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La Camera respinge risoluzione sul disarmo nucleare
La Rete Italiana Pace e Disarmo esprime profondo rammarico per la bocciatura, da parte della Commissione Esteri della Camera, della risoluzione – a prima firma dell’on. Laura Boldrini – a favore di percorsi di disarmo nucleare, stimolata anche dalla campagna “Italia Ripensaci” nel ricordo dell’80° anniversario dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Un’occasione persa per definire un ruolo positivo dell’Italia nella costruzione di una sicurezza realmente condivisa e fondata sul diritto internazionale. La Risoluzione proponeva di riconoscere la crescente instabilità dell’attuale scenario globale, segnato da una rinnovata corsa agli armamenti nucleari e valorizzava norme internazionali fondamentali come il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN), nella sua complementarietà con il Trattato di Non Proliferazione e le possibile strade di definizione di politiche di “Non Primo Uso” nucleare. Tali politiche sarebbero cruciali, in un contesto di accrescimento e ammodernamento globale degli arsenali nucleari, per ridurre il rischio di escalation accidentali e per costruire maggiore prevedibilità e cooperazione. Una vera sicurezza internazionale e di ogni singolo Paese (compresa l’Italia) non potrà mai essere basata sulla minaccia di distruzione nucleare di intere città e popoli, né sull’accettazione passiva di dottrine che prevedono esplicitamente l’eventualità di un “primo uso” dell’arma atomica. È invece necessario promuovere un dibattito pubblico maturo e trasparente, fondato su un’autentica presa in carico della sicurezza delle persone. La risposta del governo, nel motivare il rigetto della Risoluzione Boldrini, contiene poi un elemento di sorprendente rilievo: per la prima volta in modo esplicito si fa riferimento alla partecipazione italiana alla missione di deterrenza nucleare della NATO tramite “assetti a doppia capacità”, cioè aerei e piloti addestrati all’uso di ordigni nucleari a confermando quindi un contributo nazionale finora mai ufficialmente confermato (e nemmeno definito in termini di impatto finanziario) al meccanismo del nuclear sharing atlantico. Si tratta di un’ammissione politicamente significativa, che avviene tuttavia senza che nel Paese si sia mai svolto un vero dibattito parlamentare e pubblico su questa forma di compartecipazione diretta alle strategie nucleari dell’Alleanza. A fronte di un’opinione pubblica chiaramente contraria alla presenza e all’uso potenziale delle armi nucleari, come mostrano tutte le rilevazioni e il crescente sostegno istituzionale all’Appello delle Città della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e di  “Italia, Ripensaci” (sottoscritto da oltre 130 Comuni e due regioni) la mancanza di trasparenza rappresenta un grave vulnus democratico. «La risposta del governo non solo conferma senza esitazioni la piena adesione alla strategia di deterrenza nucleare della NATO, ma ammette apertamente il contributo italiano al nuclear sharing. È un’ammissione di grande rilievo politico, che arriva però senza che il Parlamento e il Paese abbiano mai avuto un confronto serio sulla scelta di essere parte attiva di una dottrina che contempla anche il “primo uso” dell’arma nucleare. Accettare come inevitabile questa impostazione (che rende evidente come dietro la parola “deterrenza” si celi invece un vero e proprio “ricatto” con le armi più distruttive della storia) significa rinunciare a qualsiasi forma di autonomia politica su un tema che riguarda direttamente la sicurezza e i valori costituzionali dell’Italia», commenta Francesco Vignarca, coordinatore Campagne di Rete Pace Disarmo. «Nella NATO siamo “alleati” o “sudditi”? Davvero non è possibile proporre anche in seno all’Alleanza – a partire da un dibattito pubblico trasparente e democratico sulla presenza di armi nucleari sul nostro territorio – possibili alternative all’idea che la nostra sicurezza debba per forza essere fondata sulla possibilità di distruzione completa e genocidiaria di un presunto avversario? Il governo italiano e la stessa NATO continuano a ripetere di essere a favore di un disarmo nucleare totale: sarebbe ora di passare dalle vuote dichiarazioni ai fatti, costruendo un percorso concreto di messa al bando delle armi nucleari», conclude Vignarca. In tal senso Rete Pace Disarmo (in linea con quanto sempre affermato dalla campagna “Italia, ripensaci” promossa con Senzatomica) ribadisce che il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN) non è una norma ideologica, ma uno strumento concreto che mette al centro la vita delle persone, includendo misure innovative come il sostegno alle vittime e il risanamento ambientale. Allo stesso modo, le proposte di Non Primo Uso costituiscono un passo pragmatico per abbassare la tensione internazionale e ridurre le possibilità di un conflitto nucleare, intenzionale o accidentale. Continueremo dunque a lavorare affinché l’Italia possa contribuire a una nuova stagione di cooperazione sul disarmo, promuovendo informazione, consapevolezza e un dialogo costruttivo e responsabile. Il cambiamento è possibile: richiede coraggio politico, visione e la volontà di rispondere con trasparenza alle richieste di pace della società civile e dell’opinione pubblica italiana. Rete Italiana Pace e Disarmo
Prossimo obiettivo: chiudere la Stretto di Messina Spa
La Corte dei Conti ha bocciato la delibera del CIPESS (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) che dava il via libera al progetto definitivo del ponte. In un posto normale tutta la governance del ponte, quella politica e quella tecnica, toglierebbe il disturbo. In un percorso pieno di forzature hanno provato a tenere in piedi un iter che in piedi proprio non poteva starci. Difficile nominare le parole che vengono in mente senza procurarsi una querela, ma di certo possiamo dire che chi ha sostenuto fino a qui questa follia si è assunto la responsabilità di tenere appeso un intero territorio a una ipotesi non credibile. In tanti ci hanno guadagnato col ponte e tanti speravano di guadagnarci, ma di tutti i peggiori sono i supporter locali che, sperando in qualche prebenda, si sono sperticati in lodi per una grande opera che non avrebbe mai visto la luce pur di succhiare qualcosa. Hanno preferito vedere il proprio territorio calpestato pur di ottenere qualche incarico, qualche progetto, qualche briciola che cascasse dalla tavola imbandita di Webuild. Già adesso i rappresentanti del pontismo gridano allo scandalo sostenendo che sia stato fermato lo sviluppo del sud. Tutte stupidaggini. Il ponte sullo Stretto è espressione di politiche che succhiano ricchezza al territorio, rubano risorse pubbliche che andrebbero destinate a opere utili e le danno a una cerchia di persone molto ristretta, ma anche molto influente. Se si volesse davvero il bene del sud si userebbero i 13.5 miliardi di euro destinati a una opera che è crollata su stessa per altre opere che possono essere realizzate immediatamente: scuole, ospedali, messa in sicurezza idrogeologica, messa in sicurezza sismica, rammodernamento della rete idrica. Si può fare tutto e subito. Sappiamo, però, che non lo faranno. Sappiamo che non abbandoneranno neanche l’ipotesi del ponte. In questi ultimi 40 anni di stop e ripartenze ne abbiamo viste tante. Abbiamo visto annunciare tante volte la posa della prima pietra e indicare la data certa della fine lavori. Sarà così anche questa volta. Diranno che aggiusteranno le cose e che quest’altra volta sarà quella buona. Per loro, alla fine, va bene così. Il loro vero obiettivo non è costruire il ponte, ma tenere aperto all’infinito il suo iter. Tocca a noi adesso chiudere definitivamente la partita. Tocca agli abitanti dei luoghi oggetto della devastazione promessa mettere definitivamente la parola fine a questa storia. Per questo bisogna continuare a mobilitarsi. Per spingerli fuori dalla storia e riprenderci ciò che è nostro. C’è un primo, importante, obiettivo da darsi: chiudere la Stretto di Messina Spa. Se i partiti che sono stati al governo e oggi sono contro il ponte lo avessero fatto quando potevano, quelli alla Corte dei Conti non ci sarebbero neanche arrivati. No Ponte    Redazione Sicilia
La Corte di Cassazione boccia il Decreto Sicurezza: viola la legalità con aggravanti ingiustificate
La Cassazione boccia il Decreto Sicurezza: manca urgenza, norme eterogenee, viola legalità e proporzionalità. Rischio carcere per marginalità e dissenso. E’ un duro colpo per il governo e la maggioranza: la Legge 9 giugno 2025, n. 80, che ha convertito il controverso Decreto Legge 11 aprile 2025, n. 48, il cosiddetto Decreto Sicurezza, è a rischio di incostituzionalità in più punti. La Corte di Cassazione, nella sua relazione 33/2025 sulle novità normative (documento non vincolante ma di altissima autorevolezza giuridica), ha espresso una bocciatura senza appello, raccogliendo e facendo proprie le criticità evidenziate da tutta la comunità giuridica: dall’accademia alla magistratura, fino all’avvocatura. Il risultato, secondo la Suprema Corte, sarà un aumento dei processi e del numero di persone in carcere. Le critiche della Cassazione si concentrano su due aspetti principali: il metodo di adozione del provvedimento e i suoi contenuti. La relazione sottolinea la mancanza dei requisiti di necessità e urgenza che, per Costituzione, sono imprescindibili per l’adozione di un decreto legge. Il provvedimento ha infatti inglobato un disegno di legge che era già da mesi all’esame del Parlamento e aveva già ottenuto l’approvazione della Camera. L’uso del decreto d’urgenza, motivato con l’esigenza di “evitare ulteriori dilazioni al Senato”, si scontra con la giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale, la quale ha più volte ribadito che il ricorso al decreto-legge non può fondarsi su una “apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza” . Il decreto inoltre è eterogeneo. Si occupa, infatti, di una pluralità di materie vastissime e disparate che non sono tra loro connesse e omogenee: terrorismo, mafia, beni confiscati, sicurezza urbana, tutela delle forze dell’ordine, vittime dell’usura, ordinamento penitenziario, strutture per migranti e coltivazione della canapa. Questa eterogeneità è considerata un ulteriore vizio di legittimità costituzionale per i decreti legge. La relazione della Cassazione individua “profili problematici” anche nei contenuti di alcune norme: * aggravanti “di luogo”: vengono citate le aggravanti introdotte per i reati compiuti “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metro”. La Cassazione sottolinea come non sia chiaro per tutte le condotte punibili il nesso con il principio di offensività(secondo cui un reato deve ledere o mettere in pericolo un bene giuridico). Inoltre, il riferimento alle “immediate adiacenze” delle stazioni può generare incertezze interpretative e disparità di trattamento, come già evidenziato dal CSM (Consiglio Superiore della Magistratura); * aggravanti “di luogo e di contesto” per il dissenso: dubbi vengono espressi anche sulle aggravanti che rischiano di colpire “l’area della manifestazione del dissenso”, come quelle applicabili nei cortei. Questo potrebbe portare a una criminalizzazione eccessiva di condotte legate alla protestae alla libera espressione; * carceri e Cpr: preoccupazioni analoghe riguardano le norme sui penitenziari e i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), dove si rischia di criminalizzare la disobbedienza e la resistenza passiva, aggravando ulteriormente situazioni già critiche; * “diritto penale d’autore” e detenute madri: la relazione riporta le preoccupazioni della dottrina sul cosiddetto “diritto penale d’autore” applicato alle ipotesi di carcere per le detenute madri. Questo concetto, che “guarda non a ciò che l’uomo fa, bensì a quel che l’uomo è” (ad esempio, il riferimento alle borseggiatrici Rom), rischia di colpire le persone non per la condotta illecita specifica, ma per il loro status sociale o l’appartenenza a determinate categorie, violando i principi di uguaglianza e non discriminazione; * materiale propedeutico al terrorismo: sulla detenzione di materiale propedeutico al terrorismo, la norma rischia di anticipare eccessivamente la soglia di punibilità, criminalizzando condotte preparatorie che potrebbero essere ancora troppo distanti dalla realizzazione di un effettivo reato; * non punibilità degli agenti segreti: la Cassazione chiede un’“approfondita riflessione” sulla controversa norma che estende la non punibilità degli agenti segreti alla direzione di organizzazioni terroristiche. Questa disposizione permette agli 007 di “creare gruppi eversivi da zero” a fini preventivi, sollevando forti preoccupazioni sulla mancanza di controllo democratico e sul rischio di devianze.   Articolo 21