Un’ora d’ariaLa presentazione alla Biblioteca Centrale della Regione Sicilia del libro di
poesie di Luigi Spera 21 di marzo edito da Redstarpress è stata davvero più che
un’ora d’aria, volendo citare la poesia che chiude la silloge, Ura d’aria, e non
solo per il suo autore, attualmente agli arresti domiciliari per fatti di
militanza civile risalenti a parecchi anni fa. Niente a confronto con l’accusa
di terrorismo che lo ha tenuto per otto mesi in regime di Alta Sicurezza nel
carcere di Alessandria, accusa caduta in Cassazione con effetto di scarcerazione
immediata.
Era tornato libero, Luigi, e che sia rimasto libero anche tra le sbarre del
carcere lo raccontano e lo cantano le ventuno poesie scritte durante la
detenzione, ventuno come il giorno in cui ci era entrato, in carcere, nel marzo
del 2024. Ma, come recita il sottotitolo, Un si po nchiuriri a primavera.
Sì, perché quello di Luigi è un canto di libertà fatto di parole e musica nella
sua lingua madre, il Siciliano, e che la stessa armonia mantengono anche nella
traduzione in Italiano, come ci dice Antonio Minaldi nel presentare la raccolta.
Luigi non è un tecnico della metrica ma riesce ad inventare regole metriche sue,
così come, pur non essendo un teorico della nonviolenza, riesce a scrivere di
nonviolenza: le sue poesie danno sempre priorità all’amore dal punto di vista di
chi la violenza subisce, sono rivolte a denunciare l’ingiustizia piuttosto che
incitare all’odio contro chi la esercita, come in Gaza. E sono musicali,
armoniose, belle.
Così tanto da darti il piacere della lettura a prescindere dal contenuto
comunque ricco di impegno civile, di introspezione e di spaccati di vita
quotidiana, come ha sottolineato l’avvocato Giorgio Bisagna, Presidente di
Antigone Sicilia, nel condividere con il numeroso pubblico presente le sue
suggestioni di lettura. È una poesia disperatamente necessaria, quella di Luigi,
di resistenza civile, capace di portarci fuori dalla disperazione in un atto
coraggioso di resistenza creativa in cui l’autore si mette a nudo dando
testimonianza della sua vita.
Anche la Dott.ssa Patrizia Valenti, direttrice della Biblioteca, nel saluto
iniziale, volgendo lo sguardo alle condizioni delle carceri, ha invitato a
riflettere su come, in una condizione di detenzione, i versi possano farsi
strumento non solo di espressione ma anche di socializzazione della propria
esperienza.
Di carcere si continua a parlare con Pino Apprendi, Garante dei detenuti in
Sicilia, che ha avuto l’opportunità di visitare tutte le carceri siciliane e di
tenere colloqui privati con detenuti e detenute senza la supervisione della
polizia penitenziaria e che conferma come i racconti sulle condizioni della
detenzione, così come cantato anche da Luigi nelle sue poesie, siano molto
lontani da ciò che il sistema vuole fare vedere.
Il carcere è quasi sempre solo per i disperati, per chi non può permettersi
avvocati importanti. Varcato il cancello i e le detenute diventano numeri di
matricola.
Così ci dice anche Luigi nel denunziare la mancata funzione rieducativa del
sistema carcerario italiano ridotto ad un tappeto sotto cui nascondere la
polvere delle contraddizioni che la società crea e di cui si vergogna perché
rappresentano il suo fallimento.
Una società che innesca le devianze e poi le occulta dentro le celle del
carcere, che attribuisce all’individuo la responsabilità del reato e poi lo
spersonalizza riducendolo a numero, privandolo, nel caso della tossicodipendenza
e dei disturbi psichici, di adeguate terapie di recupero e mostrando la natura
classista del sistema: solo i ricchi possono permettersi costose cure nelle
comunità. Nelle carceri si fa largo uso di sedativi e, come scrive Luigi nella
sua Missa sinza diu, di metadone.
Sceglie con cura le parole, Luigi, ha tanto tempo, ventidue ore al giorno di
isolamento, e poca carta. Comincia a scrivere per tenere impegnata la mente, per
prendere nota di quello che succede, per ricollocarsi nella nuova dimensione di
spazio ristretto e tempo dilatato. Analizza i tre metri quadri della cella e lì
lo spazio gli detta le parole. Scopre la capacità di fare diventare universo
ogni piccolo segnale: il passo dei secondini, il rumore delle chiavi. E scrive,
per non cadere nella trappola della resilienza che lo vorrebbe oggetto che
subisce. Resta soggetto e fa della scrittura strumento di forza per la
sopravvivenza nella capacità di adattamento.
Poi, una volta fuori dal carcere, sceglie in condivisione con familiari e
compagni, di fare della scrittura nata come forma di resistenza privata,
strumento di resistenza pubblica. Ed ecco il libro, corredato dalle
illustrazioni di Marco Mirabile di “Tutto e Niente” e con la prefazione di
Davide Ficarra dove si ribadisce il valore di liberazione dalla reclusione
dell’atto poetico e della sua capacità di rinnovare la speranza anche negli
attuali tempi cupi.
E noi gliene siamo grati, perché anche per noi le sue poesie sono state, oggi,
più che un’ora d’aria. Come aveva auspicato Verdiana Mineo, di Antudo,
moderatrice dell’incontro, sono state davvero un’occasione di riflessione sulla
fase che stiamo attraversando rispetto alla limitazione dell’espressione del
dissenso e della necessità di affinare strumenti di critica e di gestione del
conflitto.
Ma soprattutto perché sono belle.
Maria La Bianca