Le carceri in Italia esplodono
Trovami
Sono la poesia nascosta
Come una scheggia di bellezza
Nella carne del dolore
(La poesia nascosta, Tzarina)
Non parliamo mai abbastanza di carcere. E siamo circondati da discorsi sempre
più repressivi, atti governativi che aumentano le pene e peggiorano la vita
fuori e dentro le carceri. In carcere, infatti, si vive, per breve o lungo
tempo, e si vive male: «Al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a
fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Ma considerando i posti
non disponibili (oltre 4.000), il tasso reale di affollamento è del 133%, con
circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare. 58 carceri su 189
hanno un tasso di sovraffollamento superiore al 150%», leggiamo nell’ultimo
report di Antigone.
Bisogna, quindi, trovare le giuste parole per parlare della prigione. Ed è
quello che sta provando a fare Eris Edizioni con due libri della collana Book
Bloc Mai farsi arrestare di venerdì di Tzarina Caterina Casiccia e Aboliamo il
carcere di Giulia De Rocco. Entrambi i libri sono uno sforzo di immaginazione e
di creatività per raccontare una realtà di repressione, costrizione e violenza,
cioè la vita in carcere. Entrambi i testi cercano di superare la classica
saggista, il primo lo fa mischiando teoria, esperienza personale e poesia, il
secondo utilizzando una narrazione dis/topica, una lettera dal futuro in cui il
carcere è stato abolito, a suo modo anche molto poetica «È stata l’intimità a
distruggere il carcere […], un’intimità creativa. Per poter far a meno della
protezione dell’istituzione […] abbiamo dovuto inventare delle alternative» (p.
12). Una narrazione che nasce dall’«urgenza di alternative, di possibilità, di
un altro mondo» (p. 7) come scrive l’autrice di Aboliamo il carcere.
> «Delle 189 carceri italiane quelle non sovraffollate sono ormai solo 36,
> mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono
> ormai 58. A fine marzo 2023 erano 39. A oggi gli istituti più affollati sono
> Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton
> Monbello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%),
> Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio (187%), Roma
> Regina Coeli (187%), Treviso (187%)».
Tzarina, poeta e artista della scena underground di Barcellona, viene arrestata
nel corso di una manifestazione dopo il fermo di Pablo Hasel, un rapper accusato
di apologia di terrorismo per una canzone contro il re di Spagna nel 2021.
Tzarina viene inserita in un’inchiesta con gravissime accuse penali: «Il caso
era esemplare […]. Poco importava che non fosse vero niente, avevano trovato il
capro espiatorio perfetto» (p. 16). Leggendo, non si può non pensare all’ultimo
processo ad Askatasuna in cui diversi attivisti e attiviste sono state accusate
di associazione a delinquere, o al processo in corso contro Anan Kamal Afif a
L’Aquila. O ai tanti processi ingiusti contro le azioni non violente del
movimento ambientalista o in solidarietà alla Palestina che hanno il principale
scopo di bloccare qualsiasi forma di resistenza. Il suo registro narrativo
mescola storie delle detenute, poesie, l’esperienza personale della detenzione,
e una riflessione teorica sul carcere.
Giulia Rocco, ricercatrice, attivista abolizionista, da anni lavora con
laboratori di scrittura autobiografica dentro le carceri e scrive da un futuro
in cui il carcere è stato abolito, e in questo modo ne evidenzia il suo
paradosso: «lo Stato intendeva rispondere a quello che viene considerato
sbagliato, ingiusto, chiudendo le persone in gabbie sorvegliate da altre persone
armate. E così fare giustizia. Rispondevano al male, ma non lo risolvevano.
Anzi, lo perpetravano, ancora e ancora» (p. 21). E ci mostra un percorso
immaginifico quanto possibile verso l’abolizione che comincia con un passo
semplice: «nel tempo, sempre più fuori entrava e sempre più dentro usciva» (p.
21).
> «L’emergenza morti in carcere non dànno segni di arresto. Anzi, continua a
> peggiorare. Nel 2024 sono stati almeno 91 i casi di suicidi commessi da
> persone private della libertà. Tra gennaio e maggio 2025, almeno 33. Il 2024
> passa così alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre […].
> Il 2024 passa alla storia anche come l’anno con più decessi in carcere in
> generale. Sono state complessivamente 246 le persone che hanno perso la vita
> nel corso della loro detenzione». Aumentano anche gli atti di autolesionismo
> nelle celle.
Il carcere è sottomissione del corpo, disciplinamento dei movimenti, con il
supposto scopo della rieducazione: «È umiliante accettare la disciplina del
corpo, sottomettersi alla sottrazione della libertà e della dignità, della
privacy e dell’indipendenza. È umiliante e doloroso piegarsi, assumere
l’impotenza, obbligarsi ad accettare il surrealismo dell’ingiustizia. È
nauseante comportarsi bene e obbedire ed è spaventoso rendersi conto di avere
paura» (p. 15). In carcere viene negata, prima di tutto, la possibilità di
disporre del proprio tempo, del proprio spazio, e quindi del proprio corpo.
A Tzarina è vietato avere una penna durante il periodo di isolamento, per paura
che la possa utilizzare per farsi del male, ma continuamente le vengono offerti
antidepressivi o metadone. Oggi in carcere il 44,25% delle persone detenute fa
uso di sedativi o ipnotici, il 20,4% utilizza stabilizzanti dell’umore,
antipsicotici e antidepressivi, e questo numero è in aumento anche negli
istituti penitenziari per minori. Ad Alfredo Cospito detenuto in regime di 41
bis viene continuamente negata la possibilità di avere alcune cose come libri,
cd, e spesso non gli viene consegnata la corrispondenza. Poter leggere,
scrivere, ricevere la corrispondenza significa reclamare di essere una persona:
«il carcere è, in primo luogo, il posto dove mantenere la propria identità è una
vera lotta quotidiana» (p. 24) scrive Tzarina. Gli fa eco Goliarda Sapienza,
citata nel numero di DWF, appena uscito sul carcere, anche questo tassello
fondamentale per una riflessione femminista sul carcere: «Il carcere regredisce
all’infanzia, lo fa a tutte o solo a me?».
Le storie delle sue compagne di detenzione sono storie di povertà, marginalità,
migrazione, violenza e maltrattamenti subiti. In carcere finiscono le persone
più povere, marginalizzate, con problemi di dipendenze, e senza fissa dimora.
Alla fine del 2024, 1.373 persone sono finite in carcere per pene di meno di un
anno «Si tratta perlopiù di soggetti particolarmente fragili, spesso privi di
difesa tecnica e plurirecidivi. Tossicodipendenti che commettono piccoli reati
per i quali nessun’altro entrerebbe in carcere», leggiamo sempre nel report di
Antigone. Così come chi non ha una residenza fissa non può godere delle misure
alternative al carcere, soprattutto della custodia cautelare, e quindi arriva in
carcere prima ed esce dopo.
Il carcere «è utile per allontanare dallo sguardo l’evidenza degli effetti della
povertà […] per ribadire le subalternità coloniali, per disciplinare corpi,
esperienze e abitudini» (p. 24), ma come si può pensare una società senza
carcere? E cosa facciamo con chi agisce violenza e provoca profonde sofferenze
personali e sociali?
De Rocco non ha paura di nominare i nodi spinosi del progetto abolizionista
«certamente le emozioni di vendetta sono comprensibili ed è importante trovino
spazio per essere dette: si parli di paura, di rabbia, del desiderio che chi ha
commesso violenza stia male. Però le istituzioni, se devono esistere, hanno il
compito di agire una mediazione rispetto a tali emozioni» (p. 27). Il carcere,
infatti, ci garantisce semplicemente che la persona non commetta reati nella
società mentre è dentro, ma non sappiamo se continuerà a usare violenza tra le
mura del carcere o di nuovo quando uscirà. Ed è così anche per i reati connessi
alla violenza di genere, il carcere reprime il comportamento individuale per un
certo periodo, ma non risolve le radici dell’oppressione e non è una misura
preventiva.
Nelle carceri italiane quasi non esistono la mediazione culturale, gli e le
educatrici sono pochissimi, i progetti lavorativi e sociali anche. Se chi è in
carcere riuscirà a rifarsi una vita nel mondo «se trasformerà la sua visione del
bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, non dipenderà
dall’operato del sistema carcerario o dal numero di anni della condanna
inflitta, ma dalla forza che troverà dentro se stessa» (p. 76) leggiamo in Mai
farsi arrestare di venerdì.
> Abolire il carcere deve cominciare abolendo l’idea della punizione nella
> società tutta, a partire dalle nostre pratiche politiche e linguaggi
> quotidiani. Dobbiamo ripensare le pratiche educative, la valutazione, le
> relazioni con le persone più piccole. Per immaginare un futuro senza prigioni
> il conflitto deve trovare «spazio come modello generativo, come occasione per
> divergere e comprendere, per esprimere e per far affrontare tensioni latenti»
> (p.40).
De Rocco sottolinea come in alcune comunità politiche «esiste un atteggiamento
moralizzante [verso] il conflitto che rende alcuni contesti (parlo anche delle
comunità scelte, queer, riflessive) molto faticosi. Le indispensabili pratiche
di autodifesa e di protezione degli spazi possono non avvalersi dell’esclusione,
del call out, della stigmatizzazione» (p.41). Questo significa elaborare il
conflitto, prendere del tempo, abbandonare la perfomance, accogliere le
vulnerabilità e non abbandonarci alle nostre “attivazioni punitive”.
Ciò di cui ci dobbiamo liberarci profondamente è l’idea che la giustizia abbia a
che fare con la punizione. E aprirci a un’idea di giustizia che abbia a che fare
con la trasformazione, con l’empatia, con la riparazione. Invece che con la
gogna, la vergogna, la sofferenza e la prigionia.
Tutte le illustrazioni sono di Cyril Delacour “Prison et vie carcérale à la
Maison d’Arrêt de Privas” via Flickr
Tutti i dati nell’articolo sono del Report XXI di Antigone “Senza Respiro”
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