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Honduras: testa a testa tra i candidati dell’oligarchia
Dopo una giornata trascorsa in modo del tutto pacifico, i primi risultati diffusi dall’organo elettorale (Cne) attraverso il sistema di trasmissione di risultati preliminari (Trep) hanno completamente stravolto il panorama, con un impatto devastante sulle aspettative di chi puntava sulla continuità del progetto di “rifondazione” del Paese, promosso dal partito Libertà e Rifondazione (Libre) e dalla sua candidata Rixi Moncada. Sebbene Libre abbia da tempo annunciato che avrebbe riconosciuto solamente il risultato dello scrutinio finale della totalità dei verbali elettorali – cosa riaffermata nella nottata di ieri dalla stessa Moncada – la distanza di oltre 20 punti dai due candidati del bipartitismo affossa qualsiasi speranza. La diffidenza verso il conteggio preliminare deriva da una serie di audio in cui membri del Partito Nazionale, tra cui una consigliera del Cne, discutevano su un piano per hackerare la trasmissione stessa dei dati, creando una narrativa per proiettare uno dei candidati della destra come sicuro vincitore. La manovra sarebbe servita a destabilizzare l’intero processo elettorale e obbligare a indire nuove elezioni. L’appuntamento elettorale in Honduras si risolve quindi con un testa a testa tra i candidati della destra tradizionale Nasry Asfura e Salvador Nasralla, che incarnano il progetto neoliberista estrattivista e che rappresentano gli interessi dell’oligarchia nazionale, del capitale multinazionali e, ovviamente, degli Stati Uniti. Anche a livello di Parlamento, le proiezioni danno un emiciclo a netto appannaggio del bipartitismo, con Libre che si dovrebbe accontentare di una trentina di deputati su un totale di 128. Il margine risicato con una differenza inaspettata a favore di Asfura di soli 500 voti, l’enorme divario tra la candidata di Libre e i suoi avversari e la caduta del sistema di conteggio per quasi una giornata, gettano ulteriori ombre sull’intero processo. Mentre Asfura e Nasralla si scambiano reciproche accuse e garantiscono, in base alle copie dei verbali in possesso dei loro partiti, di essere i vincitori, la candidata di Libre mostra pubblicamente il conteggio di un paio di migliaia di seggi in cui non si sarebbero usate le misure di sicurezza biometriche. “Nella maggior parte di questi seggi vincono i due partiti d’opposizione, i risultati sono gonfiati ed appaiono nel conteggio del Trep. Faremo ricorso nelle apposite sedi. Come avevano detto stanno cercando di ingannarci, ma la nostra lotta non è finita e io non mi arrendo”, ha detto Moncada. Si prospetta un lungo ed estenuante tira e molla per decretare il vincitore di queste elezioni. Il Cne ha tempo fino al 30 dicembre per farlo. Uno dei simboli del disincanto di una popolazione che solo quattro anni fa aveva portato in trionfo Xiomara Castro, castigando il partito dell’ex presidente e reo per crimini legati al narcotraffico, Juan Orlando Hernández, è la bassa affluenza alle urne che sarebbe intorno al 50 per cento. Molto lontana da quel 69 per cento del 2021. Difficile azzardare un’analisi a caldo di una situazione in continua evoluzione. Proviamo comunque a introdurre una serie di elementi, tanto esogeni come endogeni. “Governo e partito sono stati assediati fin dall’inizio da una campagna mediatica massiccia e distruttiva, che ha inciso pesantemente sull’immaginario collettivo di una popolazione che voleva liberarsi da una narcodittatura e che aveva aspettative molto alte, ma anche su una nuova generazione di votanti che non ha o non vuole avere memoria storica”, spiega l’analista politica Reina Rivera. Un altro elemento è costituito dal sostegno sfacciatamente interventista del presidente Donald Trump ad Asfura, che ha avuto un forte impatto soprattutto sugli honduregni che vivono negli Stati Uniti, sulle famiglie che sopravvivono con i trasferimenti in dollari (remesas) o su chi crede innocentemente agli aiuti economici all’Honduras in caso di vittoria del candidato nazionalista. “È pericoloso che con un semplice messaggio sui social si possa stravolgere l’esito di un’elezione. Siamo di fronte a un riposizionamento strategico e militare degli Stati Uniti nella regione, una nuova avanzata globale, non solo contro il Venezuela, Colombia o Cuba, ma contro tutti quei governi che non seguono pedissequamente le direttive di Washington”, aggiunge l’avvocata e attivista dei diritti umani. Rivera analizza anche fenomeni interni a Libre e al governo che hanno contribuito all’esito negativo di queste elezioni. “Libre ha fatto molto in termini di politica sociale, ma ha sbagliato nella costruzione di una narrativa che non ha saputo includere anche quei settori popolari interessati a costruire criticamente insieme. Si è allontanato da un movimento sociale e popolare che ha contribuito alla sua nascita come soggetto politico, inglobando nel progetto governativo molte delle sue figure di maggior spicco e indebolendo così il tessuto sociale di sostegno”, spiega. L’analista politica sottolinea anche le difficoltà nel fare conoscere ciò che con successo si stava facendo, contrastando così la campagna mediatica denigratoria e di occultamento dei processi di trasformazione in atto. “Sono state fatte molte cose che hanno anche portato a una significativa riduzione della povertà, ma non si è quasi mai riusciti a rompere il muro di silenzio e il boicottaggio mediatico. Inoltre – continua – ci si è molto concentrati sull’area rurale, dove però l’investimento in politiche sociali non si trasforma automaticamente in voti, bensì si scontra con tradizioni politiche familiari e il controllo “caudillesco” del sindaco di turno. Rompere queste dinamiche non è facile”. Per Rivera, lo scenario dei prossimi anni si annuncia estremamente complicato. “Torna l’estrema destra e lo farà senza fare sconti a nessuno e con un forte sentimento di rivalsa. La svendita della sovranità, la distruzione dei territori, il saccheggio dei beni comuni, lo Stato di nuovo in balia delle banche e le forze repressive contro chi difende la terra. Faranno di tutto – continua – per affossare ciò che di buono è stato fatto in materia di giustizia sociale. Verranno tempi duri per i diritti delle donne, della comunità LGBTIQ, per le popolazioni indigene e nere, per le comunità contadine e la difesa della sovranità alimentare”. Di fronte a questo scenario, conclude Rivera, non è però il momento di abbassare le braccia, né di chinare la testa. “È il momento di tornare alle radici della resistenza, di pensare e sviluppare un progetto politico-sociale che torni ad unire la politica con la lotta sociale, con la dignità e il popolo. Nella sconfitta, per favore, non rinunciamo alla speranza e nemmeno alla memoria”. Fonte: Pagine Esteri Giorgio Trucchi
Catherine Connolly: la nuova presidente irlandese è sinonimo di giustizia e pace
> Il 25 ottobre 2025 Catherine Connolly è stata eletta presidente della > Repubblica d’Irlanda con circa il 63% dei voti. Questa vittoria elettorale non > solo segna un cambiamento alla presidenza, ma rappresenta anche un notevole > cambiamento politico nel piccolo paese dell’Europa nord-occidentale. La > politica indipendente, che si definisce socialista e pacifista, ha assunto una > carica che finora aveva soprattutto un significato simbolico, ma il cui > carisma morale non è affatto da sottovalutare. La campagna elettorale è stata caratterizzata da un netto contrasto. L’unica concorrente di Connolly, Heather Humphreys, rappresentava l’establishment conservatore. Dopo aver fatto parte per dieci anni di diverse coalizioni di governo, si è presentata come “filoeuropea”, senza spiegare cosa intendesse con questo termine. La sua campagna si è concentrata meno sulle proprie visioni e più sull’indebolimento della sua avversaria, il che alla fine ha giocato a favore di Connolly. COSA C’È DIETRO QUESTO RISULTATO? Diversi fattori hanno contribuito alla netta vittoria di Connolly e, allo stesso tempo, il suo successo offre lo spunto per esaminare criticamente le dinamiche dei cambiamenti politici in Irlanda. Una candidata con un profilo locale: Connolly è originaria di Galway, è cresciuta in una famiglia cattolica di operai con molti figli e parla irlandese. Le sue origini hanno un peso simbolico: incarnano una forma di “patriottismo soft”, in cui l’identità nazionale non è contrapposta in modo aggressivo alle altre, ma è radicata nella società e nella comunità. Alleanze e sostegno dalla sinistra: sebbene Connolly si sia candidata come indipendente, ha ricevuto il sostegno dei partiti e dei movimenti di sinistra, tra cui Sinn Féin, People Before Profit, i Verdi e i Socialdemocratici. Questo ampio sostegno ha reso possibile il suo successo, proprio perché i grandi partiti tradizionali del Paese, Fine Gael e Fianna Fáil, si sono indeboliti. Temi che riscuotono successo: Connolly ha posto in primo piano temi che stanno acquisendo sempre più rilevanza in Irlanda: politica di neutralità, questioni di pace, critica al riarmo, cambiamento climatico, disuguaglianza sociale. La sua posizione sui conflitti internazionali – in particolare il suo impegno contro la guerra e le esportazioni di armi – ha trovato riscontro positivo. Ha definito la guerra a Gaza un genocidio e ha accusato il governo degli Stati Uniti di favorirlo. Ha criticato il massiccio riarmo militare dell’UE e lo ha paragonato alla Germania degli anni ’30. Debolezza della concorrenza tradizionale: i partiti di governo hanno presentato candidate le cui campagne elettorali non sono apparse particolarmente dinamiche e i cui temi non hanno toccato le corde sensibili di gran parte della popolazione. Allo stesso tempo, molte elettrici hanno espresso un voto nullo: durante la campagna elettorale, l’affluenza alle urne ha registrato un aumento dei voti nulli pari a circa il 13% nelle regioni socialmente svantaggiate. SIGNIFICATO OLTRE I CONFINI DELL’IRLANDA La vittoria elettorale di Connolly ha un significato che va oltre i confini dell’isola: in un momento in cui in molti Stati europei le forze di destra o di destra liberale sono affermate, l’Irlanda mostra una tendenza opposta. L’elezione di una presidente di sinistra con circa due terzi dei voti invia un segnale: anche in un contesto di liberalizzazione dell’economia di mercato è possibile eleggere una politica che metta in primo piano la giustizia sociale, l’antimilitarismo e la partecipazione democratica. Allo stesso tempo, il voto evidenzia alcuni limiti: la carica di presidente in Irlanda è quasi puramente rappresentativa e non ha praticamente alcun potere esecutivo. Resta da vedere se la presidenza di Connolly influenzerà effettivamente il corso delle decisioni politiche importanti, ma la sua elezione aumenta la pressione sul governo e sui partiti tradizionali affinché affrontino in modo concreto, e non solo simbolico, le preoccupazioni di gran parte della popolazione. La vittoria elettorale di Catherine Connolly è più di un trionfo personale. Essa riflette gli stati d’animo della popolazione, in cui la giustizia sociale, la politica di pace e la partecipazione democratica contano sempre di più. Allo stesso tempo, mostra la trasformazione di un sistema politico che finora era stato largamente dominato da due grandi partiti. Affinché questo risultato abbia un effetto, è tuttavia necessario colmare il divario tra simbolo e sostanza in un Paese che sta cambiando rapidamente dal punto di vista economico e le cui contraddizioni sociali sono diventate evidenti. Per la sinistra, non solo in Irlanda ma a livello internazionale, questa vittoria elettorale è fonte di coraggio, ma comporta anche un compito: più che lanciare un segnale, significa cambiare concretamente. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Reto Thumiger
Cospirazione e colpo di stato elettorale in Honduras?
A un mese dalle elezioni generali, in cui oltre 6,3 milioni di persone saranno chiamate alle urne per eleggere  presidente, deputati del Congresso e del Parlamento centroamericano, sindaci e  consiglieri comunali, la situazione elettorale in Honduras è sempre più tesa. Mercoledì scorso (29/10), il procuratore generale Johel Zelaya ha convocato una conferenza stampa in cui ha reso noto il contenuto di alcune registrazioni audio (QUI la trascrizione completa), consegnate  alcuni giorni prima da uno dei tre titolari del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Marlon Ochoa, in carico al partito di governo Libertà e Rifondazione – Libre, in cui viene rivelato un presunto piano per boicottare e destabilizzare le elezioni del prossimo 30 novembre. Tale piano coinvolgerebbe il deputato Tomás Zambrano, capogruppo del Partito nazionale dell’Honduras, la consigliera del Cne, Cossette López Osorio, e un membro non identificato delle forze armate. Caos programmato La strategia prevede sia l’infiltrazione nella  logistica del trasporto di urne e schede votate, per ritardare e pilotare la comunicazione dei primissimi risultati, che la manipolazione della trasmissione elettronica dei risultati preliminari, generando così un clima di crescente sospetto, crisi e caos a livello nazionale e internazionale. Tensione e confusione che, in caso di vantaggio della candidata di Libre, Rixi Moncada, contribuirebbero a spalancare le porte a un mancato riconoscimento dei risultati finali. L’insieme delle azioni cospirative avrebbe come fattore scatenante l’induzione nell’opinione pubblica della percezione che il vincitore sia invece il candidato del Partito liberale, Salvador Nasralla, e che Libre stia tramando una frode per non cedere il potere. A rafforzare il piano destabilizzatore contribuirebbe poi la massiccia azione di divulgazione attraverso media, piattaforme e social controllati e finanziati dai principali gruppi economici legati all’opposizione politica, da sempre ostili al governo progressista di Castro e al partito sorto come braccio politico del movimento di resistenza contro il colpo di stato cívico-militare, che nel 2009 depose con la forza delle armi l’allora presidente Manuel Zelaya. L’infiltrazione dei gruppi di osservazione elettorale con militanti del Partito nazionale potenzierebbe ulteriormente la narrativa e la percezione nella popolazione e nella comunità internazionale della frode elettorale, dando il via alla mobilitazione delle basi nazionaliste che contribuirebbero ad aggravare il caos e l’instabilità. Il mancato riconoscimento del risultato elettorale a livello internazionale, in particolare da parte degli Stati Uniti, è infatti fondamentale affinché la strategia funzioni e siano indette nuove elezioni. Le solite manovre L’orchestrazione da Washington di strategie per impedire alle forze progressiste di arrivare al governo o di continuare a governare in Honduras non è certo una novità. Nel 2017, l’allora ambasciatrice statunitense avallò e benedisse i brogli che permisero un secondo mandato presidenziale a Juan Orlando Hernández, attualmente detenuto negli Stati Uniti per reati legati al narcotraffico. Qualcosa di molto simile accadde anche durante le elezioni del 2013 (primo mandato di Hernández, che aveva come principale avversario l’attuale presidente Castro) e il colpo di Stato del 2009. Nel 2017, le proteste furono represse con violenza, con un bilancio di oltre trenta persone uccise e centinaia di feriti. Molti cittadini dovettero abbandonare il Paese per sfuggire alla repressione e alla cattura. Particolarmente ironica è la situazione dell’istrionico conduttore di programmi sportivi Salvador Nasralla, che otto anni fa fu candidato presidenziale di un’alleanza guidata da Libre, nonché il primo a denunciare a livello nazionale e internazionale le innumerevoli irregolarità che lo privarono della vittoria. Ora sarà proprio lui a trarne il maggior vantaggio, alleandosi con chi gli impedì di essere presente e  accettando la benedizione di nazionalisti e trumpiani. Indagini a tappeto Nonostante le dichiarazioni di López e Zambrano, quest’ultimo sostenuto dai principali leader del Partito nazionale, che denunciano pesanti pressioni, la falsità delle registrazioni, per le quali sarebbe stata usata l’intelligenza artificiale, e i rischi che corre la democrazia, il procuratore Zelaya ne ha assicurato l’autenticità e ha confermato l’inizio delle indagini. “Daremo istruzioni affinché si inizi a indagare l’accaduto, si assicuri la protezione delle registrazioni e vengano citati i testimoni”. Zelaya ha ricordato che qualsiasi tentativo deliberato di manipolare i risultati elettorali costituisce un reato di tradimento della patria, che in Honduras è punibile con una pena detentiva da 15 a 20 anni e l’interdizione assoluta per un periodo doppio rispetto alla durata della pena. Da parte sua, la presidente Xiomara Castro, attraverso il suo account su X, ha condannato con assoluta fermezza “questa cospirazione criminale volta a provocare un colpo di Stato elettorale”. Ha poi dichiarato di aver chiesto alle forze armate di indagare sul coinvolgimento di militari nel tentativo di destabilizzazione, nonché al ministro degli Esteri di denunciare i fatti alla comunità internazionale. “Gli stessi gruppi che hanno violato la Costituzione nel 2009 e che hanno consumato le frodi elettorali del 2013 e del 2017, oggi tentano nuovamente di soppiantare la volontà del popolo, generare caos e sequestrare la sovranità popolare”, ha affermato Castro. “Difenderemo la democrazia e la volontà dei cittadini con tutta la forza della legge, garantendo elezioni libere e trasparenti, la pace sociale e il rispetto incondizionato dello Stato di diritto e dell’ordine costituzionale”, ha aggiunto. Anche la candidata presidenziale di Libre ha reagito agli ultimi eventi. “Alla luce delle registrazioni che rivelano l’operazione fraudolenta di una mafia elettorale all’interno del CNE, affermo con chiarezza: non esiste il crimine perfetto! La difesa delle elezioni e della democrazia assume oggi un carattere storico”. Moncada ha inoltre chiesto al procuratore generale di agire con tutta la forza della legge, e alla consigliera Cossette López di rimettere immediatamente il mandato. “Nessuno che partecipi a una cospirazione di tale portata ha la legittimità per ricoprire una carica come autorità elettorale”. Fonte: LINyM (spagnolo) Giorgio Trucchi
Irlanda, alle presidenziali vince la candidata pro Palestina e contro la Nato
Ha criticato duramente la NATO, ha votato contro i trattati dell’UE, ha condannato Israele per la guerra a Gaza parlando apertamente di genocidio, ha promesso di difendere la neutralità militare del suo Paese. Con questi punti del suo programma, Catherine Connolly, 68 anni, ex sindaco della città occidentale di Galway, è stata eletta presidente dell’Irlanda. Nel silenzio pesante della bassa affluenza elettorale, Connolly, ha conseguito una vittoria netta nelle presidenziali irlandesi, imponendosi con circa il 63% dei voti, contro il 29,5% della sfidante Heather Humphreys. La candidata indipendente di sinistra, che negli ultimi nove anni ha ricoperto il ruolo di deputata socialista dell’opposizione nel Parlamento irlandese, ha raccolto il sostegno compatto delle forze progressiste e dei partiti a sinistra del Labour, grazie a una campagna che ha avuto come temi centrali la denuncia delle politiche militari occidentali e un forte impegno a sostegno del popolo palestinese. Il risultato segna una rottura rispetto alle precedenti candidature dell’establishment e invia un segnale nitido al governo di Dublino: l’elettorato guarda altrove, premia il coraggio e la divergenza su tematiche calde e chiede una voce che non si limiti all’ordinaria rappresentanza. Proveniente da un quartiere popolare di Galway e con un passato da avvocata e psicologa clinica, Connolly ha costruito la sua carriera prima nel Partito Laburista, poi come indipendente, fino a diventare deputata dal 2016 e nel 2020 è stata eletta vicepresidente della Dáil Éireann, la camera bassa dell’Oireachtas (Parlamento) della Repubblica d’Irlanda. Il suo successo elettorale è stato favorito da un’inedita alleanza trasversale delle forze di sinistra, tra cui Sinn Féin, che hanno deciso di concentrare il sostegno su di lei. Contestualmente, la campagna della candidata ha puntato con forza sui temi critici della crisi abitativa, del costo della vita e della disillusione verso i grandi partiti governativi. Sul piano delle idee, Connolly ha fatto della difesa della neutralità nazionale e della critica delle politiche militari occidentali il cuore della sua proposta. Ha ripetutamente denunciato l’espansione della NATO a est e la militarizzazione europea in seguito dell’Operazione Speciale, sostenendo che l’Irlanda non debba allinearsi automaticamente alle logiche dei blocchi. Le sue posizioni hanno sollevato polemiche per il rischio di alienarsi gli alleati dell’Irlanda e, in particolare, ha dovuto affrontare le domande dei suoi sostenitori durante un evento elettorale in un pub di Dublino, dopo aver paragonato gli attuali piani della Germania per aumentare la spesa per la difesa alla militarizzazione nazista degli anni Trenta. Nonostante le critiche, è rimasta ferma nella sua opposizione ai piani dell’UE per il programma ReArm Europe, che prevede un aumento della spesa per il riarmo di 800 miliardi di euro e ha precisato di voler tutelare la tradizione irlandese di neutralità militare, di fronte alle richieste di un maggiore contributo del Paese alla difesa europea. Durante la sua campagna elettorale, ha affermato che dovrebbe essere indetto un referendum sul piano governativo per rimuovere il “triple lock“, un sistema a tre componenti che regola le condizioni per l’impiego di soldati irlandesi in missioni internazionali. La procedura richiede l’approvazione delle Nazioni Unite, la decisione del governo e un voto del Dáil. Sul fronte geopolitico, Connolly ha assunto una posizione decisa sulla questione palestinese, condannando le operazioni israeliane nella Striscia di Gaza e parlando apertamente di «genocidio». A settembre è stata criticata per aver definito Hamas «parte integrante del tessuto del popolo palestinese» e per aver difeso il diritto dell’organizzazione politica e militare a svolgere un ruolo futuro in uno Stato palestinese. Questa posizione ha suscitato la disapprovazione del Primo Ministro Micheál Martin, leader del Fianna Fáil, e del Ministro degli Esteri Simon Harris, leader del Fine Gael, l’altro partito del governo di centro-destra irlandese. Martin l’ha criticata per essere apparsa riluttante a condannare le azioni del gruppo militante nell’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele. In seguito, Connolly ha aggiustato il tiro, dichiarando di aver «condannato totalmente» le azioni di Hamas, ma non si è tirata indietro nel continuare a criticare i crimini di Israele nella Striscia di Gaza. Nel dibattito presidenziale finale trasmesso in televisione martedì scorso, è stato chiesto a Connolly come avrebbe trattato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – che possiede un resort di golf in Irlanda e ha intenzione di visitarlo quando ospiterà l’Irish Open l’anno prossimo – in una eventuale visita del tycoon nel Paese e se fosse pronta a sfidarlo in prima persona in merito al sostegno degli Stati Uniti a Israele nella guerra a Gaza. «Il genocidio è stato reso possibile e finanziato dal denaro americano», ha esordito Connolly, che si è detta disponibile a incontrare il presidente USA e a confrontarsi con lui su questi temi. Lo stile schietto di Connolly e il suo messaggio di uguaglianza sociale e inclusività hanno conquistato molti, soprattutto i giovani elettori. Nei dibattiti presidenziali trasmessi in televisione, ha affermato che rispetterà i limiti del suo incarico, sebbene nel suo discorso di accettazione abbia anche affermato che avrebbe parlato “quando necessario” come presidente. La carica presidenziale in Irlanda, sebbene prevalentemente simbolica, ricopre un ruolo di rappresentanza nazionale e internazionale e può incidere nei contenuti del dibattito pubblico. In questo caso, la scelta popolare rivela una Repubblica che vuole affermare un’identità autonoma, che valorizzi pluralismo, diversità e impegno di pace, in direzione opposta a un’Europa che sembra aver intrapreso la strada della guerra permanente. Le sfide immediate per la nuova presidente comprendono la gestione della coesione sociale in un Paese attraversato da tensioni su immigrazione, casa e riconciliazione nord-sud, oltre all’ipotesi di tenere un referendum sul sistema del triple lock. Con la vittoria di Connolly, l’Irlanda recupera la propria vocazione storica alla neutralità, proiettandosi sulla scena internazionale come voce autonoma e critica nei confronti dell’ordine globale, decisa a rivendicare un modello politico fondato sulla sovranità, la pace e la solidarietà tra i popoli.   L'Indipendente
Bolivia a destra, una sconfitta annunciata
Tra profonde tensioni interne, domenica 17 agosto più di 7,5 milioni di cittadini-e boliviani-e (di cui circa 400.000 all’estero in 22 Paesi) sono stati chiamati alle urne per scegliere tra sette candidature a Presidente e Vice-presidente. Candidature tutte al maschile, dopo che l’unica candidata donna, Eva Copa, aveva rinunciato a causa dello scarso appoggio nei sondaggi. Si è votato anche per eleggere 36 senatori; 130 deputati, sette deputati dei popoli originari e nove rappresentanti presso organismi parlamentari sovranazionali, uno per ogni dipartimento. Dato che nessun candidato ha raggiunto la maggioranza necessaria, il ballottaggio ci sarà il 19 ottobre, mentre il vincitore si insedierà l’8 novembre. In testa al primo turno c’è Rodrigo Paz Pereira, con la sigla del Partito Democratico Cristiano (PDC) che ha ottenuto circa il 32% dei voti. Al secondo posto, il sempiterno Jorge (Tuto) Quiroga dell’Alleanza Libre, di estrema destra, con circa il 28%. Saranno loro due i contendenti al ballottaggio. Al terzo posto con circa il 20%, si piazza Samuel Doria Medina (Alleanza Unidad) di centro-destra, al suo quarto tentativo presidenziale. A differenza dei sondaggi, che prevedevano un testa a testa tra Quiroga e Doria, la vera sorpresa è stata la vittoria al primo turno di Rodrigo Paz Pereira. Ex deputato, ex sindaco, economista di professione è nato in Spagna a causa dell’esilio dei suoi genitori.  E’ infatti figlio di Jaime Paz Zamora, ex presidente del Paese andino, nonché nipote di un altro ex-Presidente, Victor Paz Estenssoro. Da parte sua, lo sconfitto Doria Medina, ha fatto subito appello al voto per Rodrigo Paz. Quel che resta del MAS Disastroso il risultato dei due candidati che facevano riferimento al Movimento al Socialismo (MAS-IPSP), dato che il partito di governo non è riuscito a trovare un candidato unitario. Da una parte, il giovane Andrónico Rodríguez, proposto come candidato di compromesso tra le due anime del MAS. La figura di Rodríguez faceva parte del rinnovamento generazionale del movimento sindacale cocalero e aveva consolidato il suo profilo istituzionale come presidente del Senato, ratificato in cinque occasioni con ampio sostegno. Ma alla fine non c’è stato accordo e Rodríguez ha raccolto circa l’8%, piazzandosi al quarto posto. Dall’altra, Eduardo del Castillo, candidato “ufficiale” del partito di governo, rimasto al palo con un deludente 3%. In questa situazione di frattura interna, del Castillo ha dovuto affrontare la sfida più complessa. Il trentaseienne avvocato è arrivato al Ministero dell’Interno nel 2020 ed è rimasto in carica fino al maggio 2025, diventando una delle figure più visibili nel gabinetto di Luis Arce. La sua candidatura era un tentativo di rinnovare i dirigenti dopo le fratture interne del partito, ma di certo il risultato striminzito non favorisce il processo di ricambio. Il programma di Rodrigo Paz Se non ci saranno ulteriori sorprese, Rodrigo Paz dovrebbe avere la strada spianata alla Presidenza. Nel suo programma, ha fatto appello al ricambio generazionale e ha proposto uno Stato facilitatore, agile e impegnato nei confronti dei cittadini, lontano dal cosiddetto “Stato che ostacola”. Provenendo dalla regione più importante del Paese per produzione di gas, la sua campagna ha posto l’accento sul decentramento dello Stato, con l’obiettivo di ridistribuire in parti uguali il bilancio nazionale tra il livello centrale e le regioni, nell’ambito della sua “Agenda 50/50”, come parte di “un nuovo accordo di convivenza”. Tra le sue proposte spiccano l’idea di un “Capitalismo per tutti” (con crediti accessibili, riduzione delle tariffe e delle tasse e l’eliminazione delle dogane “corrotte”) la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione. Paz Pereira afferma che la Bolivia dispone di risorse proprie per rilanciare la propria economia ed ha dichiarato la sua contrarietà a ricorrere ai prestiti degli organismi internazionali. Jorge (Tuto) Quiroga: il ritorno della destra Il sessantacinquenne di Cochabamba rappresenta l’opzione dell’estrema destra boliviana tradizionale. Ex presidente tra il 2001 e il 2002, Quiroga è stato vicepresidente sotto il governo del militare golpista Hugo Banzer (1997-2001), mentre durante l’amministrazione di Jaime Paz Zamora (1989-93) è stato Sottosegretario del Ministero della Pianificazione (1989), Sottosegretario di Investimenti pubblici (1990) e Ministro delle Finanze (1992). I suoi legami con gli Stati Uniti lo posizionano come candidato dei settori economici dominanti e transnazionali, anche se, in pubblico, insiste nel mantenere una linea indipendente da Washington. “So come farlo. L’ho già fatto in passato. Il mio vantaggio è l’esperienza“, ha recentemente dichiarato in merito al suo piano di ottenere 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed altri.  Nel 2019, ha avuto un ruolo chiave nel colpo di Stato contro Evo Morales ed è stato portavoce internazionale del governo golpista di Jeanine Añez. Samuel Doria Medina Il candidato dell’Alleanza Unidad rappresentava l’aspirazione di un progetto politico di centro-destra. A 66 anni, l’uomo d’affari di Paz era al suo quarto tentativo presidenziale, dopo averci provato nel 2005, 2009 e 2014. Come secondo imprenditore più influente della Bolivia, Doria Medina è tra i 500 imprenditori più conosciuti dell’America Latina e dei Caraibi. Il suo curriculum include il passaggio attraverso il Ministero della Pianificazione e la fondazione de Unidad nel 2003, dopo il suo abbandono del Movimento Rivoluzionario di Sinistra (MIR). Il suo bagaglio elettorale del 20% sarà decisivo per eleggere il prossimo Presidente. La crisi economica Due sono stati i fattori principali della sconfitta a sinistra. Per entrambi, il governo del MAS ha perso le elezioni a causa dei propri molteplici errori politici. Da una parte una dura crisi economica e sociale che il governo Arce non ha saputo superare. Per quanto riguarda la crisi economica, dopo aver disinnescato l’ennesimo tentativo di golpe del 2019, la Bolivia aveva ripreso il cammino anti-neoliberale con la presidenza di Luis Arce, ex Ministro di Economia durante i mandati presidenziali di Evo Morales e del vice-presidente Alvaro García Linera. Ma come afferma quest’ultimo, “…il MAS come strumento politico dei sindacati e delle organizzazioni comunitarie contadine ha perso le elezioni a causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce. Con un’inflazione dei generi alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che costringe a fare code di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha raddoppiato il suo prezzo rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due terzi dei voti popolari a favore di vecchi vendi-patria che promettono di cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare le aziende pubbliche agli stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie mercenarie alla guida dello Stato. Se a tutto ciò aggiungiamo il risentimento dei ceti medi tradizionali, privati dei loro privilegi dall’ascesa sociale e dall’emancipazione politica delle maggioranze indigene, è chiaro il tono apertamente vendicativo e razzista che avvolge i discorsi della destra boliviana” [i]. Evo e il voto nullo Il secondo fattore decisivo per la sconfitta, è stata la divisione interna al blocco sociale che ha espresso il governo negli ultimi 20 anni. Purtroppo, la frattura interna al MAS viene da lontano. Da circa due anni è in corso una dura lotta interna fratricida, che ha portato ad uno scontro aperto tra Evo Morales e Luis Arce. Una frattura che si è estesa negativamente anche a molte organizzazioni di massa, che erano state la colonna vertebrale dei governi del MAS e che avevano pagato un alto prezzo di sangue per la resistenza anti-golpista.  Il lungo braccio di ferro per il controllo dello strumento politico (movimento-partito, MAS-IPSP) aveva portato alla fuoriuscita dal MAS di Morales e della sua base d’appoggio, alla spaccatura nel gruppo parlamentare con gli “evisti” che votano contro le misure del governo e ad un forte disorientamento nel blocco sociale del cambiamento. Come si ricorderà, sulla base di una discussa decisione della Corte costituzionale, Evo Morales non poteva ri-aspirare alla Presidenza, dopo aver svolto tre mandati. Ma non ha voluto accettare la decisione giudiziaria e ha mobilitato la sua base contadina, specialmente nella zona di Cochabamba, per cercare di bloccare il Paese. Nel 2016, Evo perse un referendum per la quarta candidatura, ma il Tribunale Costituzionale ribaltò il risultato. Alla fine, dopo essersi salvato da un attentato nell’ottobre 2024 (smentito dal governo Arce), in queste elezioni l’ex presidente Morales non ha potuto registrarsi come candidato presidenziale in nessun partito con personalità giuridica in vigore. Morales ha ritirato la sua candidatura e, dalla sua roccaforte nel Tropico di Cochabamba, come forma di protesta politica per avergli impedito di partecipare alle elezioni,  ha promosso attivamente il voto nullo contro il governo di Luis Arce e le candidature di opposizione. C’è da dire che, in tutto questo periodo, a nulla sono valsi i molteplici tentativi di mediazione tra i dirigenti boliviani fatti da alcuni dei governi e dei partiti della sinistra latino-americana (e non solo) per provare a ricucire i rapporti con spirito unitario. Solo Andrónico Rodriguez avrebbe avuto qualche possibilità, se il suo ex mentore Morales lo avesse appoggiato. Ma Evo lo ha bollato come traditore e ha fatto appello al voto nullo. D’altra parte, il risultato del voto nullo (circa il 19%) non preoccupa una destra che è vincente e, per il momento, si troverà una opposizione frammentata socialmente e senza una presenza parlamentare di qualche peso. In altre parole, in termini elettorali, il peso del voto nullo è francamente nullo. E ora? Con questi risultati, che impongono un accordo parlamentare, si vedrà se la Bolivia riuscirà a costruire un consenso minimo per affrontare le sue sfide strutturali. O se, al contrario, la crisi si approfondirà. Il Paese è alle porte di un cambiamento radicale nell’orientamento politico, con un ritorno alla decade neoliberista e privatizzatrice degli anni ’90. Per non parlare della politica estera. Con una gradazione di più o meno liberalismo, le destre (tutti uomini, per lo più bianchi e di classe alta) propongono un ritorno alla riduzione dello Stato, alla privatizzazione o chiusura di aziende pubbliche, alla promozione dell’iniziativa privata, al probabile taglio dei bonus sociali, la riduzioni delle tasse e un ritorno all’indebitamento ed alle condizioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o della Banca Interamericana di Sviluppo per uscire dalla difficile situazione economica attuale. In una Bolivia così diversa e con un “razzismo” che continua a essere un problema, già si parla di “farla finita con il socialismo”, dell’eliminazione dello status Plurinazionale dello Stato e della wiphala (bandiera dei popoli originari) come simbolo nazionale, del ritorno al sistema educativo precedente “che non indottrini”, etc..  Al centro non ci sarà la questione sociale, né quella dei popoli originari o della “Madre terra”, ma l’economia aziendale. In ogni caso, il popolo boliviano ha una lunga tradizione di resistenza e il prossimo Presidente non avrà la vita facile. [i] https://www.jornada.com.mx/noticia/2025/08/16/mundo/por-que-la-izquierda-y-el-progresismo-pierden-elecciones Redazione Italia
Tomás Hirsch: “Jeannette Jara rappresenta la speranza che in Cile sia possibile cambiare le cose in modo profondo”
Il 29 giugno in Cile Jeannette Jara ha vinto le primarie della sinistra e sarà la candidata delle forze democratiche, progressiste, indipendenti e umaniste alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dove dovrà affrontare i rappresentanti della destra e dell’estrema destra. Discutiamo della situazione politica e sociale del Paese, delle prospettive aperte da questa vittoria e delle proposte della coalizione di sinistra con Tomás Hirsch, deputato e presidente di Acción Humanista, che ha partecipato con entusiasmo alla campagna elettorale che ha portato alla schiacciante vittoria di Jeannette Jara. Dopo quasi quattro anni di governo Boric, come vedi la situazione politica e sociale in Cile? Quali sono stati i principali progressi in questo periodo e quali le sconfitte? Indubbiamente in questi quasi quattro anni di governo del presidente Gabriel Boric, a cui abbiamo partecipato come Acción Humanista, sono stati compiuti importanti progressi, ma non abbastanza da poter dire che il Cile è un Paese in cui esistono una vera giustizia sociale e diritti sociali garantiti come quelli a cui aspiriamo. Sono stati fatti dei progressi, ma c’è ancora molta strada da fare. Perché c’è ancora molta strada da fare? Fondamentalmente perché, pur stando al governo, non avevamo la maggioranza al Congresso e questo ha significato un impedimento permanente da parte della destra a realizzare le principali trasformazioni proposte nel nostro programma di governo. Si trattava di trasformazioni strutturali nei settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e delle pensioni. Allo stesso tempo, la sconfitta subita nel plebiscito per l’approvazione di una nuova Costituzione è stata un colpo durissimo, che ha generato frustrazione e smobilitazione in molte persone. Da quel momento in poi c’è stato un cambiamento nelle priorità del governo, con una forte enfasi sulla sicurezza e su altre questioni che non erano incluse nel programma iniziale. In breve, credo che ci siano stati grandi progressi nei diritti delle donne, nei diritti del lavoro, nella riforma del sistema pensionistico e in quella del sistema educativo, per finire con il sistema di crediti e pagamenti per gli studenti, ma c’è ancora molta strada da fare e questa è la possibilità che si apre con un governo guidato da Jeannette Jara. Jeannette Jara ha sconfitto Carolina Tohá, la candidata del Socialismo Democratico, che fino a pochi mesi fa i sondaggi davano per sicura vincitrice. Quali sono stati, secondo te, gli elementi che l’hanno portata alla vittoria?   Credo che ci siano diversi elementi che hanno contribuito alla vittoria di Jeannette Jara. In primo luogo, le sue caratteristiche personali. La gente la percepisce come una persona genuina, sincera, vera, che non finge di essere ciò che non è, riconoscibile come una persona che viene dal popolo, con una madre che era una donna delle pulizie, con lei stessa che è stata una lavoratrice stagionale in gioventù, una bracciante agricola, ma allo stesso tempo come una persona che come Ministra del Lavoro è riuscita a far approvare importanti leggi come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento del salario minimo e la riforma del sistema pensionistico. In breve, direi che c’è un rifiuto dell’élite politica, un rifiuto di un ritorno alla vecchia Concertación, espresso nel voto molto basso per Carolina Tohá, che è stata percepita come un membro dell’élite, come una persona “distante”, che spiegava come dovrebbero essere le cose. La gente è stanca di quelli che vengono a pontificare, che vengono a spiegare dall’alto come dovrebbero essere le cose. Allo stesso tempo, credo che ci sia un’aspirazione a muoversi verso trasformazioni profonde come quelle proposte da Jeannette Jara e un rifiuto, una distanza da ciò che si percepiva di Carolina Tohá, come una politica che voleva rifondare, riprendere quella che era la vecchia Concertación. C’è stato anche un voto punitivo per il Frente Amplio, che credo rifletta anche la frustrazione per ciò che questo governo non ha fatto, per tutte le promesse e gli impegni non mantenuti, anche se in molti casi questo mancato adempimento è dovuto al fatto che l’opposizione di destra ha la maggioranza al Congresso. Jeannette Jara rappresenta quindi la speranza, il ritorno della speranza che sia possibile cambiare le cose in modo profondo. Credo che questo elemento abbia avuto una forte influenza, rafforzato anche dalle sue caratteristiche personali. Jeannette viene percepita come una persona molto semplice, comunicativa, che vive e conosce davvero i problemi di cui soffre la stragrande maggioranza della gente. In un certo senso queste elezioni primarie sono state definite come una scelta tra “popolo ed élite”. Vedi delle analogie con un’altra vittoria inaspettata e incoraggiante, quella di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per il candidato sindaco di New York?  Si possono certamente riconoscere delle analogie con la vittoria molto incoraggiante di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York. In Cile e negli USA queste vittorie esprimono una ribellione alle vecchie proposte conservatrici che promettono, ma alla fine non cambiano nulla. Credo che entrambi rappresentino la freschezza del nuovo, la possibilità di cambiare, le speranze delle nuove generazioni. In breve, mi sembra che ci siano delle analogie e che ci siano anche delle somiglianze con quanto abbiamo visto in Messico con l’elezione e le politiche portate avanti da Claudia Sheinbaum, l’attuale presidente del Paese. Che cosa ha spinto Acción Humanista a sostenere la candidatura di Jeannette Jara? In Acción Humanista abbiamo deciso di sostenere Jeannette Jara diversi mesi fa, quando nessuno la vedeva come una candidata con possibilità di vincere le elezioni primarie. La decisione è stata presa in un ampio consiglio generale all’unanimità e grazie a un registro di coerenza. Abbiamo ritenuto che fosse la cosa giusta da fare, che non si trattava di un calcolo elettorale, ma che dovevamo fare la nostra scelta sulla base di un registro di coerenza, che lei rappresentava le aspirazioni più sentite del mondo dell’umanesimo, che la sua proposta rifletteva le nostre priorità, le nostre lotte fondamentali. Va sottolineato che, oltre ai comunisti, il suo partito, Acción Humanista è stata l’unico altro partito a sostenerla alle primarie. Da questo punto di vista, tralasciando tutti i calcoli, e pensando all’epoca che molto probabilmente non avrebbe vinto, c’è stato un consenso per appoggiare la sua candidatura. Lo abbiamo fatto in modo molto attivo, ci siamo uniti al suo direttivo, siamo stati tra i principali portavoce della sua campagna, sia la deputata e vicepresidente di Acción Humanista, Ana María Gazmuri, sia il nostro sindaco Joel Olmos, sia io, come deputato e presidente di Acción Humanista. La nostra gente ha partecipato molto attivamente in tutte le regioni e i Comuni in cui siamo presenti. Abbiamo anche creato un legame umano molto stretto con Jeannette e credo che siamo riusciti a dare un contributo in termini di sguardo, di stile, di atteggiamento, di collocazione dell’umanesimo nel rapporto che stavamo costruendo con lei, che andava avanti già da prima e che ora è proiettato verso il primo turno delle elezioni,  a novembre. Valutando la nostra decisione ora che Jeannette ha vinto con una maggioranza schiacciante alle primarie, crediamo che sia stato un atto molto valido, che ci permette di guardare al futuro con grande speranza. Come umanisti siamo molto impegnati a continuare a lavorare insieme, a contribuire con uomini e donne ai rispettivi team di lavoro, a collaborare negli aspetti programmatici, editoriali, organizzativi e comunicativi. Sappiamo che in questa nuova fase confluiranno anche le équipe degli altri partiti progressisti che hanno perso alle primarie e hanno promesso il loro sostegno, per cui si formerà un direttivo molto più ampio e diversificato e continueremo a contribuire con la visione e le proposte dell’umanesimo. Quali sono i punti principali del programma della sinistra? I punti principali del programma sono, in primo luogo, passare da un salario minimo, che è già cresciuto molto con questo governo, a quello che noi chiamiamo un salario vitale, cioè un salario che permetta a una famiglia di vivere in modo decente e dignitoso.  In secondo luogo, portare avanti e approfondire la riforma del sistema pensionistico, auspicabilmente fino a porre fine alle “Administradoras de Fondos de Pensiones” ( AFP)[1].  In terzo luogo, portare avanti un modello di sviluppo e crescita con una migliore distribuzione del reddito, dando priorità ai progressi verso un maggiore valore aggiunto nell’economia del Paese, che è fondamentalmente un’economia estrattivista ed esportatrice di materie prime. Quarto, migliorare le condizioni nello sfruttamento dei nostri minerali, aumentando le royalties e puntando a recuperare l’industria del litio come industria strategica per il nostro Paese. Quinto, fare progressi nella riforma del sistema sanitario, rafforzando la sanità pubblica, che oggi soffre ancora di enormi carenze a causa della mancanza di finanziamenti adeguati che le permettano di competere meglio con i sistemi sanitari privati. In sesto luogo, una politica che ponga l’accento sulla protezione dell’ambiente, tenendo conto delle crisi climatiche, del riscaldamento globale e dei rischi che queste crisi climatiche comportano oggi per il nostro Paese. Pertanto, i criteri ambientali costituiscono un aspetto strategico e fondamentale del nostro programma di governo. Settimo, rafforzare e far progredire le relazioni internazionali con la nostra regione, mantenendo i legami con i Paesi dei cinque continenti, ma promuovendo una politica di pace, soprattutto nella nostra regione latinoamericana. Questi sono alcuni degli aspetti del programma di governo, che in questa fase sarà arricchito con le proposte programmatiche degli altri candidati che hanno partecipato alle primarie e hanno perso. Ci siamo impegnati a includere anche le loro proposte, per elaborare un programma comune a tutto il progressismo e l’umanesimo. Quali prospettive vedi per le elezioni presidenziali di novembre? Qualche tempo fa si dava per scontato che le elezioni di novembre sarebbero state vinte dalla candidata di destra Evelyn Matthei e c’era anche il rischio che vincesse un candidato di estrema destra come José Antonio Kast. Oggi direi che questo scenario è cambiato. I primi sondaggi dopo le primarie danno un ottimo primo posto a Jeannette Jara, molto più avanti di Matthei e Kast. Naturalmente il panorama è ancora aperto, mancano cinque mesi e possono succedere molte cose, ma credo che oggi sia un’elezione aperta e che il mondo della sinistra, del progressismo e dell’umanesimo possa vincere. Metteremo tutto in gioco per ottenere questa vittoria, che probabilmente non sarà al primo turno di novembre, ma al secondo turno di dicembre. Oggi Jeannette Jara è chiaramente una candidata molto competitiva, che sta generando una grande speranza in molte persone, soprattutto tra i giovani. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo [1] Un sistema istituito nel 1981 dal regime militare di Pinochet, affidando le pensioni a società finanziarie private che gestivano i contributi dei lavoratori senza alcun intervento statale o contributo da parte dei datori di lavoro. Anna Polo
Cile, Jeanette Jara vince le primarie della sinistra per le elezioni presidenziali
La vittoria alle primarie di Jeannette Jara Román ha avuto due aspetti fondamentali: una percentuale schiacciante di voti e una chiara affermazione del suo messaggio. A novembre, al primo turno delle elezioni presidenziali, rappresenterà le forze democratiche, progressiste, umaniste e di sinistra e ampi settori della cittadinanza. Jeannette Jara Román inizia ora il cammino verso La Moneda. La sera di domenica 29 giugno Jeannette Jara aveva ottenuto circa il 60% dei voti, con circa 30 punti di vantaggio sulla sua più vicina sfidante, Carolina Tohá, candidata di Socialismo Democratico (SD). Il voto per Jeannette Jara ha mostrato un ampio sostegno a livello nazionale, che avrà un impatto sulla competizione presidenziale del prossimo novembre. Ha vinto in più di 330 Comuni in tutto il Paese, un successo enorme. La candidata del Partito Comunista (PC), di Azione Umanista (AH), della Sinistra Cristiana (IC) e degli indipendenti ha infranto le previsioni di un paio di mesi fa, che davano per sicura la vittoria della candidata di Socialismo Democratico (SD). Jeannette Jara ha guadagnato terreno, ha presentato misure concrete, si è dimostrata aperta al dialogo e vicina al popolo e ha ottenuto quello che oggi è un trionfo per la sinistra cilena. Un elemento non del tutto riuscito è stato il numero di votanti, che non ha superato il milione e mezzo alla chiusura dei seggi, quando si era detto che l’optimum sarebbero stati due milioni di votanti. In ogni caso, la cifra rientra nei margini stabiliti dal partito al governo. È già chiaro che Jeannette Jara sarà la principale contendente contro i candidati di destra e di estrema destra, rappresentando ampi settori democratici, progressisti e di sinistra e diventando un’opzione per la cittadinanza. In molti settori della politica, della società civile e dei media, si è ribadito che la vittoria di Jara è stata un importante risultato politico ed elettorale per il Partito Comunista, che alcuni hanno definito “storico”, un fatto senza precedenti anche in America Latina e a livello internazionale negli ultimi decenni. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo     El Siglo