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Gaza brucia – di Gennaro Avallone
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l'esercito di [...]
La distruzione della parola
Se per la nostra specie la parola ha il compito di dare un senso condiviso alle cose (con-senso), o meglio, di rendere ciò che è reale realtà umana, oggi il linguaggio è sempre meno oggetto di mediazione, si sta allontanando da questa sua fondamentale missione. Nella cosiddetta era della comunicazione la parola «verità» è diventata un termine problematico, scivoloso che si cerca di eludere. L’accavallarsi delle informazioni, spesso contraddittorie, finisce per annullare il messaggio. Restiamo perplessi e smarriti perché le parole contano sempre di meno, si svuotano e perdono ogni valore. Con il postmodernismo si arriva a dire che il tutto e il suo contrario sono entrambi ammessi. Ci avevano insegnato che la verità esprime ciò che è, ora invece, richiamando Nietzsche, ci dicono che tutto è interpretazione e che ci sono più verità. PAROLE VUOTE. Il moltiplicarsi dei mezzi facilita la diffusione della parola. Dovunque, tutti parlano, anche allo stesso tempo. Si parla troppo e le parole sono vuote. A dire il vero non si sa cosa dire e si finisce per non dire nulla. Come non si ascolta non vi è mediazione e ognuno va per conto proprio. La solitudine del sonnambulismo quotidiano esprime l’angoscia di questa mancanza di senso, di un meccanico ripetersi ed imitare parole spente. In realtà, la parola non è «vuota», il vuoto non esiste, è solo una aspettativa, indica che qualcosa non c’è. La parola inerte con le sue lettere c’è, ma non dice nulla. Delude, è un recipiente che rivela solo una assenza, manca il contenuto. Come mai il linguaggio soffre questo deficit di contenuto? Perché non cerchiamo di riprendere, dare forma e rendere umano tutto ciò che accade, come abbiamo sempre fatto? Siamo sfiniti dalla velocità dell’elettronica e non gestiamo i loro ritmi? Forse la robotica e l’artificiale intelligenza ci rendono sempre più passivi? Chissà più che stanchi e assuefatti siamo pugili storditi con lo sguardo perduto nel nulla. Attendiamo rassegnati che suoni quanto prima la campanella della fine. Purtroppo le parole invece di svegliarci dall’impassibilità, ci colpiscono e finiscono per aggiungere all’assuefazione un ulteriore strato d’incredulità. Le quotidiane violenze e la disumanità delle guerre sono accompagnate da un linguaggio altrettanto aggressivo, fatto di insulti, offese e intimidazioni. Scopriamo che le parole sono state arruolate, anche loro embedded, e sono ora parte inerte dei combattimenti in corso. Nella scacchiera globale ogni elemento in gioco è stato reindirizzato verso un mondo molto lontano da quello che abbiamo sognato. Ogni cosa risulta sempre più distante da quel mondo più equo per il quale molti hanno dato la vita. Siamo anche lontani dalla critica che voleva rivolgere Nietzsche al positivismo. Oggi che la concorrenza spietata del capitalismo globale è diventata legge indiscussa, la guerra dilagante è approdata al linguaggio, alle parole, distruggendo anche esse. Il problema è che senza parole non c’è salvezza possibile. Se gli esseri umani non credono più a quello che dicono e ascoltano, nessuna civiltà è possibile. Ogni accordo diventa carta straccia. Si ritorna allo stato di natura dove prevale la forza, vince il più forte e ha ragione, ha più potere e ne avrà più diritti. Tutto ciò non è diverso da quello che da sempre predica il neoliberismo, è proprio il suo corollario. DARWINISMO SOCIALE. La razionalità mercantile che governa la globalizzazione supera perfino la logica utilitaristica della Realpolitik. La ricerca di sempre maggiore profitto è l’unica regola etica in ogni ambito del sociale e del governo della cosa pubblica. Ogni argomentazione si piega e cede perché: «l’importante è vendere!». Dentro questa cornice, lo abbiamo già capito, può succedere ogni cosa perché nel liberismo senza regole della giungla vince chi riesce a piegare l’avversario. Nel gioco del libero mercato occorre eliminare la concorrenza. La civiltà umana però, si fonda su un principio imprescindibile: siamo tutti uguali e gli esseri umani sono universalmente soggetti di diritto. Sono conquiste secolari condivise sulle quali poggia l’ordine sociale. Non esistono le razze, non esiste la nobiltà né le caste, si ripudia la schiavitù ecc. Anzi, le persone più deboli (bambini, anziani, malati) hanno più diritti. Ora siamo testimoni di come questo principio prioritario di civiltà si stia lentamente logorando, sono anni che questo declino corrode l’ordine giuridico in ogni parte del mondo. Si è imposta la logica dei potenti: chi è più forte ha più strumenti e quindi più diritti. L’unica grammatica globale è quella del mercato. Il valore di ogni cosa è stabilito dalla domanda e dalla offerta. Anche l’etica cede, non è necessario entrare nel merito della valutazione, è tutto molto facile e veloce: vince il numero. La molteplicità di elementi che entrano in gioco nella qualità è discutibile, opinabile, la quantità no, «più è meglio» rimane l’unico metro di ogni cosa. Non importa se la quantofrenia del capitalismo senza argini abbia saturato il pianeta e distrutto l’ambiente, si va avanti perché l’importante è crescere, vendere, produrre. Questa razionalità ceca vive solo in un presente continuo, senza domani e le conseguenze sono proprio la distruzione del futuro. Ora la logica delle guerre e dell’eliminazione dell’altro definita anche darwinismo sociale, è arrivata alle parole. Sembra che non abbia più senso parlare, pensare, definire, cercare di capire. La riflessione, è necessariamente lenta, è un ritorno e ha bisogno di tempo, mentre dall’altra parte, i potenti che costruiscono il reale lo hanno già cambiato. IL REALE VINCE SULLA REALTA’. Nell’era di Donald Trump, succede però che le parole del presidente della prima potenza globale superano di continuo ogni previsione razionale. Si cerca di capirlo per prevedere quali saranno le sue mosse, la sua strategia, ma si rimane continuamente sbalorditi e sorpassati dalle sue dichiarazioni o messaggi sui diversi media. Un linguaggio fatto di frasi ad effetto, brevi, ironiche che mirano a colpire l’avversario. Tutto avviene di corsa e la velocità è l’unica arma vincente, anche sui (anti)social. Non possiamo dire che non eravamo stati avvertiti. Anni fa, per fare un esempio, in una conversazione tra Ron Suskind, giornalista del New York Times, e Karen Hughes, ex direttrice della comunicazione di George W. Bush, quest’ultima gli disse: Voi credete che le soluzioni vengano fuori dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile (…). Non è più così che il mondo va realmente. Ora siamo un impero e quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, con tutto il giudizio che volete, noi agiamo di nuovo e creiamo realtà nuove (…) e a voi, a tutti voi, non resta che studiare quello che noi facciamo. La conversazione è datata nel 2004 ed è stata anche resa pubblica nel nostro paese, ma non ha suscitato grandi preoccupazioni. La parola ha perso ogni credibilità si è svuotata, è diventata pura astrazione. Assistiamo ad un confronto tra il mondo reale e il mondo delle parole, un universo di senso, costruito da noi a cui chiamiamo realtà e che sembra ci sia sfuggito di mano. Marx diceva a proposito di Feuerbach che i filosofi finora si erano limitati ad interpretare il reale quando occorre agire per cambiarlo. Occorre tornare al mondo reale, materiale e concreto e ridare senso umano alle inerzie che guidano la razionalità economica. La nostra non è una guerra, è proprio l’opposto, un disegno dove solo con l’Altro ha senso di parlare di umanità.   Redazione Italia
Piano GREAT: il vero complice del genocidio in atto è il profitto
Il 31 agosto 2025 il Washington Post ha condiviso un documento che descrive il piano per il dopoguerra — anche meglio definibile post-genocidio — per realizzare la visione della “Gaza riviera” del presidente Donald Trump. Utilizzando sfollamenti di … Leggi tutto L'articolo Piano GREAT: il vero complice del genocidio in atto è il profitto sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Quando domina il profitto: gli incentivi vaccinali e la deriva della medicina pubblica
di Eugenio Serravalle | Ago 7, 2025 | Diritti Negli Stati Uniti, una recente inchiesta di Children’s Health Defense ha portato all’attenzione del pubblico un aspetto poco noto della pratica vaccinale pediatrica: l’attribuzione di incentivi economici ai medici per ogni bambino completamente vaccinato entro una certa età. Un pediatra può ricevere fino a 400 dollari per ogni paziente se raggiunge, ad esempio, l’80% di copertura vaccinale nel proprio studio per l’intero panel di vaccini raccomandati. Questa dinamica può apparire estrema o lontana, la domanda da porci oggi è: in Italia esiste forse un modello simile? IL MODELLO AMERICANO È GIÀ REALTÀ ANCHE IN ITALIA In Italia, il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV), attualmente in vigore nella versione 2023-2025, stabilisce obiettivi numerici di copertura vaccinale, imponendo alle Regioni di garantire almeno il 95% di adesione per i vaccini obbligatori e percentuali crescenti per i raccomandati. I livelli essenziali di assistenza (LEA) – stabiliti con DPCM 12 gennaio 2017 – legano strettamente le prestazioni vaccinali agli standard da rispettare per l’erogazione di fondi statali. Inoltre, il Sistema Nazionale di Verifica e Controllo sull’Assistenza Sanitaria (SiVeAS) valuta le performance regionali anche sulla base dei tassi vaccinali. Di conseguenza: * le ASL ricevono finanziamenti legati ai risultati raggiunti; * i dipartimenti di prevenzione sono incentivati economicamente per le coperture ottenute; * in alcune Regioni e aziende sanitarie, sono previsti premi di risultato anche per singoli operatori coinvolti nella campagna vaccinale. Anche se in forma indiretta e distribuita, l’incentivo economico esiste ed è attivo, ed è difficile non notare le analogie con quanto avviene negli Stati Uniti. Nel caso della Regione Toscana, un esempio emblematico, si stabilisce al punto 4.3 dell’AIR (Accordo Integrativo Regionale) del 2001, ancora vigente, che stabilisce che, per le attività connesse alle vaccinazioni – informazione, promozione, acquisizione del consenso informato, somministrazione, registrazione, segnalazione degli inadempienti e recupero – il pediatra ha diritto a due livelli di retribuzione:  Compenso per prestazione: * 15,00 € per ogni atto vaccinale, sia mono che pluri-somministrazione. Premi per obiettivi di copertura (valutati annualmente): * 1.000 € per copertura >95% della terza dose di esavalente * 1.000 € per copertura >95% del morbillo * 1.000 € per copertura >80% del papilloma virus nelle femmine I premi vengono dimezzati in caso di coperture inferiori, e annullati del tutto sotto una certa soglia (es. <92% per esavalente e morbillo). Sono esclusi dal conteggio solo i soggetti irreperibili o con dissenso formale firmato. Tutto regolare, tutto lecito, tutto “in nome della salute pubblica”… ma è davvero etico? IL CONFLITTO DI INTERESSI È SISTEMICO Questi incentivi economici trasformano di fatto il pediatra da consulente sanitario a promotore retribuito della campagna vaccinale, creando una situazione in cui: * l’obiettivo clinico (il benessere del singolo) viene subordinato all’obiettivo statistico (la copertura di massa); * la firma del consenso informato diventa un passaggio obbligato per il pagamento della prestazione; * il recupero degli “inadempienti” – cioè delle famiglie che scelgono legittimamente di non aderire – viene incentivato come parte dell’attività professionale. In tale contesto, il consenso informato perde ogni autenticità: non è più un atto libero e consapevole, ma una condizione necessaria perché il sistema remuneri il medico. E se da un lato l’art. 32 della Costituzione afferma che nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, dall’altro l’intero impianto normativo e organizzativo lo spinge a farlo “spontaneamente”, ma sotto pressione economica, burocratica, sociale. Questa asimmetria di potere mette le famiglie in una posizione vulnerabile e snatura il rapporto fiduciario con il pediatra, che non può più essere percepito come neutrale, ma come portatore di un interesse economico nel convincere (o forzare) l’adesione. VACCINI SEPARATI: PERCHÉ NON SI POSSONO FARE? E SOPRATTUTTO… CHI CI GUADAGNA? Sempre più genitori chiedono di poter separare i vaccini: un’esigenza legittima, dettata da buon senso e attenzione al benessere del bambino. Eppure, la risposta del sistema è quasi sempre la stessa: “Non si può”. Ma è proprio vero? La legge Lorenzin non ha stabilito obbligo per l’esavalente o per il quadrivalente (MPRV), ma per quelle 10 vaccinazioni.  La circolare 0001174 del 15/01/2018 del Ministero della Salute prevede questa possibilità con lo schema per il recupero dei minori inadempienti agli obblighi vaccinali, introdotto dal Decreto Legge 73/2017. In Italia non sono disponibili vaccini monocomponenti per morbillo, parotite, rosolia, difterite e pertosse. Una scelta strategica, non scientifica. Per epatite B e Haemophilus influenzae B i monovalenti esistono, per cui l’esavalente si potrebbe tecnicamente scomporre in: * un quadrivalente (DTPa + polio) * due monovalenti (epatite B e Hib) per assolvere all’obbligo vaccinale. (i monovalenti contro tetano, poliomielite e varicella sono disponibili) Questa possibilità non viene mai offerta ai genitori, anzi spesso si sostiene che tali vaccini NON ESISTONO! Nel 2011, lo stesso Working Group pediatrico dell’AIFA raccomandava di evitare il vaccino MPRV (morbillo-parotite-rosolia-varicella) per la prima dose perché il rischio di convulsioni febbrili è più che doppio rispetto a MPR + varicella somministrati separatamente. Eppure… la somministrazione separata non è mai la prassi. Nemmeno oggi. Una scelta clinica saggia e prudente è stata trasformata in un’opzione scomoda e raramente praticata. In pratica, il pediatra ha un interesse economico diretto nel non separare, nel non dilazionare, nel non offrire alternative. Ogni genitore che chiede una personalizzazione rischia di abbassare le performance, far saltare gli obiettivi e tagliare i bonus. Questa è una medicina che ha perso la sua anima. Una medicina che premia chi si adegua, non chi riflette. Una sanità che non ascolta le famiglie, ma impone protocolli pensati per fare statistica, non per proteggere la persona. Il consenso informato è stato svuotato. La personalizzazione delle scelte cliniche è scoraggiata. Il dialogo con le famiglie è sostituito da automatismi retribuiti. I vaccini separati “non si possono fare” non per ragioni scientifiche, ma per logiche economiche e organizzative. La salute non è un target e il bambino non è un dato statistico. Il medico non è un esecutore premiato per l’adesione cieca ai piani. Essere medici significa custodire l’integrità della cura, difendere l’autonomia professionale, agire per coscienza, anche quando è scomodo. Tutto il resto è burocrazia che si disinteressa del paziente, è gestione amministrativa mascherata da atto medico, è un’illusione di scientificità piegata alla logica dell’obbedienza. AsSIS
Migranti invisibili in fabbrica
C’è stato un giorno, a marzo del 2019, in cui un lavoratore straniero ha perso la vita all’interno di un’industria del Nord Italia. Non era un tecnico specializzato, né un dirigente. Era un operaio della carne. Non aveva un nome che i giornali abbiano mai riportato. Aveva però una madre, una figlia appena adolescente, una compagna — madre di quella bambina — e sei fratelli che lo amavano. Il suo lavoro era faticoso, ripetitivo, pericoloso, ma nessuno gli aveva mai consegnato un manuale. Nessuno lo aveva formato davvero. Gli dicevano solo di “fare in fretta”, di “fare come fanno tutti”, di “non creare problemi”. L’ingranaggio doveva girare. Sempre. E quando l’ingranaggio si è inceppato — con lui dentro — il sistema ha reagito come sa fare: ha negato. Ha detto che non era responsabilità sua. Che “forse è stato lui”, che “non doveva essere lì”. E ha continuato a produrre. Non era nemmeno un dipendente diretto. Lavorava per una cooperativa, in appalto. Un nome diverso, una scatola in più. La fabbrica vera, quella che dava ordini, firmava solo contratti con terzi. Impartiva direttive, ma non si assumeva colpe. Sei anni dopo, giustizia non è ancora arrivata. Il procedimento penale è stato archiviato dalla Procura di Milano, non perché qualcuno sia stato assolto, ma perché non si è riusciti nemmeno a individuare chi abbia azionato la macchina che ha causato la morte. L’ultima beffa: una morte senza colpevole. Una vita cancellata senza nessuno da ritenere responsabile. Nessuno ha mai detto: “Abbiamo sbagliato”. Si è preferito dire: “È stata una sua imprudenza”. Per lavarsi la coscienza, per tornare ai numeri del fatturato. Viviamo in un tempo che divora umanità. In cui la vita di un lavoratore — soprattutto se migrante, invisibile, precario — vale meno di un fermo macchina. In cui una figlia cresce senza un padre, mentre le aziende continuano indisturbate a produrre, a nascondersi dietro contratti, sigle, sigilli. Ma chi ha visto quel corpo spezzato, chi ha ascoltato il dolore di una madre, chi ha guardato negli occhi quella compagna che non ha potuto nemmeno dire addio, sa che non è stato un incidente. È stato il frutto di un sistema disumano e disumanizzante. Perché quando la vita di un uomo viene trattata come un fastidio, una variabile sacrificabile sull’altare dell’efficienza, non è solo lui a morire. È l’idea stessa di giustizia che viene sepolta sotto i macchinari. Patrizia Carteri