Il racconto della delegazione italiana alla Global march to Gaza
Due racconti, con forme diverse, per riportare l’esperienza di una parte della
delegazione italiana che ha partecipato alla Global march to Gaza, partita dal
Cairo l’11 giugno e mai arrivata a destinazione.
«ERAVAMO 4 AMICI AL BAR».
In realtà eravamo 5, anzi quasi 6. Al Cairo, con il caldo di giugno, tra cani
randagi, traffico caotico e palazzi eleganti, per la Global March To Gaza,
dall’11 al 15 giugno.
Sempre al bar o al ristorante, oppure a vedere il museo egizio e le piramidi.
Una strana March to Gaza al bar, per noi italiane e italiani. Le altre
delegazioni, quasi tutte, il 13 avevano tentato di andare a Ismailia [città
egiziana sul canale di Suez sulla via verso il Sinai e quindi verso la
Palestina, ndr], facendo un giusto tentativo di iniziare la marcia ed erano
incappate in check point e botte e rimpatri forzati. Le autorità egiziane sono
state dure e repressive e hanno impedito qualsiasi iniziativa.
Così, lunedì 16 mattina abbiamo finalmente deciso di andare, con i nostri zaini,
noi 5 quasi 6, a fare una piccola iniziativa davanti alla Delegazione della
Comunità Europea al Cairo.
Eccoci: Giuliano, propositore e sognatore, che aveva parlato di mille persone ma
poi s’è accontentato di 5 quasi 6; Manuela piccola e brontolina, piena di
energia e una gran faccia tosta; Ilaria alta e sottile, come un fiore, un
papavero con testa rossa e coraggio; Simone giovane e sempre sensibile e
generoso; Mario con il suo buffo cappello della CGIL e la bandierina dell’ANPI;
Gabriella con il suo cellulare a fare foto di nascosto.
Portavamo piccole cose: un pezzo di stoffa con su scritto «With Palestine Europe
dies», perché la nostra disgraziata Europa continua a sostenere Israele e il
genocidio a Gaza e bombardamenti e guerre, facendo morire umanità e speranza;
dei fiori, simbolo di pace, gentilezza, amore; del pane e delle medicine, a
ricordare la fame e le ferite e le sofferenze della popolazione palestinese.
Insomma avevamo queste cose terribili, pericolose e siamo state fermate e
fermati da 5, poi 10, poi 20 poliziotti, caricate e caricati su un pullmino e
portate all’aeroporto ed espulse.
È finita così la nostra avventura egiziana, su un marciapiede lungo il Nilo,
vicino a piazza Tahrir.
Con amarezza e tante domande dentro di noi.
Ma la nostra lotta non finisce.
Finirà solo quando ci sarà giustizia per quel popolo che soffre da tanti, troppi
anni.
Il momento in cui il gruppo ha realizzato il fazzoletto di protesta nei pressi
alla sede della Delegazione dell’Unione europea a Il Cairo, poco prima del fermo
[ndr]. Foto di Mario Vicentini
PALESTINE WILL BE FREE!
“With Palestine Europe dies” sono le parole che volevamo esporre davanti alla
sede dell’Unione europea al Cairo. Non ci siamo riuscite non perché abbiamo
sottovalutato ma piuttosto sopravvalutato l’intelligenza delle persone che
lavorano per un regime tanto miserabile quanto spietato.
Intorno a un pezzo di stoffa si sono raccolte prima due persone in divisa, poi
quattro, poi otto, sedici, trentadue… ogni 5 minuti raddoppiavano, fino
all’arrivo del capo (che onore!), dinanzi al quale tutti si prostravano. Avranno
fotografato la pezza una decina di volte con l’espressione ebete di chi si
chiede “quale indecifrabile messaggio vorranno mai trasmettere al mondo?”.
Cosa c’entra tutto questo con la tragedia del popolo palestinese, il motivo per
cui siamo partite e partiti in 4mila da 50 Paesi col desiderio di mettere in
gioco i nostri corpi e muovere le coscienze?
In apparenza niente ma invece, forse, tutto. Perché il genocidio di quel popolo
si compie oggi per la cieca obbedienza di un esercito superequipaggiato alla
politica della ferocia praticata da un manipolo di criminali assassini e per il
silenzio indifferente, quando non è esplicita approvazione, del popolo di
Israele (almeno di una parte molto cospicua di quello), nel cui seno è cresciuto
il germe del razzismo più crudele. E, naturalmente, con la complicità di una
Europa piccola piccola, attenta solo a salvaguardare i suoi miserabili
interessi.
Se in Egitto un regime straccione relega nell’ignoranza la sua gente, reprimendo
nel terrore ogni manifestazione di dissenso, in Israele la sedicente democrazia
di marca occidentale collassa nell’identità religiosa e pratica l’apartheid,
trasformandosi in una macchina di distruzione di massa.
Sono due diversi sistemi di potere che impongono entrambi l’omologazione e si
risolvono entrambi nella negazione del pensiero critico.
Quello che sta succedendo anche in Europa e, più ancora, nell’America di Trump:
lo spazio del dissenso si restringe e la critica al potere non è più tollerata.
Gli omini di Al-Sisi facevano pena nella loro miseria, quasi tenerezza (solo
perché sapevamo di uscirne incolumi, per la verità), pecore incapaci di
intendere e volere.
Il capitalismo del terzo millennio ci vuole ridurre a una pletora di consumatori
alienati con l’unico desiderio di consumare di più. Non serve quindi pensare,
per questo c’è l’intelligenza artificiale, né tantomeno battersi per l’esistenza
di altre persone, soprattutto quando quell’esistenza non è utile al mercato.
Non so se siamo in tempo per invertire questa deriva socioculturale e
scongiurarne le conseguenze, il sostanziale fallimento della Global march to
Gaza dovrebbe alimentare il mio pessimismo. E invece torno a Roma pieno del
calore di persone meravigliose, della loro energia e della loro positiva
determinazione, con la sensazione che l’umanità può ancora farcela ma solo se
uniamo le forze, come abbiamo provato a fare al Cairo in quei giorni. Dobbiamo
mobilitarci adesso, il tempo sta per scadere.
L’immagine di copertina ritrae il gruppo prima di salire sull’aereo che li ha
deportate e deportati in Italia, ed è di Simone Scimia
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