i costi vengono ridotti sfruttando lavoratori e fornitori, rispetto ai comportamenti monopolistici, in cui i prezzi vengono aumentati. In linea di massima, quando le aziende utilizzano il loro potere di mercato per abbassare i prezzi, possono farlo senza temere ritorsioni normative. Pertanto, le piattaforme preferiscono spremere i propri clienti commerciali e aumentano i prezzi solo quando sono diventate davvero troppo grandi per essere perseguite”. Così facendo, l’evoluzione del motore di ricerca si è bloccata e il servizio ha poi iniziato a peggiorare, sostiene l’autore. “A un certo punto, nel 2019, più del 90% delle persone usava Google per cercare tutto. Nessun utente poteva più diventare un nuovo utente dell’azienda e quindi non avevano più un modo facile per crescere. Di conseguenza hanno ridotto la precisione delle risposte, costringendo gli utenti a cercare due o più volte prima di ottenerne una decente, raddoppiando il numero di query e di annunci”. A rendere nota questa decisione aziendale è stata, lo scorso anno, la pubblicazione di alcuni documenti interni durante un processo in cui Google era imputata. Sui banchi di un tribunale della Virginia una giudice ha stabilito che l’azienda creata da Larry Page e Sergey Brin ha abusato di alcune parti della sua tecnologia pubblicitaria per dominare il mercato degli annunci, una delle sue principali fonti di guadagno (nel 2024, più di 30 miliardi di dollari a livello mondiale). “E così arriviamo al Google incasinato di oggi, dove ogni query restituisce un cumulo di spazzatura di intelligenza artificiale, cinque risultati a pagamento taggati con la parola ‘ad’ (pubblicità) in un carattere minuscolo e grigio su sfondo bianco. Che a loro volta sono link di spam che rimandano ad altra spazzatura SEO”, aggiunge Doctorow facendo riferimento a quei contenuti creati a misura di motore di ricerca e privi in realtà di qualunque valore informativo. Eppure, nonostante tutte queste criticità, continuiamo a usare un motore di ricerca del genere perché siamo intrappolati nei suoi meccanismi. Il quadro non è dei migliori. “Una montagna di shit”, le cui radici  – afferma lo studioso – vanno cercate nella distruzione di quei meccanismi di disciplina che una volta esistevano nel capitalismo. Ma quali sarebbero questi lacci che tenevano a bada le grandi aziende? La concorrenza di mercato – ormai eliminata dalle politiche che negli ultimi 40 anni hanno favorito i monopoli; una regolamentazione efficace – mentre oggi ci ritroviamo con leggi e norme inadeguate o dannose, come ad esempio la restrizione dei meccanismi di interoperabilità indotta dall’introduzione di leggi sul copyright; e infine il potere dei lavoratori – anche questo in caduta libera a seguito dell’ondata di licenziamenti nel settore tecnologico. La “enshittification“, secondo Doctorow, è un destino che dovevamo veder arrivare, soprattutto perché giunge a valle di scelte politiche precise: “Non sono le scelte di consumo, ma quelle politiche a creare mostri come i CEO delle Big Tech, in grado di distruggere le nostre vite online perché portatori di pratiche commerciali predatorie, ingannevoli, sleali”. Non basta insomma odiare i giocatori e il gioco, bisogna anche ricordare che degli arbitri disonesti hanno truccato la partita, convincendo i governi di tutto il mondo ad abbracciare specifiche politiche. Quando si parla di tecnologia e delle sue implicazioni a breve, medio e lungo periodo è difficile abbracciare una visione possibilista e positiva. Un po’ come succede per le lotte per la giustizia sociale e per il clima: il muro che ci si ritrova davanti sembra invalicabile. Una grossa difficoltà che, secondo Doctorow, è data dalla presenza di monopoli e monopsoni.  Ma la reazione alle attuali crisi politiche globali mostra che un cambiamento è possibile. “Negli ultimi anni c’è stata un’azione di regolamentazione della tecnologia superiore a quella dei 40 anni precedenti”, spiega Doctorow. Non solo: la seconda elezione di Donald Trump si starebbe rivelando una benedizione sotto mentite spoglie, sia per il clima sia per il digitale. “Ha acceso un fuoco sotto i leader di altri Paesi ex alleati, stimolando grandi e ambiziosi programmi per sfuggire al monopolio statunitense. Pensiamo ai dazi sui pannelli solari cinesi imposti da Trump nella prima amministrazione, per esempio. Una misura che ha spinto i produttori di Pechino a inondare i paesi del Sud del mondo con i loro pannelli economici, a tal punto che intere regioni si sono convertite all’energia solare”, afferma Doctorow, che considera questa strada percorribile anche per ottenere una tecnologia più libera. PER NON VEDERE TUTTO NERO Sfuggire alle Big Tech americane non dovrebbe significare semplicemente  rifugiarsi in un servizio alternativo (mail, cloud, social media, ecc.), anche perché il processo non è così semplice. “Non si copia e incolla la vita delle persone: le email, i file, i documenti custoditi nei cloud di Microsoft, Apple o Google. Nessun ministero, azienda o individuo lo farà”. Motivo per cui, secondo Doctorow, Eurostack è una possibile alternativa, ma che ha ancora tanta strada da fare. Eurostack è un’iniziativa europea nata recentemente in risposta all’esigenza di costruire una sovranità digitale del Vecchio continente, indipendente dalle aziende tecnologiche straniere (specialmente USA). Coinvolge attivisti digitali, comunità open source, istituzioni europee e alcuni politici. “L’Ue potrebbe ordinare alle grandi aziende tech statunitensi di creare strumenti di esportazione, così che gli europei possano trasferire facilmente i propri dati in Eurostack, ma possiamo già immaginare come andrà a finire. Quando l’Ue ha approvato il Digital Markets Act, Apple ha minacciato di smettere di vendere iPhone in Europa, e ha presentato 18 ricorsi legali”, ricorda Doctorow.  Se la risposta di un’azienda statunitense all’introduzione di una direttiva europea è questa, la soluzione allora non può essere che radicale. “L’unica via possibile è abrogare l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore: l’Ue dovrebbe rendere legale il reverse engineering di siti web e app statunitensi in modo che gli europei possano estrarre i propri dati e trasferirli in Eurostack. Un modello aperto, sovrano, rispettoso della privacy, dei diritti dei lavoratori e dei consumatori”. 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Eredità digitale, che fine fanno i nostri dati dopo la morte?
Nel corso dell’ultimo decennio Internet, i social media e – non da ultima – l’intelligenza artificiale hanno profondamente cambiato il nostro rapporto con la morte. Il sogno dell’immortalità, che ha ossessionato per secoli studiosi di ogni genere, oggi sembra essere in qualche modo diventato realtà. Senza che ce ne accorgessimo, la tecnologia ha creato per ognuno di noi una “vita dopo la morte”: una dimensione digitale in cui i nostri account social e di posta elettronica, blog, dati personali e beni digitali continuano a esistere anche dopo la nostra dipartita, rendendo di fatto la nostra identità eterna. Questo, da un lato, ha aumentato la possibilità per le persone che subiscono un lutto di sentirsi nuovamente vicine al defunto, tuffandosi negli album digitali delle sue foto, rileggendo quello che ha scritto sulla sua bacheca di Facebook e ascoltando le sue playlist preferite su Spotify.  “Può consentire anche di mantenere un dialogo con l’alter ego digitale della persona cara defunta, che, attraverso algoritmi di deep fake, può arrivare a simulare una videochiamata, mimando la voce e le sembianze del defunto; a inviare messaggi e email, utilizzando come dati di addestramento le comunicazioni scambiate durante la vita analogica”, osserva Stefania Stefanelli, professoressa ordinaria di Diritto privato all’Università degli studi di Perugia.  Dall’altro, rende però i dati personali delle persone scomparse un tesoretto alla mercé dei criminali informatici, che possono violarne facilmente gli account, utilizzarne le immagini in modo illecito e usarne le informazioni per creare cloni digitali o deepfake, mettendo a rischio la sicurezza loro e dei loro cari. Un pericolo da non sottovalutare, come anche l’eventualità che la persona non gradisca che gli sopravviva un alter ego virtuale, alimentato coi propri dati personali. Ma come fare, allora, per proteggere la propria eredità digitale? A chi affidarla? E come? EREDITÀ DIGITALE: COS’È E A CHI SPETTA DI DIRITTO Oggi più che mai ci troviamo a esistere allo stesso tempo in due dimensioni parallele, una fisica e una digitale. Questo, come riferisce il Consiglio Nazionale del Notariato (CNN), ha portato a un ampliamento dei “confini di ciò che possiamo definire eredità”, che sono arrivati a “comprendere altro in aggiunta ai più canonici immobili, conti bancari, manoscritti o ai beni preziosi contenuti nelle cassette di sicurezza”.  Si parla, allora, di eredità digitale, definita dal CNN come un insieme di risorse offline e online. Della prima categoria fanno parte i file, i software e i documenti informatici creati e/o acquistati dalla persona defunta, i domini associati ai siti web e i blog, a prescindere dal supporto fisico (per esempio, gli hard disk) o virtuale (come può essere il cloud di Google Drive) di memorizzazione. La seconda categoria, invece, include le criptovalute e “tutte quelle risorse che si vengono a creare attraverso i vari tipi di account, siano essi di posta elettronica, di social network, account di natura finanziaria, di e-commerce o di pagamento elettronico”. Rimangono esclusi i beni digitali piratati, alcuni contenuti concessi in licenza personale e non trasferibile, gli account di firma elettronica, gli account di identità digitale e le password. Chiarito in cosa consiste l’eredità digitale, a questo punto viene da chiedersi: a chi saranno affidati tutti questi beni quando la persona a cui si riferiscono non ci sarà più? Rispondere a questa domanda è più difficile di quanto si possa immaginare. Allo stato attuale non esiste infatti in Italia una legge organica, il che crea negli utenti – siano essi le persone a cui i dati si riferiscono o i parenti di un defunto che si ritrovano a gestire la sua identità in rete – un’enorme confusione sulla gestione dei dati.  Nonostante si tratti di un tema particolarmente urgente, finora è stato trattato soltanto dal Codice della Privacy, che prevede “che i diritti […] relativi ai dati di persone decedute possano essere esercitati da chi abbia un interesse proprio o agisca a tutela dell’interessato (su suo mandato) o per ragioni familiari meritevoli di protezione”. Un diritto che non risulta esercitabile soltanto nel caso in cui “l’interessato, quando era in vita, lo abbia espressamente vietato”. Di recente, poi, il Consiglio Nazionale del Notariato è tornato sul tema, sottolineando l’importanza di “pianificare il passaggio dell’eredità digitale”, considerando che “molto spesso le società che danno accesso a servizi, spazi e piattaforme sulla rete internet hanno la propria sede al di fuori del territorio dello Stato e dell’Europa”: in assenza di disposizioni specifiche sull’eredità dei beni digitali, infatti, chiunque cerchi di accedere ai dati di una persona defunta rischia di “incorrere in costose e imprevedibili controversie internazionali”. Per evitare che questo accada, è possibile investire una persona di fiducia di un mandato post mortem, “ammesso dal nostro diritto per dati e risorse digitali con valore affettivo, familiare e morale”. In termini legali, si tratta di un contratto attraverso cui un soggetto (mandante) incarica un altro soggetto (mandatario) di eseguire compiti specifici dopo la sua morte, come l’organizzazione del funerale, la consegna di un oggetto e, nel caso delle questioni digitali, la disattivazione di profili social o la cancellazione di un account. In alternativa, “si può disporre dei propri diritti e interessi digitali tramite testamento”, al pari di quanto già accade per i beni immobili, i conti bancari e tutto il resto.  In questo modo, in attesa di una legislazione vera e propria sul tema, sarà possibile lasciare ai posteri un elenco dettagliato dei propri beni e account digitali, password incluse, oltre alle volontà circa la loro archiviazione o cancellazione. “Ai sensi di questa disposizione, si può anche trasmettere a chi gestisce i propri dati una  dichiarazione, nella quale si comunica la propria intenzione circa il destino, dopo la propria morte, di tali dati: la cancellazione totale o parziale, la comunicazione, in tutto o in parte, a soggetti determinati, l’anonimizzazione ecc. Si parla in questi termini di testamento digitale, anche se in senso ‘atecnico’, in quanto la dichiarazione non riveste le forme del testamento, sebbene sia anch’essa revocabile fino all’ultimo istante di vita, e non contiene disposizioni patrimoniali in senso stretto”, prosegue la professoressa Stefanelli. EREDITÀ E PIATTAFORME DIGITALI: COSA SUCCEDE AGLI ACCOUNT DELLE PERSONE DEFUNTE? Come anticipato, allo stato attuale non esiste una legge che regolamenta l’eredità digitale, né in Italia né in Europa. Pertanto, nel corso degli ultimi anni le piattaforme di social media e i grandi fornitori di servizi digitali si sono organizzati per garantire una corretta gestione degli account di persone scomparse, così da evitare di trasformarsi in veri e propri cimiteri digitali.  Già da qualche anno, per esempio, Facebook consente agli utenti di nominare un contatto erede, ossia un soggetto che avrà il potere di scegliere se eliminare definitivamente l’account della persona scomparsa o trasformarlo in un profilo commemorativo, dove rimarranno visibili i contenuti che ha condiviso sulla piattaforma nel corso della sua vita.  Al pari di Facebook, anche Instagram consente ai parenti di un defunto di richiedere la rimozione del suo account o di trasformarlo in un account commemorativo. In entrambi i casi, però, sarà necessario presentare un certificato che attesti la veridicità del decesso della persona in questione o un documento legale che dimostri che la richiesta arriva da un esecutore delle sue volontà.  TikTok, invece, è rimasto per molto tempo lontano dalla questione dell’eredità digitale. Soltanto lo scorso anno la piattaforma ha introdotto la possibilità di trasformare l’account di una persona defunta in un profilo commemorativo, previa la presentazione di documenti che attestino il suo decesso e un legame di parentela con l’utente che sta avanzando la richiesta. In alternativa, al pari di quanto accade per Facebook e Instagram, è possibile richiedere l’eliminazione definitiva dell’account del defunto.  Ma non sono solo le piattaforme social a pensare al futuro dei propri utenti. Dal 2021, Apple consente agli utenti di aggiungere un contatto erede, così da permettere a una persona di fiducia di accedere ai dati archiviati nell’Apple Account, o “di eliminare l’Apple Account e i dati con esso archiviati”. Google, invece, offre agli utenti uno strumento avanzato per la gestione dei dati di una persona scomparsa. La “gestione account inattivo” consente infatti di “designare una terza parte, ad esempio un parente stretto, affinché riceva determinati dati dell’account in caso di morte o inattività dell’utente”.  Più nel dettaglio, la piattaforma permette di “selezionare fino a 10 persone che riceveranno questi dati e scegliere di condividere tutti i tipi di dati o solo alcuni tipi specifici”, oltre alla possibilità di indicare il periodo di tempo dopo il quale un account può davvero essere considerato inattivo. Nel caso in cui un utente non configuri “Gestione account inattivo”, Google si riserva il diritto di eliminare l’account nel caso in cui rimanga inattivo per più di due anni. EREDITÀ DIGITALE E DEADBOT: UN RISCHIO PER LA SICUREZZA? Anche l’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale generativa ha contribuito a cambiare il nostro rapporto con la morte. E le aziende che li sviluppano si sono spinte fino a cercare una soluzione pratica al dolore causato dalla scomparsa di una persona cara. Basti pensare alla rapida diffusione dei deadbot, ovvero dei chatbot che permettono ad amici e familiari di conversare con una persona defunta, simulandone la personalità. Uno strumento che, da un lato, può rivelarsi utile ai fini dell’elaborazione del lutto, ma dall’altro rappresenta un rischio notevole per la privacy e la sicurezza degli individui.  Per permettere all’AI di interagire con un utente come farebbe una persona scomparsa, questa ha bisogno di attingere a una quantità notevole di informazioni legate alla sua identità digitale: account social, playlist preferite, registro degli acquisti da un e-commerce, messaggi privati, app di terze parti e molto altro ancora. Un uso smodato di dati sensibili che, allo stato attuale, non è regolamentato in alcun modo.  E questo, al pari di quanto accade con l’eredità digitale, rappresenta un problema non indifferente per la sicurezza: come riferisce uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Torino, quando i dati del defunto non sono “sufficienti o adeguati per sviluppare un indice di personalità, vengono spesso integrati con dati raccolti tramite crowdsourcing per colmare eventuali lacune”. Così facendo, “il sistema può dedurre da questo dataset eterogeneo aspetti della personalità che non corrispondono o non rispondono pienamente agli attributi comportamentali della persona”. In questo caso, i deadbot “finiscono per dire cose che una persona non avrebbe mai detto e forniscono agli utenti conversazioni strane, che possono causare uno stress emotivo paragonabile a quello di rivivere la perdita”. Non sarebbe, quindi, solo la privacy dei defunti a essere in pericolo, ma anche la sicurezza dei loro cari ancora in vita.  Pur non esistendo una legislazione specifica sul tema, l’AI Act dell’Unione Europea – una delle normative più avanzate sul tema – fornisce alcune disposizioni utili sulla questione, vietando “l’immissione sul mercato, la messa in servizio o l’uso di un sistema di IA che utilizza tecniche subliminali che agiscono senza che una persona ne sia consapevole” e anche “l’immissione sul mercato, la messa in servizio o l’uso di un sistema di IA che sfrutta le vulnerabilità di una persona fisica o di uno specifico gruppo di persone (…), con l’obiettivo o l’effetto di distorcere materialmente il comportamento di tale persona”.  Due indicazioni che, di fatto, dovrebbero proibire l’immissione dei deadbot nel mercato europeo, ma che non forniscono alcuna soluzione utile alla questione della protezione dei dati personali di una persona defunta, che rimane ancora irrisolta. Nel sistema giuridico europeo la legislazione sulla protezione dei dati non affronta esplicitamente né il diritto alla privacy né le questioni relative alla protezione dei dati delle persone decedute.  Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), infatti, “non si applica ai dati personali delle persone decedute”, anche se “gli Stati membri possono prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle persone decedute”. Una scelta considerata “coerente con il principio tradizionale secondo cui le decisioni di politica legislativa che incidono sul diritto di famiglia e successorio, in quanto settori caratterizzati da valori nazionali strettamente correlati alle tradizioni e alla cultura della comunità statale di riferimento, esulano dalla competenza normativa dell’Unione europea”.  Non esistendo una legislazione valida a livello europeo, i governi nazionali hanno adottato approcci diversi alla questione. La maggior parte delle leggi europee sulla privacy, però, sostiene un approccio basato sulla “libertà dei dati”: paesi come Belgio, Austria, Finlandia, Francia, Svezia, Irlanda, Cipro, Paesi Bassi e Regno Unito, quindi, escludono che le persone decedute possano avere diritto alla privacy dei dati, sostenendo che i diritti relativi alla protezione dell’identità e della dignità degli individui si estinguono con la loro morte.  Secondo questa interpretazione, le aziende tech potrebbero usare liberamente i dati delle persone decedute per addestrare un chatbot. Fortunatamente non è proprio così, considerando che in questi paesi entrano in gioco il reato di diffamazione, il diritto al proprio nome e alla propria immagine, o il diritto alla riservatezza della corrispondenza. Al contrario, invece, paesi come l’Estonia e la Danimarca prevedono che il GDPR si applichi anche alle persone decedute, a cui garantiscono una protezione giuridica per un limite preciso di tempo (10 anni dopo la morte in Danimarca, e 30 in Estonia). E così anche Italia e Spagna, che garantiscono una protezione dei dati dei defunti per un tempo illimitato.  Pur mancando una legislazione europea uniforme, il GDPR lascia agli Stati membri la facoltà di regolare il trattamento dei dati personali delle persone defunte, e questo comporta differenze, anche sostanziali, delle legislazioni nazionali. Con l’avvento dell’AI e gli sviluppi rapidi che questa comporta, però, diventa sempre più necessario stilare una normativa chiara, precisa e uniforme sulla questione. Così da rispettare non solo la privacy dei nostri cari, ma anche il dolore per la loro perdita. L'articolo Eredità digitale, che fine fanno i nostri dati dopo la morte? proviene da Guerre di Rete.
La resistenza ai social media riparte dal Fediverso e dai server ribelli
Immagine in evidenza da Mozilla Da una parte i social network e i rischi intrinseci della raccolta di dati e, sul fronte opposto, l’attivismo digitale che vuole dare vita a una riforma di internet dal basso. Un’idea che si scontra con problemi pratici, tecnici, etici e anche culturali-narrativi. Non ultimo un immaginario che ancora sconta una vecchia diffidenza verso gli hacktivisti (e tutto ciò che contiene la parola “hacker”). Su questo e su altro ancora si concentra Giuliana Sorci nel libro Server ribelli: R-esistenza digitale e hacktivismo nel Fediverso in Italia che esamina l’hacktivismo italiano nel corso di tre decenni. Sorci è una ricercatrice indipendente e insegnante, ha conseguito il dottorato all’Università di Catania approfondendo la comunicazione politica dei movimenti sociali e dei conflitti territoriali in Italia. Nel 2015 ha pubblicato il libro I social network. Nuovi sistemi di sorveglianza e controllo sociale, approfondendo i modi in cui i social media agiscono come strumenti di sorveglianza e controllo.  QUALCHE TERMINE UTILE Nel suo ultimo libro, Server ribelli, si fa ampio riferimento alle piattaforme commerciali, ovvero al gruppo Meta che detiene Facebook, Instagram, Threads e WhatsApp e, parallelamente, a X (ex Twitter) e a TikTok. In contrapposizione, il Fediverso è una rete di piattaforme indipendenti e connesse tra loro, che usano software open source e protocolli aperti come ActivityPub. La natura decentralizzata del Fediverso non è l’unico tratto che la contraddistingue dalle piattaforme commerciali: il Fediverso è non profit, è autogestito, rifiuta la profilazione di massa e rifugge ogni forma di pubblicità. Gli sviluppatori rilasciano il codice sorgente affinché gli utenti possano controllare l’infrastruttura e contribuire al suo miglioramento. Ciò, sottolinea l’autrice, richiama la partecipazione attiva, altro tratto distintivo che separa il Fediverso dalle piattaforme commerciali, che impongono un uso passivo. Altro termine chiave è quello di r-esistenza, che racchiude le pratiche e le strategie adottate dagli hacktivisti italiani per opporsi al mondo digitale dominato dalle piattaforme commerciali, proponendo alternative. La r-esistenza non è un rifiuto passivo ma rappresenta azioni politiche, culturali e creative che si manifestano in più modi. Per Giuliana Sorci l’attivismo digitale italiano, l’hacktivismo, ha individuato nel Fediverso una terra promessa nella quale la r-esistenza digitale, la riforma di Internet dal basso, possono crescere. Ma centrali sono anche gli spazi autogestiti come gli hacklab e i fablab, e l’hacking come una pratica creativa e costruttiva che si spinge al di là della scrittura di codice e lavora alla creazione di infrastrutture alternative, alla promozione della conoscenza libera e alla costruzione di comunità inclusive. I profili degli hacktivisti italiani rivelano spesso un’elevata istruzione, peraltro con una corposa presenza di laureati in discipline umanistiche, e una forte propensione al cambiamento sociale e alla giustizia sociale. Tuttavia, il Fediverso affronta diverse sfide. La difficoltà di installazione e gestione per gli utenti meno esperti e il rischio di abbandono dei progetti con pochi iscritti sono aspetti critici. La minaccia più grande proviene dalle grandi corporation che mostrano un crescente interesse verso le architetture decentralizzate. Threads, piattaforma con cui Meta si è affacciata sul Fediverso, sebbene potenzialmente in grado di diversificare l’ecosistema, solleva seri dubbi sulla gestione monopolistica e antidemocratica che potrebbe esercitare.  Il libro si concentra sulla resistenza a questo scenario, considerando che non può essere solo tecnica ma deve essere soprattutto politica, basata sulla capacità dei movimenti hacker di costruire strategie concordate e di salvaguardare la sovranità digitale. INTERVISTA CON L’AUTRICE Abbiamo approfondito alcuni aspetti con Giuliana Sorci.  Quali sono i fattori che al momento ostacolano una larga adozione del Fediverso da parte degli utenti? “Credo che ci siano diversi fattori. Un primo elemento consiste nel fatto che il Fediverso è ancora poco conosciuto al grande pubblico e viene utilizzato per lo più dagli ‘addetti ai lavori’.  Uno degli obiettivi che mi sono posta con questo libro consiste proprio nel far comprendere che esistono delle alternative ai social media commerciali; che queste piattaforme sono federate ed interoperabili e non contemplano logiche di monetizzazione dei dati degli utenti o pratiche di censura e sorveglianza, come avviene nei comuni social media.  Il Fediverso offre, infatti, la possibilità di creare istanze gestite direttamente dagli utenti e che si basano sui principi (policy) e sugli interessi della community, formando un ecosistema digitale alternativo. Un altro elemento consiste nel fatto che la gestione di un server richiede competenze tecniche, tempo e risorse economiche che possono limitarne l’uso a coloro che non le possiedono: non tutti gli utenti, infatti, riescono a implementare o a gestire istanze nel lungo periodo.   Un altro fattore che limita l’uso del Fediverso è la cultura che sta dietro i social network commerciali. Il famoso tasto ‘like’ di Facebook o il cuore che si riceve quando si pubblica una foto su Instagram o un video su TikTok provocano un effetto che si potrebbe definire ‘dopaminico’ nell’utente che lo riceve, facendogli vivere un’esperienza positiva che tenderà a ripetere, incrementando l’engagement sulla piattaforma.  Questo processo avviene a discapito di qualsiasi forma di tutela della privacy e del fatto che ogni aspetto della vita degli utenti viene inesorabilmente sempre ‘reso pubblico’. Il Fediverso, rifiutando queste logiche di mercificazione delle identità digitali, potrebbe quindi risultare meno attrattivo per quegli utenti che ormai hanno interiorizzato questo modo di pensare e utilizzare i social media”. Come si contrasta il potere delle grandi piattaforme e la loro capacità di bloccare gli utenti dentro i loro recinti dorati (che poi sono sempre meno dorati…)?  “Il social media trasforma le relazioni in merce, orientando la comunicazione verso la performance pubblica e il profitto aziendale. Per contrastare il potere delle grandi piattaforme e la loro capacità di rinchiudere gli utenti ‘nelle loro prigioni dorate’ non serve tentare una competizione di ‘scala’, ovvero creare social media in grado di trattenere migliaia di utenti e che ripropongono le solite logiche di gamificazione, per dirla con le parole del collettivo Ippolita.  Per contrastare il potere delle piattaforme commerciali bisogna ripensare il modo di implementare e utilizzare le tecnologie, trasformandole da tecnologie del dominio in quelle che Ivan Illich definiva come ‘Tools of Conviviality’, ovvero strumenti in grado di creare spazi di libertà, in cui le relazioni tra gli utenti si basano su rapporti di cooperazione reciproca ed interessi comuni.  Il Fediverso, essendo composto da piattaforme indipendenti, alternative e interoperabili, infatti, non può essere considerato soltanto un’infrastruttura tecnica, ma riflette un progetto politico, in cui ogni comunità può dotarsi di regole proprie che si basano sui principi comuni e sugli interessi della comunità.  Usare il Fediverso significa dunque aderire a un’altra idea di socialità online, basata non sulla profilazione e sull’engagement forzato, ma sulla costruzione di legami reali e condivisi che vengono coltivati anche online.  La filosofia che viene incoraggiata dagli hacker che lo implementano è, infatti, quella di costruire tante comunità fondate su piccoli numeri, in cui le relazioni sono basate sulla fiducia, il rispetto reciproco e la condivisione di valori e principi comuni.  In questo senso, è utile fare riferimento alla distinzione di Ian Bogost tra social network e social media, ripresa in Server ribelli. Il social network è la rete sociale vera e propria, fatta di legami forti e deboli, che riflettono le dinamiche umane fondamentali e che esiste prima, e al di fuori, delle piattaforme digitali. Il social media, al contrario, rappresenta la trasformazione del network in strumento di comunicazione di massa, dove le relazioni non servono più a rafforzare legami ma a spettacolarizzare la vita degli utenti, rendendoli essi stessi prodotti da monetizzare.   È ormai celebre la frase resa popolare da una serie Netflix, secondo cui ‘se qualcosa è gratuito, allora il prodotto sei tu’: un modo diretto per ricordare che nelle piattaforme commerciali non siamo utenti da servire, ma merci da monetizzare attraverso la sorveglianza e la profilazione dei nostri comportamenti.  Recuperare il significato originario di social network significa allora tornare a pensare le reti come comunità di prossimità, federate tra loro, capaci di mantenere senso e qualità nei legami. È esattamente ciò che il Fediverso propone: non l’illusione di una piazza globale uniforme, ma una costellazione di comunità autonome che scelgono di intrecciarsi liberamente, ricostruendo l’infrastruttura digitale a misura delle persone e non dei profitti”. Quali misure e leggi europee sono state utili e dove non sono state abbastanza coraggiose? “Il GDPR, entrato in vigore nel 2018, ha avuto il merito di incrinare la normalità dell’economia della sorveglianza, introducendo principi fondamentali come la minimizzazione dei dati, la portabilità e il diritto all’oblio.  Più recentemente, il Digital Services Act e il Digital Markets Act hanno segnato un ulteriore passo avanti: il primo punta ad aumentare la trasparenza nella moderazione dei contenuti e a garantire l’accesso ai dati per i ricercatori; il secondo mira a contenere gli abusi di posizione dominante delle Big Tech, imponendo per esempio obblighi di interoperabilità e il divieto di pratiche escludenti.  Tuttavia, questi strumenti mostrano anche i loro limiti. La forza economica e legale delle grandi piattaforme consente loro di resistere a lungo ai procedimenti, mentre la rapidità del progresso tecnologico, in particolare nel campo dell’intelligenza artificiale, rischia di superare continuamente la capacità regolatoria.  A questo si aggiungono la lentezza burocratica e, in molti casi, la scarsa volontà politica di applicare le norme con decisione. Senza un enforcement forte e risorse adeguate, il rischio è che queste iniziative restino parziali e non riescano a incidere davvero sul potere dei social media mainstream”. L’impegno degli hacktivisti nel Fediverso può superare la nicchia e innescare una trasformazione della governance di Internet? “Gli hacktivisti, nel libro, non vengono descritti come figure isolate ma come costruttori di comunità e infrastrutture. La loro azione non si limita a denunciare i rischi in termini di erosione della privacy e mercificazione delle identità degli utenti come avviene nei social media commerciali.  Il loro obiettivo è quello di praticare ‘una sorta di riforma dal basso di Internet’ che ne rivoluzioni i principi della governance, ancora sotto il dominio delle piattaforme mainstream. Secondo questa prospettiva, l’azione hacker è prefigurativa: attraverso l’implementazione di tecnologie libere, si anticipa la costruzione di un’altra Internet più democratica e partecipata. Ma il concetto può includere anche la società nel suo complesso, perché ogni laboratorio, server autogestito, archivio digitale, pratica di crittografia o progetto di data activism favorisce questo processo di riforma e trasformazione della Rete.  Per uscire dagli ambienti degli addetti ai lavori, gli attivisti della comunità hacker si impegnano in attività orientate al dialogo con associazioni, reti civiche, scuole, centri sociali, biblioteche e spazi culturali, anche in contesti periferici. Qui organizzano workshop, cablano reti, diffondono tecniche di crittografia, costruiscono hacklab e fablab come spazi di resistenza digitale. Alcuni esempi particolarmente significativi sono i tecno-musei come il Museo Interattivo di Archeologia Informatica (MIAI) di Rende e il Museo dell’Informatica Funzionante (MusIF) di Palazzolo Acreide (qui il link, nda).  Queste esperienze hanno raccolto e preservato centinaia di sistemi hardware e documentazione tecnica, trasformandosi in luoghi di memoria e formazione collettiva, veri e propri presidi di cultura hacker e tecnologia condivisa. Accanto a queste esperienze, si collocano anche le bacheche digitali, nate a partire dal progetto Gancio.org implementata dal collettivo hacker torinese Underscore e replicate in numerosi territori. Non si tratta solo di piattaforme per condividere eventi, ma di veri e propri calendari comunitari, pensati per dare visibilità a iniziative sociali, culturali e politiche dei territori.  La scelta di nomi legati ai dialetti e alle espressioni locali – come avviene nelle bacheche di Bologna, Ravenna, Torino, Catania, in Sardegna o a Cosenza – sottolinea la volontà di radicare la tecnologia nelle culture e nei linguaggi delle comunità. Queste bacheche diventano così strumenti di auto-organizzazione, rafforzano i legami sociali e mostrano come la dimensione digitale possa sostenere le pratiche collettive anziché snaturarle. In questo intreccio di memorie, partecipazione e radicamento territoriale, l’hacktivismo dimostra che la tecnologia può essere piegata a fini conviviali e liberatori. Non è quindi soltanto una questione di server o protocolli: è un progetto politico e culturale che riporta la tecnologia alla portata delle persone, trasformandola in terreno di resistenza e di immaginazione sociale”. Considerando che per la gestione delle istanze del fediverso sono necessarie competenze tecniche e tecnologiche di alto livello, non si corre il rischio di creare un elitarismo interno, un gruppo che si arroga il diritto di prendere le decisioni? Quali meccanismi di inclusione potrebbero mitigare tali asimmetrie cognitive e partecipative? “In Server ribelli il tema dell’asimmetria tra competenze tecniche e partecipazione politica è affrontato in modo diretto. Da un lato, è vero che la gestione di un’istanza del Fediverso richiede skill tecniche di alto profilo, conoscenze di cybersicurezza e tempo da dedicare; ciò potrebbe generare un rischio di elitarismo tecnico, con pochi amministratori in grado di determinare scelte cruciali.  Ma l’esperienza concreta delle comunità hacker italiane mostra come sono stati sviluppati diversi meccanismi per evitare questa deriva.  Innanzitutto, negli hacklab e nei collettivi digitali si pratica costantemente l’autoformazione condivisa: workshop, seminari e momenti di trasmissione dei saperi permettono a chi possiede competenze elevate di condividerle con chi ne ha meno, riequilibrando i ruoli interni e riducendo le disuguaglianze cognitive. Questa pedagogia orizzontale trasforma le abilità tecniche in un bene comune, anziché in una risorsa di potere.  In secondo luogo, le comunità legate al Fediverso adottano in prevalenza il metodo del consenso nelle decisioni. L’81% degli attivisti che ho intervistato, infatti, dichiara che nelle proprie assemblee non viene utilizzato il criterio del voto, ma le decisioni vengono prese deliberando e cercando l’accordo collettivo, così da favorire il dialogo inclusivo ed eliminare gerarchie interne. Solo una minima parte ricorre a votazioni o a modelli più formali.  Questo consente anche ai non-tecnici di incidere sulle scelte politiche delle istanze. Un ulteriore strumento di inclusione è rappresentato da esperienze come Autogestione.social, l’assemblea federata delle istanze italiane. Qui tecnici e non-tecnici partecipano insieme, discutendo policy comuni e manifesti politici, condividendo competenze e sostenendo la nascita di nuove istanze. L’idea è che le piattaforme non debbano essere portate avanti ‘da un manipolo di tecnici che scelgono cosa è meglio’, ma da tutte le persone che le usano quotidianamente. In sintesi, il rischio di elitarismo tecnico esiste, ma può essere contrastato se la comunità si dota di strumenti di condivisione delle conoscenze, deliberazione inclusiva e governance federata.  È questa la vera sfida della decentralizzazione: non solo redistribuire il potere tecnico tra più server, ma costruire pratiche sociali che impediscano a pochi di trasformarsi in una nuova élite”. La minaccia insita nella cosiddetta EEE Strategy (Embrace, Extend, Extinguish), una strategia commerciale che può essere adottata da grandi piattaforme, e che consiste nell’abbracciare uno standard aperto, estenderlo con funzioni proprietarie ed infine estinguere lo standard originale svantaggiando i concorrenti, può estendersi ai principi della defederazione? Con quali strategie può rispondere il fediverso per creare una propria immunità? Nel capitolo conclusivo di Server ribelli si evidenzia chiaramente come la strategia EEE (embrace, extend, extinguish), storicamente usata da Microsoft e oggi potenzialmente applicabile dalle Big Tech al Fediverso, rappresenti una minaccia concreta.  L’interesse di Meta per ActivityPub e l’apertura di Threads alla federazione mostrano il rischio che un attore dominante possa prima ‘abbracciare’ i protocolli aperti, poi modificarli con estensioni proprietarie imponendone così la propria versione, omologando e indebolendo l’ecosistema delle istanze indipendenti.  Se ciò accadesse, i principi di autonomia, orizzontalità e autogestione su cui si fonda il Fediverso sarebbero messi a dura prova.  È legittimo, infatti, temere che Meta e altre corporation possano guardare al Fediverso come a un’infrastruttura da colonizzare o come a una minaccia da neutralizzare, soprattutto perché sottrae utenti al loro modello di business basato sulla sorveglianza e sulla profilazione.  Tuttavia, la risposta non può limitarsi a una difesa tecnica. L’‘immunità’ del Fediverso deve essere insieme tecnica e politica. Da un lato, esiste già la pratica della defederazione, che consente alle istanze di bloccare o silenziare quelle realtà (comprese eventuali piattaforme commerciali) che non rispettano i valori condivisi dalla community. Non a caso, molte istanze italiane hanno già iniziato a defederare Threads per marcare la distanza da un attore percepito come ostile. Dall’altro lato, serve una resistenza politica e culturale, fatta di strategie comuni, assemblee, manifesti e pratiche di cooperazione che ribadiscano la natura comunitaria e anticapitalista del progetto. In questo senso, l’immunità non deriva dall’illusione di poter blindare il Fediverso, ma dalla sua capacità di mantenersi fedele ai principi originari: software libero, autogestione, rifiuto della sorveglianza, orizzontalità delle decisioni. È la combinazione tra strumenti di governance interna (come la defederazione) e la costruzione di una cultura hacker condivisa che può garantire al Fediverso di non farsi inglobare e neutralizzare dalle logiche di mercato”. La pedagogia hacker è, a tuo avviso, un elemento cardine tanto sul piano etico quanto su quello politico. Come questa può uscire dalla propria nicchia e diventare una vera e propria alfabetizzazione digitale appannaggio delle masse? Quali strumenti può usare per raggiungere questo scopo e, ancora prima, le persone vogliono davvero un rapporto emancipato con le tecnologie o si crogiolano nel loro uso funzionale? “La definizione di pedagogia hacker, così come utilizzata da Carlo Milani e ripresa in Server ribelli, va ben oltre la semplice alfabetizzazione digitale intesa come acquisizione di competenze tecniche di base.  È piuttosto un’attitudine collettiva – un approccio educativo libertario – che rende le persone capaci di elaborare critiche e riflessioni sulle tecnologie digitali nell’era del capitalismo delle piattaforme. Ma non solo. È la capacità di immaginare delle alternative, a partire dalla decostruzione delle dinamiche di potere che sono presenti nell’attuale ecosistema digitale.  La pedagogia hacker valorizza il principio della condivisione del sapere, guardando alla tecnologia come ‘bene comune’ valorizzando l’apprendimento condiviso come patrimonio esperienziale collettivo.  In tal senso, è utile citare Steven Levy, autore del famoso saggio Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica del 1984, che a proposito dell’etica hacker, scriveva dell’importanza del libero accesso alle informazioni e della condivisione del sapere come principi fondamentali da seguire.  La pedagogia hacker, dunque, non si limita a insegnare ‘come si usa un software o un computer’, ma propone un modello di formazione che è insieme etico e politico: imparare a disertare la tecnocrazia, rifiutare gerarchie e burocrazie, costruire ambienti di affinità basati sull’autonomia e sui rapporti di cooperazione reciproca.  Questa prospettiva trova applicazione pratica nelle attività organizzate dalle comunità hacker: hacklab, fablab, Hackmeeting, laboratori autogestiti nelle scuole e nelle università.  In questi spazi la conoscenza non è mai patrimonio esclusivo di pochi esperti, ma diventa bene comune: si organizzano workshop sulla crittografia, incontri sui social network alternativi, laboratori di riuso e riparazione di hardware, progetti di alfabetizzazione digitale, alla portata di tutte e tutti. Attraverso questi strumenti, la pedagogia hacker si configura come una pratica di emancipazione collettiva, che non solo trasmette competenze, ma costruisce comunità e consapevolezza politica.  In questo senso, parlare di pedagogia hacker come alfabetizzazione digitale significa parlare il linguaggio dei diritti collettivi – digitali e non – significa parlare il linguaggio della cooperazione e della capacità di immaginare e costruire insieme la società desiderata e desiderabile, nel tempo del qui e ora”.  In che modo la creatività dell’hacktivismo può fare da controcanto alle narrazioni distorte che riguardano gli hacker e, a monte, il ruolo della tecnologia nella società? “La figura dell’hacker tramandata dalle narrazioni dominanti fatte dai media mainstream è stata fuorviante. L’hacker viene spesso rappresentato come un criminale informatico che minaccia la sicurezza collettiva, oppure come un genio solitario – nerd – che le grandi corporation possono sussumere per rafforzare il proprio capitale umano. In entrambi i casi, l’immagine restituita è funzionale al mantenimento dell’ordine esistente: o l’hacker diventa un nemico da reprimere, o una risorsa da inglobare nel mercato.  Queste narrazioni distorte hanno finito per oscurare la dimensione politica e creativa dell’hacktivism – termine che coniuga le pratiche hacker con l’attivismo politico – riducendolo a un problema di sicurezza informatica o a una competenza da monetizzare. La genealogia del termine racconta però una storia molto diversa.  L’hacker nasce come colui che sperimenta, smonta, ricombina, non per distruggere ma per comprendere e reinventare. Nel già citato saggio, Steven Levy descriveva questa figura come ‘un artista del codice’ capace di perseguire l’eleganza tecnica e la libertà di accesso al sapere. L’hacking non è necessariamente soltanto un atto illegale e di pirateria informatica, ma rappresenta un’azione creativa, estetica e politica. Questa prospettiva emerge con forza anche dalle voci raccolte nelle interviste di Server ribelli.  Un membro del collettivo Ippolita definisce l’essere hacker come una tensione, una condizione che non si possiede mai definitivamente ma a cui si tende costantemente: ‘L’hacker è un po’ una tensione, è un avatar. Essere un hacker cosa significa? In realtà è qualcosa a cui tendere, non è qualcosa che sei mai. Veramente un hacker è una dimensione un po’ ideale, come dire che non c’è un momento in cui diventi hacker, è sempre qualcosa che è là a venire!’. In un’altra intervista, la definizione si arricchisce ulteriormente: ‘L’hacking è la trasposizione della curiosità dell’hacker, il desiderio di ricombinare la realtà, eseguire il codice del mondo per fargli fare una cosa diversa, magari inutile, semplicemente per la bellezza di costruire e plasmare la realtà in modo diverso’.  È proprio questa capacità di plasmare la realtà in modi inattesi che rende la creatività ‘hacktivista’ un controcanto potente alle narrazioni distorte. Se i media lo riducono a minaccia o anomalia, l’hacktivismo dimostra invece di essere una pratica sociale e culturale capace di generare alternative: server autogestiti, piattaforme federate, archivi liberi, reti comunitarie, laboratori di alfabetizzazione digitale.  In questi spazi la creatività non è mai fine a sé stessa, ma diventa strumento politico per mostrare che un altro uso della tecnologia è possibile, e che un altro mondo digitale può essere costruito collettivamente. In definitiva, la creatività hacker non si limita a contraddire l’immaginario dominante, ma lo ribalta: non pirati solitari che violano sistemi – almeno, non soltanto – bensì artigiani del digitale, che attraverso ingegno e cooperazione aprono spiragli su futuri diversi. È in questa tensione, continuamente rinnovata, che si trova il vero significato dell’essere hacker. C’è qualcosa che non ti ho chiesto, un aspetto su cui non mi sono soffermata, ma che ritieni importante e utile far sapere ai lettori? C’è un aspetto che spesso non viene messo abbastanza in evidenza: ovvero che la tecnologia non è mai neutra. Ogni piattaforma, ogni protocollo, ogni riga di codice riflette una visione del mondo, un insieme di valori e di priorità.  Non esistono strumenti neutri: i social network commerciali, ad esempio, incorporano logiche economiche e politiche precise – sorveglianza, profilazione, massimizzazione del profitto – che finiscono per orientare i nostri comportamenti e modellare le nostre relazioni.  L’esperienza di Mastodon.bida.im implementata dall’omonimo collettivo hacker bolognese nel 2018, raccontata in Server ribelli, lo mostra con grande chiarezza. Questa istanza del Fediverso non è semplicemente un’alternativa tecnica a Facebook o Twitter, ma un progetto politico e culturale a tutti gli effetti. Le sue regole di funzionamento non si limitano a questioni di moderazione tecnica: dichiarano esplicitamente un orientamento libertario e anarchico, fondato su principi di antirazzismo, antisessismo, antifascismo e rifiuto delle logiche commerciali.  Non è dunque uno spazio ‘neutrale’, ma un luogo che sceglie di prendere posizione. La comunità che gravita attorno a Mastodon.bida.im porta avanti pratiche che superano la dimensione digitale in senso stretto: assemblee collettive, momenti di socialità, processi decisionali orizzontali e forme di mutuo supporto tra utenti e amministratori.  In questo modo, l’istanza diventa un laboratorio sociale, un esperimento politico che mostra come Internet potrebbe essere organizzato diversamente se al centro ci fossero cooperazione e giustizia sociale, anziché profitto e controllo. Raccontare esperienze come quella di Mastodon.bida.im significa dunque ricordare che non stiamo parlando solo di tecnologia, ma di società. Ogni scelta tecnica è anche una scelta politica: può rafforzare meccanismi di dominio oppure aprire spazi di libertà. E il Fediverso, con le sue comunità autogestite, dimostra che è possibile costruire un’infrastruttura digitale che non si limita a ospitare contenuti, ma che aiuta a immaginare e praticare un altro modo di stare insieme online”. L'articolo La resistenza ai social media riparte dal Fediverso e dai server ribelli proviene da Guerre di Rete.
Il fediverso inizia a pensare in grande
Immagine in evidenza da Mastodon Dopo un lungo periodo di graduale apertura, Threads – il social network rivale di X e sviluppato da Meta – ha annunciato nel mese di giugno la sua completa integrazione con il fediverso (che sta per universo federato): l’ecosistema social decentralizzato il cui esponente più noto è Mastodon. In sintesi, tutte le piattaforme che fanno parte del fediverso sfruttano lo stesso protocollo e possono quindi comunicare l’una con l’altra. Di conseguenza, ogni utente che lo desidera potrà vedere all’interno di Threads, anche se in un feed diverso e con qualche altra limitazione, i post pubblicati dagli utenti del fediverso che si è scelto di seguire. E viceversa: gli utenti di Mastodon che lo desiderano – e sempre che la loro istanza lo consenta – potranno integrare i post pubblicati su Threads. Prima di approfondire il funzionamento, i progressi e le sfide del fediverso, è probabilmente il caso di rispondere a una domanda: che cosa ci fa una realtà come Meta all’interno di un ecosistema decentralizzato e nato in larga misura in reazione ai sistemi chiusi e centralizzati (i cosiddetti “walled garden”) di cui la società di Mark Zuckerberg è probabilmente il simbolo? Secondo il Washington Post, “per Meta questa mossa potrebbe essere parte di una strategia più ampia, che ha lo scopo di sfruttare un approccio ‘open’ nei mercati in cui sta rivaleggiando con attori più importanti. Threads è diventato rapidamente l’alternativa più popolare a X, superando i 350 milioni di utenti. X è però ancora parecchio più grande e rilevante: Meta potrebbe quindi vedere nell’alleanza con il fediverso – che al momento consiste di Mastodon e altre, più piccole, app indipendenti – un’opportunità per rosicchiare il primato di X”. Una strategia inattesa da parte di un’azienda che ha trascorso gli ultimi 20 anni a picconare l’open web e a fagocitare o demolire qualunque avversario in grado di metterne in discussione il primato (WhatsApp, Instagram, Snapchat). Nell’interpretazione ottimistica, la decisione di aprire Threads al fediverso potrebbe confermare le speranze di molti sostenitori della decentralizzazione, e cioè che – per usare le parole del responsabile di Threads, Adam Mosseri – “il mercato dei social media testuali in futuro sarà molto più frammentato di quanto non fosse quando Twitter era ancora l’unico protagonista”. Da una parte, la speranza è che la massiccia infrastruttura di Threads possa far crescere la base utenti delle altre piattaforme del fediverso, incrementandone la visibilità; dall’altra, il timore – espresso anche da parecchi utenti – è che un colosso come Meta possa introdurre le logiche del “capitalismo della sorveglianza” in un mondo piccolo, fragile e che soprattutto a queste si è sempre fieramente contrapposto. È anche per questa ragione che molti utenti di Mastodon si oppongono all’integrazione di Threads e hanno espresso la loro intenzione di “defederare” Threads, impedendogli cioè di comunicare con le istanze di Mastodon che gestiscono. CHE COS’È E COME FUNZIONA IL FEDIVERSO A questo punto, è necessario fare un passo indietro: che cos’è e come funziona il fediverso? Come detto, i più noti social network (Facebook, Instagram, TikTok e così via) sono tutti centralizzati e isolati l’uno dall’altro. Per seguire un utente di Facebook e comunicare con esso dobbiamo per forza avere un account Facebook, che possiamo inoltre utilizzare soltanto su quella piattaforma. Ciò che avviene su Facebook, in poche parole, resta su Facebook. E lo stesso vale per tutti gli altri principali social network. Nel fediverso, la situazione è opposta: le realtà che fanno parte di questo ecosistema, come il già citato Mastodon, Lemmy (forum popolare in Corea del Sud), Pleroma (social media diffuso in America del Sud), gli italiani PeerTube (simile a YouTube) e Funkwhale (streaming musicale) o infine Pixelfed (condivisione immagini), possono tutte comunicare l’una con l’altra. Alla base di queste piattaforme c’è un protocollo comune e open source, ActivityPub, che consente a un utente di Mastodon di seguire un utente di PeerTube direttamente dal suo account, vedendo così comparire i video direttamente sul feed di Mastodon e potendo da lì interagire con essi.  Ogni applicazione che implementa il protocollo ActivityPub diventa parte di un network federato, che permette tramite una sola piattaforma di seguire e interagire con gli utenti di ogni altra. Poiché siamo da decenni abituati a usare piattaforme chiuse (cioè che impediscono la comunicazione e il trasferimento di dati dall’una all’altra), il funzionamento di un protocollo come ActivityPub, e il modo in cui le realtà del fediverso comunicano tra loro, non è molto intuitivo. Il paragone più semplice è probabilmente quello con le email: il fatto di avere un account Gmail non impedisce di comunicare con chi invece ha un account Hotmail, perché entrambi utilizzano un protocollo comune a tutti i servizi email (ovvero SMTP: simple mail transfer protocol). Anche il classico world wide web è una realtà decentralizzata: ogni sito può linkare o incorporare elementi di altri siti, consentendo inoltre di utilizzare il browser che si preferisce per la navigazione.  Il fediverso consente inoltre di spostare il proprio account su una qualunque altra piattaforma federata, importando o esportando anche post e follower. Un’altra importante differenza è che il fediverso non è gestito in maniera verticistica, ma direttamente dalla comunità. Per esempio, su Mastodon ogni utente può aprire una propria sezione (chiamata istanza) indipendente da tutte le altre, gestendola in completa autonomia, decidendo le politiche di moderazione, le condizioni di utilizzo e pagando gli eventuali costi di gestione (server e altro). Inoltre, le realtà del fediverso sono storicamente attente alla privacy, non raccolgono dati e sono prive di pubblicità (Mastodon si sostiene tramite le donazioni degli utenti). Anche dalle sue caratteristiche si capisce come, fino a oggi, questo ecosistema alternativo sia sempre stato una realtà relativamente piccola: secondo gli ultimi dati, Mastodon avrebbe circa 8 milioni di utenti iscritti (di cui però circa un milione attivi mensilmente), mentre il fediverso nel suo complesso arriverebbe a circa 15 milioni di iscritti (escludendo ovviamente Threads e anche Bluesky, di cui parleremo tra poco). Realtà piccole (il secondo più grande social del fediverso, PixelFed, conta 769mila iscritti), frequentate quasi esclusivamente (almeno fino a oggi) da utenti politicamente attivi e molto attenti alla privacy e sorte in esplicita contrapposizione ai colossi della Silicon Valley. Una contrapposizione diventata ancora più forte in seguito alle nuove politiche dei grandi social network, che sulla scia di Elon Musk hanno tutti allentato (o praticamente cancellato) le politiche di moderazione dei contenuti, sono diventati sempre più tolleranti nei confronti dell’hate speech e hanno così provocato una sorta di grande scisma dei social media, incentivando il trasferimento di decine di milioni di utenti su piattaforme considerate politicamente più affini. Una tendenza che sembra confermare le previsioni di Mosseri su una sempre maggiore frammentazione dei social e che dà un ulteriore significato all’ambizione del fediverso di unire in un unico ecosistema tanti social indipendenti.  Anche in una fase storica in cui la ragion d’essere di queste piattaforme non è più necessariamente quella di “connettere tutti”, ma spesso, semmai, di collegare persone che condividono valori o interessi comuni, dei social network troppo piccoli e isolati rischierebbero di soccombere a causa della scarsità di contenuti reperibili e di interazioni con gli altri utenti. Il fediverso, almeno teoricamente, elimina questo problema, permettendo a chiunque di scegliere il social più adatto con la consapevolezza che ciò non comporta un isolamento da altre piattaforme e dagli altri utenti, ma anzi fornendo la possibilità di interagire con altre realtà e permettendo di mantenere un totale controllo su questi processi (su Mastodon si può scegliere se aprirsi agli altri social del fediverso completamente, parzialmente o per niente). Anche da queste caratteristiche si intuisce come il fediverso sia un mondo dalle enormi potenzialità, ma anche dalla complessità non trascurabile. Ed è forse per questa ragione che, a quasi 10 anni dalla nascita di Mastodon, il fediverso fatica a crescere organicamente e continua a essere frequentato solo da una piccola nicchia di attivisti digitali. BLUESKY, OVVERO ACTIVITYPUB VS AT PROTOCOL: LA SFIDA DEI FEDIVERSI  Ciò vale a maggior ragione visto che il più noto dei social decentralizzati, ovvero BlueSky, non fa parte del fediverso. Bluesky è infatti un social nato all’interno di Twitter per volontà del fondatore Jack Dorsey (che voleva studiare le applicazioni dei social decentralizzati), ma divenuto indipendente proprio in seguito all’acquisizione di Musk e che si sostiene economicamente grazie agli investimenti ricevuti, per un valore complessivo di 36 milioni di dollari (l’ultimo round da 15 milioni è dell’ottobre 2024). Subito dopo l’elezione di Trump e la conseguente fuga da X, Bluesky ha iniziato a guadagnare milioni di utenti, superando a metà 2025 quota 35 milioni. Numeri enormi rispetto a Mastodon, ma ancora piccoli se confrontati con quelli di X e Threads. Il vero successo di Bluesky è però aver saputo attirare la cosiddetta Twitter-sfera: quell’insieme di giornalisti, attivisti, accademici, politici progressisti e altri che avevano reso Twitter il luogo in cui recarsi per seguire in tempo reale ciò che avveniva nel mondo. Come ha scritto Ian Bogost sull’Atlantic, Bluesky “è ciò che più di ogni altra piattaforma recente mi ha ricordato le origini dei social network”. Visti i numeri e l’importanza che sta iniziando a rivestire (soprattutto negli Stati Uniti), il fatto che BlueSky non sia parte del fediverso è senza dubbio un’occasione mancata. Integrarlo è tecnicamente possibile, ma non sarà facile (e non è nemmeno detto che la CEO Jay Graber lo desideri): se Mastodon e gli altri sfruttano il protocollo Activity Pub, BlueSky utilizza invece un protocollo simile, e sempre open source, ma distinto: AT Protocol. Una scelta compiuta quando il fediverso era già una (embrionale) realtà e che ha creato una sorta di rivalità. Le realtà del fediverso si confrontano annualmente durante il FediForum (l’ultimo si è concluso proprio lo scorso giugno), quelle che utilizzano AT Protocol si riuniscono invece durante la ATmosphere Conference, alla quale lo scorso marzo ha partecipato proprio Graber commentando: “Abbiamo incontrato un sacco di persone che stanno costruendo app di cui non sapevamo nulla, tra cui piattaforme di messaggistica e nuovi strumenti per la moderazione”.  Tra i vari social e servizi che sfruttano questo protocollo troviamo Skylight, un’alternativa a TikTok, e Flashes, che è invece una sorta di Instagram. Come Activity Pub, anche AT Protocol consente a tutte le piattaforme che lo impiegano di comunicare tra di loro: “Il beneficio per gli sviluppatori di AT è che non devono ripartire da zero ogni volta, possono sempre contare su un bacino di 35 milioni di utenti”, ha commentato sempre Graber facendo riferimento agli utenti di BlueSky. Ma ha senso che esistano, di fatto, due fediversi? La risposta, soprattutto vista la sovrapposizione valoriale e ideologica (anche se le piattaforme del “fediverso ufficiale”, quello di ActivityPub, sembrano essere ancora più allergiche a investitori, modelli di business, ecc.), è probabilmente no. Ed è anche per questo che alcuni sviluppatori hanno creato dei protocolli ponte, tra cui Bridgy Fed, che permettono, per esempio, a BlueSky e Mastodon di comunicare. Una pezza che dimostra una volta di più quanto questa dualità rischi di essere dannosa per un mondo che ha bisogno di unirsi per crescere, e non di dividersi ulteriormente. LA DIFFICILE CRESCITA DEL FEDIVERSO A proposito, qual è la strategia del fediverso (o dei fediversi) per crescere, attirare sempre più utenti e non essere soltanto un rifugio per attivisti pro-privacy (Mastodon) ed ex utenti di Twitter che odiano Elon Musk (BlueSky)? Come possono “scalare” dei social che non generano guadagni e in cui gli utenti creano le proprie istanze e ne sostengono i costi dei server e gli altri oneri della gestione? Jay Graber, dal canto suo, ha confermato in ogni occasione che non vuole ospitare pubblicità e che i ricavi arriveranno da varie forme di abbonamento (ancora da lanciare): un’opzione che, soprattutto nel mondo social, si è rivelata fino a oggi molto complessa da far funzionare. Mastodon, che come detto è allergico agli investimenti, punta invece sulle donazioni e ambisce a raccogliere tramite esse 5 milioni di dollari nel 2025: un salto rispetto ai circa 150mila dollari di spese totali sostenute nel 2023 e un segnale della volontà di crescere e supportare l’espansione del fediverso. I costi da sostenere, però, non sono solo economici ma relativi anche alla complessa governance richiesta dalle piattaforme decentralizzate, soprattutto per quanto riguarda la moderazione dei contenuti. Come si legge in un recente paper pubblicato sulla Policy Review, “i progetti online basati sul volontariato o sulla collaborazione non andrebbero interpretati come intrinsecamente anarchici, poiché spesso danno vita a infrastrutture di governance e regole che permettono la cooperazione e la pluralità di approcci”. “A livello tecnico”, prosegue il paper, “Mastodon promuove questa pluralità facendo affidamento sull’auto-hosting e mettendo a disposizione un insieme di strumenti di moderazione per gli amministratori. Il fatto che ogni nuovo utente debba sempre unirsi a una cosiddetta istanza, ovvero a una sezione di Mastodon gestita da persone o organizzazioni indipendenti, sposta le decisioni di moderazione al livello delle singole istanze, che possono stabilire le proprie regole, tra cui scegliere chi è autorizzato a entrare nella comunità e chi no. Alcune istanze sono gruppi chiusi che accettano nuovi membri solo su invito. Altre prevedono un sistema di approvazione per gli utenti con interessi comuni. Alcune, solitamente le più grandi, accettano chiunque senza condizioni particolari”. MODERARE IL FEDIVERSO In nome della decentralizzazione e dell’autogestione, soprattutto nel caso di Activity Pub, agli utenti volontari che animano le piattaforme del fediverso viene richiesto di sostenere un costo economico che, nel caso di istanze con qualche decina di migliaia di utenti, possono arrivare anche a svariate centinaia di euro al mese e di sobbarcarsi un carico di lavoro non indifferente. E anche, come visto in passato, di prendere decisioni difficili. Per esempio, se qualunque piattaforma che utilizza l’apposito protocollo open source può collegarsi al fediverso, come si fa a escludere le realtà indesiderate da un ecosistema che è comunque caratterizzato da un certo ethos ideologico? È una situazione con cui gli utenti di Mastodon hanno già dovuto confrontarsi in passato: uno dei primi social frequentato dall’estrema destra, vale a dire Gab, è basato proprio su Activity Pub. Il suo arrivo nel fediverso, nel 2019, ha creato parecchio scompiglio. La comunità di Mastodon ha reagito decidendo praticamente all’unanimità di “defederare” Gab – ogni singola istanza l’ha quindi inserito in una black list – eliminandolo di fatto dal loro ecosistema. Le grandi possibilità offerte dal fediverso – scegliere a quale social e poi a quale istanza partecipare, condividere la gestione delle policy, contribuire all’aspetto economico e altro ancora – comportano quindi un impegno non comune da parte degli utenti (che infatti tendono, anche qui, a partecipare alle istanze più grandi, generaliste e per certi versi centralizzate). È davvero pensabile che un ecosistema di questo tipo sostituisca i social centralizzati di massa, che non richiedono all’utente nessuna forma di impegno? Messa così, è possibile che il fediverso rimanga un’alternativa piccola ed etica, destinata a una nicchia ben circoscritta di utenti, senza l’ambizione di sostituire i “walled garden”: un po’ come – in campo alimentare – i GAS (gruppi d’acquisto solidale) non hanno l’ambizione di sostituire la grande distribuzione, ed è anzi anche in virtù della loro dimensione ridotta, di alternativa etica, che riescono a essere sostenibili. Eppure, le potenzialità del fediverso continuano ad attirare realtà di un certo calibro. Solo nell’ultimo anno, hanno completato o stanno per completare l’integrazione in questo ecosistema decentralizzato piattaforme come Ghost (principale rivale di Substack), Flipboard (piattaforma di aggregazione e salvataggio articoli) e anche il vecchio Tumblr (ancora oggi più attivo di quanto si creda). È il segnale che qualcosa davvero sta per cambiare oppure il fragile equilibrio del fediverso rischia di essere compromesso dall’arrivo di piattaforme con decine o centinaia di milioni di utenti (e che si reggono su modelli di business tradizionali)? Sognare che le logiche alla base dell’open web contagino infine anche il mondo social non costa nulla. Ma è bene essere pronti a un brusco risveglio. L'articolo Il fediverso inizia a pensare in grande proviene da Guerre di Rete.