Tag - elezioni presidenziali

Bolivia a destra, una sconfitta annunciata
Tra profonde tensioni interne, domenica 17 agosto più di 7,5 milioni di cittadini-e boliviani-e (di cui circa 400.000 all’estero in 22 Paesi) sono stati chiamati alle urne per scegliere tra sette candidature a Presidente e Vice-presidente. Candidature tutte al maschile, dopo che l’unica candidata donna, Eva Copa, aveva rinunciato a causa dello scarso appoggio nei sondaggi. Si è votato anche per eleggere 36 senatori; 130 deputati, sette deputati dei popoli originari e nove rappresentanti presso organismi parlamentari sovranazionali, uno per ogni dipartimento. Dato che nessun candidato ha raggiunto la maggioranza necessaria, il ballottaggio ci sarà il 19 ottobre, mentre il vincitore si insedierà l’8 novembre. In testa al primo turno c’è Rodrigo Paz Pereira, con la sigla del Partito Democratico Cristiano (PDC) che ha ottenuto circa il 32% dei voti. Al secondo posto, il sempiterno Jorge (Tuto) Quiroga dell’Alleanza Libre, di estrema destra, con circa il 28%. Saranno loro due i contendenti al ballottaggio. Al terzo posto con circa il 20%, si piazza Samuel Doria Medina (Alleanza Unidad) di centro-destra, al suo quarto tentativo presidenziale. A differenza dei sondaggi, che prevedevano un testa a testa tra Quiroga e Doria, la vera sorpresa è stata la vittoria al primo turno di Rodrigo Paz Pereira. Ex deputato, ex sindaco, economista di professione è nato in Spagna a causa dell’esilio dei suoi genitori.  E’ infatti figlio di Jaime Paz Zamora, ex presidente del Paese andino, nonché nipote di un altro ex-Presidente, Victor Paz Estenssoro. Da parte sua, lo sconfitto Doria Medina, ha fatto subito appello al voto per Rodrigo Paz. Quel che resta del MAS Disastroso il risultato dei due candidati che facevano riferimento al Movimento al Socialismo (MAS-IPSP), dato che il partito di governo non è riuscito a trovare un candidato unitario. Da una parte, il giovane Andrónico Rodríguez, proposto come candidato di compromesso tra le due anime del MAS. La figura di Rodríguez faceva parte del rinnovamento generazionale del movimento sindacale cocalero e aveva consolidato il suo profilo istituzionale come presidente del Senato, ratificato in cinque occasioni con ampio sostegno. Ma alla fine non c’è stato accordo e Rodríguez ha raccolto circa l’8%, piazzandosi al quarto posto. Dall’altra, Eduardo del Castillo, candidato “ufficiale” del partito di governo, rimasto al palo con un deludente 3%. In questa situazione di frattura interna, del Castillo ha dovuto affrontare la sfida più complessa. Il trentaseienne avvocato è arrivato al Ministero dell’Interno nel 2020 ed è rimasto in carica fino al maggio 2025, diventando una delle figure più visibili nel gabinetto di Luis Arce. La sua candidatura era un tentativo di rinnovare i dirigenti dopo le fratture interne del partito, ma di certo il risultato striminzito non favorisce il processo di ricambio. Il programma di Rodrigo Paz Se non ci saranno ulteriori sorprese, Rodrigo Paz dovrebbe avere la strada spianata alla Presidenza. Nel suo programma, ha fatto appello al ricambio generazionale e ha proposto uno Stato facilitatore, agile e impegnato nei confronti dei cittadini, lontano dal cosiddetto “Stato che ostacola”. Provenendo dalla regione più importante del Paese per produzione di gas, la sua campagna ha posto l’accento sul decentramento dello Stato, con l’obiettivo di ridistribuire in parti uguali il bilancio nazionale tra il livello centrale e le regioni, nell’ambito della sua “Agenda 50/50”, come parte di “un nuovo accordo di convivenza”. Tra le sue proposte spiccano l’idea di un “Capitalismo per tutti” (con crediti accessibili, riduzione delle tariffe e delle tasse e l’eliminazione delle dogane “corrotte”) la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione. Paz Pereira afferma che la Bolivia dispone di risorse proprie per rilanciare la propria economia ed ha dichiarato la sua contrarietà a ricorrere ai prestiti degli organismi internazionali. Jorge (Tuto) Quiroga: il ritorno della destra Il sessantacinquenne di Cochabamba rappresenta l’opzione dell’estrema destra boliviana tradizionale. Ex presidente tra il 2001 e il 2002, Quiroga è stato vicepresidente sotto il governo del militare golpista Hugo Banzer (1997-2001), mentre durante l’amministrazione di Jaime Paz Zamora (1989-93) è stato Sottosegretario del Ministero della Pianificazione (1989), Sottosegretario di Investimenti pubblici (1990) e Ministro delle Finanze (1992). I suoi legami con gli Stati Uniti lo posizionano come candidato dei settori economici dominanti e transnazionali, anche se, in pubblico, insiste nel mantenere una linea indipendente da Washington. “So come farlo. L’ho già fatto in passato. Il mio vantaggio è l’esperienza“, ha recentemente dichiarato in merito al suo piano di ottenere 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed altri.  Nel 2019, ha avuto un ruolo chiave nel colpo di Stato contro Evo Morales ed è stato portavoce internazionale del governo golpista di Jeanine Añez. Samuel Doria Medina Il candidato dell’Alleanza Unidad rappresentava l’aspirazione di un progetto politico di centro-destra. A 66 anni, l’uomo d’affari di Paz era al suo quarto tentativo presidenziale, dopo averci provato nel 2005, 2009 e 2014. Come secondo imprenditore più influente della Bolivia, Doria Medina è tra i 500 imprenditori più conosciuti dell’America Latina e dei Caraibi. Il suo curriculum include il passaggio attraverso il Ministero della Pianificazione e la fondazione de Unidad nel 2003, dopo il suo abbandono del Movimento Rivoluzionario di Sinistra (MIR). Il suo bagaglio elettorale del 20% sarà decisivo per eleggere il prossimo Presidente. La crisi economica Due sono stati i fattori principali della sconfitta a sinistra. Per entrambi, il governo del MAS ha perso le elezioni a causa dei propri molteplici errori politici. Da una parte una dura crisi economica e sociale che il governo Arce non ha saputo superare. Per quanto riguarda la crisi economica, dopo aver disinnescato l’ennesimo tentativo di golpe del 2019, la Bolivia aveva ripreso il cammino anti-neoliberale con la presidenza di Luis Arce, ex Ministro di Economia durante i mandati presidenziali di Evo Morales e del vice-presidente Alvaro García Linera. Ma come afferma quest’ultimo, “…il MAS come strumento politico dei sindacati e delle organizzazioni comunitarie contadine ha perso le elezioni a causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce. Con un’inflazione dei generi alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che costringe a fare code di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha raddoppiato il suo prezzo rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due terzi dei voti popolari a favore di vecchi vendi-patria che promettono di cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare le aziende pubbliche agli stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie mercenarie alla guida dello Stato. Se a tutto ciò aggiungiamo il risentimento dei ceti medi tradizionali, privati dei loro privilegi dall’ascesa sociale e dall’emancipazione politica delle maggioranze indigene, è chiaro il tono apertamente vendicativo e razzista che avvolge i discorsi della destra boliviana” [i]. Evo e il voto nullo Il secondo fattore decisivo per la sconfitta, è stata la divisione interna al blocco sociale che ha espresso il governo negli ultimi 20 anni. Purtroppo, la frattura interna al MAS viene da lontano. Da circa due anni è in corso una dura lotta interna fratricida, che ha portato ad uno scontro aperto tra Evo Morales e Luis Arce. Una frattura che si è estesa negativamente anche a molte organizzazioni di massa, che erano state la colonna vertebrale dei governi del MAS e che avevano pagato un alto prezzo di sangue per la resistenza anti-golpista.  Il lungo braccio di ferro per il controllo dello strumento politico (movimento-partito, MAS-IPSP) aveva portato alla fuoriuscita dal MAS di Morales e della sua base d’appoggio, alla spaccatura nel gruppo parlamentare con gli “evisti” che votano contro le misure del governo e ad un forte disorientamento nel blocco sociale del cambiamento. Come si ricorderà, sulla base di una discussa decisione della Corte costituzionale, Evo Morales non poteva ri-aspirare alla Presidenza, dopo aver svolto tre mandati. Ma non ha voluto accettare la decisione giudiziaria e ha mobilitato la sua base contadina, specialmente nella zona di Cochabamba, per cercare di bloccare il Paese. Nel 2016, Evo perse un referendum per la quarta candidatura, ma il Tribunale Costituzionale ribaltò il risultato. Alla fine, dopo essersi salvato da un attentato nell’ottobre 2024 (smentito dal governo Arce), in queste elezioni l’ex presidente Morales non ha potuto registrarsi come candidato presidenziale in nessun partito con personalità giuridica in vigore. Morales ha ritirato la sua candidatura e, dalla sua roccaforte nel Tropico di Cochabamba, come forma di protesta politica per avergli impedito di partecipare alle elezioni,  ha promosso attivamente il voto nullo contro il governo di Luis Arce e le candidature di opposizione. C’è da dire che, in tutto questo periodo, a nulla sono valsi i molteplici tentativi di mediazione tra i dirigenti boliviani fatti da alcuni dei governi e dei partiti della sinistra latino-americana (e non solo) per provare a ricucire i rapporti con spirito unitario. Solo Andrónico Rodriguez avrebbe avuto qualche possibilità, se il suo ex mentore Morales lo avesse appoggiato. Ma Evo lo ha bollato come traditore e ha fatto appello al voto nullo. D’altra parte, il risultato del voto nullo (circa il 19%) non preoccupa una destra che è vincente e, per il momento, si troverà una opposizione frammentata socialmente e senza una presenza parlamentare di qualche peso. In altre parole, in termini elettorali, il peso del voto nullo è francamente nullo. E ora? Con questi risultati, che impongono un accordo parlamentare, si vedrà se la Bolivia riuscirà a costruire un consenso minimo per affrontare le sue sfide strutturali. O se, al contrario, la crisi si approfondirà. Il Paese è alle porte di un cambiamento radicale nell’orientamento politico, con un ritorno alla decade neoliberista e privatizzatrice degli anni ’90. Per non parlare della politica estera. Con una gradazione di più o meno liberalismo, le destre (tutti uomini, per lo più bianchi e di classe alta) propongono un ritorno alla riduzione dello Stato, alla privatizzazione o chiusura di aziende pubbliche, alla promozione dell’iniziativa privata, al probabile taglio dei bonus sociali, la riduzioni delle tasse e un ritorno all’indebitamento ed alle condizioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o della Banca Interamericana di Sviluppo per uscire dalla difficile situazione economica attuale. In una Bolivia così diversa e con un “razzismo” che continua a essere un problema, già si parla di “farla finita con il socialismo”, dell’eliminazione dello status Plurinazionale dello Stato e della wiphala (bandiera dei popoli originari) come simbolo nazionale, del ritorno al sistema educativo precedente “che non indottrini”, etc..  Al centro non ci sarà la questione sociale, né quella dei popoli originari o della “Madre terra”, ma l’economia aziendale. In ogni caso, il popolo boliviano ha una lunga tradizione di resistenza e il prossimo Presidente non avrà la vita facile. [i] https://www.jornada.com.mx/noticia/2025/08/16/mundo/por-que-la-izquierda-y-el-progresismo-pierden-elecciones Redazione Italia
Tomás Hirsch: “Jeannette Jara rappresenta la speranza che in Cile sia possibile cambiare le cose in modo profondo”
Il 29 giugno in Cile Jeannette Jara ha vinto le primarie della sinistra e sarà la candidata delle forze democratiche, progressiste, indipendenti e umaniste alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dove dovrà affrontare i rappresentanti della destra e dell’estrema destra. Discutiamo della situazione politica e sociale del Paese, delle prospettive aperte da questa vittoria e delle proposte della coalizione di sinistra con Tomás Hirsch, deputato e presidente di Acción Humanista, che ha partecipato con entusiasmo alla campagna elettorale che ha portato alla schiacciante vittoria di Jeannette Jara. Dopo quasi quattro anni di governo Boric, come vedi la situazione politica e sociale in Cile? Quali sono stati i principali progressi in questo periodo e quali le sconfitte? Indubbiamente in questi quasi quattro anni di governo del presidente Gabriel Boric, a cui abbiamo partecipato come Acción Humanista, sono stati compiuti importanti progressi, ma non abbastanza da poter dire che il Cile è un Paese in cui esistono una vera giustizia sociale e diritti sociali garantiti come quelli a cui aspiriamo. Sono stati fatti dei progressi, ma c’è ancora molta strada da fare. Perché c’è ancora molta strada da fare? Fondamentalmente perché, pur stando al governo, non avevamo la maggioranza al Congresso e questo ha significato un impedimento permanente da parte della destra a realizzare le principali trasformazioni proposte nel nostro programma di governo. Si trattava di trasformazioni strutturali nei settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e delle pensioni. Allo stesso tempo, la sconfitta subita nel plebiscito per l’approvazione di una nuova Costituzione è stata un colpo durissimo, che ha generato frustrazione e smobilitazione in molte persone. Da quel momento in poi c’è stato un cambiamento nelle priorità del governo, con una forte enfasi sulla sicurezza e su altre questioni che non erano incluse nel programma iniziale. In breve, credo che ci siano stati grandi progressi nei diritti delle donne, nei diritti del lavoro, nella riforma del sistema pensionistico e in quella del sistema educativo, per finire con il sistema di crediti e pagamenti per gli studenti, ma c’è ancora molta strada da fare e questa è la possibilità che si apre con un governo guidato da Jeannette Jara. Jeannette Jara ha sconfitto Carolina Tohá, la candidata del Socialismo Democratico, che fino a pochi mesi fa i sondaggi davano per sicura vincitrice. Quali sono stati, secondo te, gli elementi che l’hanno portata alla vittoria?   Credo che ci siano diversi elementi che hanno contribuito alla vittoria di Jeannette Jara. In primo luogo, le sue caratteristiche personali. La gente la percepisce come una persona genuina, sincera, vera, che non finge di essere ciò che non è, riconoscibile come una persona che viene dal popolo, con una madre che era una donna delle pulizie, con lei stessa che è stata una lavoratrice stagionale in gioventù, una bracciante agricola, ma allo stesso tempo come una persona che come Ministra del Lavoro è riuscita a far approvare importanti leggi come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento del salario minimo e la riforma del sistema pensionistico. In breve, direi che c’è un rifiuto dell’élite politica, un rifiuto di un ritorno alla vecchia Concertación, espresso nel voto molto basso per Carolina Tohá, che è stata percepita come un membro dell’élite, come una persona “distante”, che spiegava come dovrebbero essere le cose. La gente è stanca di quelli che vengono a pontificare, che vengono a spiegare dall’alto come dovrebbero essere le cose. Allo stesso tempo, credo che ci sia un’aspirazione a muoversi verso trasformazioni profonde come quelle proposte da Jeannette Jara e un rifiuto, una distanza da ciò che si percepiva di Carolina Tohá, come una politica che voleva rifondare, riprendere quella che era la vecchia Concertación. C’è stato anche un voto punitivo per il Frente Amplio, che credo rifletta anche la frustrazione per ciò che questo governo non ha fatto, per tutte le promesse e gli impegni non mantenuti, anche se in molti casi questo mancato adempimento è dovuto al fatto che l’opposizione di destra ha la maggioranza al Congresso. Jeannette Jara rappresenta quindi la speranza, il ritorno della speranza che sia possibile cambiare le cose in modo profondo. Credo che questo elemento abbia avuto una forte influenza, rafforzato anche dalle sue caratteristiche personali. Jeannette viene percepita come una persona molto semplice, comunicativa, che vive e conosce davvero i problemi di cui soffre la stragrande maggioranza della gente. In un certo senso queste elezioni primarie sono state definite come una scelta tra “popolo ed élite”. Vedi delle analogie con un’altra vittoria inaspettata e incoraggiante, quella di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per il candidato sindaco di New York?  Si possono certamente riconoscere delle analogie con la vittoria molto incoraggiante di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York. In Cile e negli USA queste vittorie esprimono una ribellione alle vecchie proposte conservatrici che promettono, ma alla fine non cambiano nulla. Credo che entrambi rappresentino la freschezza del nuovo, la possibilità di cambiare, le speranze delle nuove generazioni. In breve, mi sembra che ci siano delle analogie e che ci siano anche delle somiglianze con quanto abbiamo visto in Messico con l’elezione e le politiche portate avanti da Claudia Sheinbaum, l’attuale presidente del Paese. Che cosa ha spinto Acción Humanista a sostenere la candidatura di Jeannette Jara? In Acción Humanista abbiamo deciso di sostenere Jeannette Jara diversi mesi fa, quando nessuno la vedeva come una candidata con possibilità di vincere le elezioni primarie. La decisione è stata presa in un ampio consiglio generale all’unanimità e grazie a un registro di coerenza. Abbiamo ritenuto che fosse la cosa giusta da fare, che non si trattava di un calcolo elettorale, ma che dovevamo fare la nostra scelta sulla base di un registro di coerenza, che lei rappresentava le aspirazioni più sentite del mondo dell’umanesimo, che la sua proposta rifletteva le nostre priorità, le nostre lotte fondamentali. Va sottolineato che, oltre ai comunisti, il suo partito, Acción Humanista è stata l’unico altro partito a sostenerla alle primarie. Da questo punto di vista, tralasciando tutti i calcoli, e pensando all’epoca che molto probabilmente non avrebbe vinto, c’è stato un consenso per appoggiare la sua candidatura. Lo abbiamo fatto in modo molto attivo, ci siamo uniti al suo direttivo, siamo stati tra i principali portavoce della sua campagna, sia la deputata e vicepresidente di Acción Humanista, Ana María Gazmuri, sia il nostro sindaco Joel Olmos, sia io, come deputato e presidente di Acción Humanista. La nostra gente ha partecipato molto attivamente in tutte le regioni e i Comuni in cui siamo presenti. Abbiamo anche creato un legame umano molto stretto con Jeannette e credo che siamo riusciti a dare un contributo in termini di sguardo, di stile, di atteggiamento, di collocazione dell’umanesimo nel rapporto che stavamo costruendo con lei, che andava avanti già da prima e che ora è proiettato verso il primo turno delle elezioni,  a novembre. Valutando la nostra decisione ora che Jeannette ha vinto con una maggioranza schiacciante alle primarie, crediamo che sia stato un atto molto valido, che ci permette di guardare al futuro con grande speranza. Come umanisti siamo molto impegnati a continuare a lavorare insieme, a contribuire con uomini e donne ai rispettivi team di lavoro, a collaborare negli aspetti programmatici, editoriali, organizzativi e comunicativi. Sappiamo che in questa nuova fase confluiranno anche le équipe degli altri partiti progressisti che hanno perso alle primarie e hanno promesso il loro sostegno, per cui si formerà un direttivo molto più ampio e diversificato e continueremo a contribuire con la visione e le proposte dell’umanesimo. Quali sono i punti principali del programma della sinistra? I punti principali del programma sono, in primo luogo, passare da un salario minimo, che è già cresciuto molto con questo governo, a quello che noi chiamiamo un salario vitale, cioè un salario che permetta a una famiglia di vivere in modo decente e dignitoso.  In secondo luogo, portare avanti e approfondire la riforma del sistema pensionistico, auspicabilmente fino a porre fine alle “Administradoras de Fondos de Pensiones” ( AFP)[1].  In terzo luogo, portare avanti un modello di sviluppo e crescita con una migliore distribuzione del reddito, dando priorità ai progressi verso un maggiore valore aggiunto nell’economia del Paese, che è fondamentalmente un’economia estrattivista ed esportatrice di materie prime. Quarto, migliorare le condizioni nello sfruttamento dei nostri minerali, aumentando le royalties e puntando a recuperare l’industria del litio come industria strategica per il nostro Paese. Quinto, fare progressi nella riforma del sistema sanitario, rafforzando la sanità pubblica, che oggi soffre ancora di enormi carenze a causa della mancanza di finanziamenti adeguati che le permettano di competere meglio con i sistemi sanitari privati. In sesto luogo, una politica che ponga l’accento sulla protezione dell’ambiente, tenendo conto delle crisi climatiche, del riscaldamento globale e dei rischi che queste crisi climatiche comportano oggi per il nostro Paese. Pertanto, i criteri ambientali costituiscono un aspetto strategico e fondamentale del nostro programma di governo. Settimo, rafforzare e far progredire le relazioni internazionali con la nostra regione, mantenendo i legami con i Paesi dei cinque continenti, ma promuovendo una politica di pace, soprattutto nella nostra regione latinoamericana. Questi sono alcuni degli aspetti del programma di governo, che in questa fase sarà arricchito con le proposte programmatiche degli altri candidati che hanno partecipato alle primarie e hanno perso. Ci siamo impegnati a includere anche le loro proposte, per elaborare un programma comune a tutto il progressismo e l’umanesimo. Quali prospettive vedi per le elezioni presidenziali di novembre? Qualche tempo fa si dava per scontato che le elezioni di novembre sarebbero state vinte dalla candidata di destra Evelyn Matthei e c’era anche il rischio che vincesse un candidato di estrema destra come José Antonio Kast. Oggi direi che questo scenario è cambiato. I primi sondaggi dopo le primarie danno un ottimo primo posto a Jeannette Jara, molto più avanti di Matthei e Kast. Naturalmente il panorama è ancora aperto, mancano cinque mesi e possono succedere molte cose, ma credo che oggi sia un’elezione aperta e che il mondo della sinistra, del progressismo e dell’umanesimo possa vincere. Metteremo tutto in gioco per ottenere questa vittoria, che probabilmente non sarà al primo turno di novembre, ma al secondo turno di dicembre. Oggi Jeannette Jara è chiaramente una candidata molto competitiva, che sta generando una grande speranza in molte persone, soprattutto tra i giovani. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo [1] Un sistema istituito nel 1981 dal regime militare di Pinochet, affidando le pensioni a società finanziarie private che gestivano i contributi dei lavoratori senza alcun intervento statale o contributo da parte dei datori di lavoro. Anna Polo
Cile, Jeanette Jara vince le primarie della sinistra per le elezioni presidenziali
La vittoria alle primarie di Jeannette Jara Román ha avuto due aspetti fondamentali: una percentuale schiacciante di voti e una chiara affermazione del suo messaggio. A novembre, al primo turno delle elezioni presidenziali, rappresenterà le forze democratiche, progressiste, umaniste e di sinistra e ampi settori della cittadinanza. Jeannette Jara Román inizia ora il cammino verso La Moneda. La sera di domenica 29 giugno Jeannette Jara aveva ottenuto circa il 60% dei voti, con circa 30 punti di vantaggio sulla sua più vicina sfidante, Carolina Tohá, candidata di Socialismo Democratico (SD). Il voto per Jeannette Jara ha mostrato un ampio sostegno a livello nazionale, che avrà un impatto sulla competizione presidenziale del prossimo novembre. Ha vinto in più di 330 Comuni in tutto il Paese, un successo enorme. La candidata del Partito Comunista (PC), di Azione Umanista (AH), della Sinistra Cristiana (IC) e degli indipendenti ha infranto le previsioni di un paio di mesi fa, che davano per sicura la vittoria della candidata di Socialismo Democratico (SD). Jeannette Jara ha guadagnato terreno, ha presentato misure concrete, si è dimostrata aperta al dialogo e vicina al popolo e ha ottenuto quello che oggi è un trionfo per la sinistra cilena. Un elemento non del tutto riuscito è stato il numero di votanti, che non ha superato il milione e mezzo alla chiusura dei seggi, quando si era detto che l’optimum sarebbero stati due milioni di votanti. In ogni caso, la cifra rientra nei margini stabiliti dal partito al governo. È già chiaro che Jeannette Jara sarà la principale contendente contro i candidati di destra e di estrema destra, rappresentando ampi settori democratici, progressisti e di sinistra e diventando un’opzione per la cittadinanza. In molti settori della politica, della società civile e dei media, si è ribadito che la vittoria di Jara è stata un importante risultato politico ed elettorale per il Partito Comunista, che alcuni hanno definito “storico”, un fatto senza precedenti anche in America Latina e a livello internazionale negli ultimi decenni. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo     El Siglo