Il peso temporale delle nostre fedeltà
Che cosa significa oggi fare filosofia politica, situandosi nel solco della
tradizione marxiana e marxista? In un contesto come quello francese, in cui il
dibattito contemporaneo si svolge prevalentemente nel campo della filosofia
sociale e della teoria critica, questo essai di Chiara Collamati su Sartre, Le
passé qui vient, fornisce una risposta all’altezza della radicalità della crisi
che la filosofia politica sta attraversando.
L’autrice moltiplica le mediazioni concettuali per individuare qualcosa di
terribilmente concreto e urgente: «la possibilità di assumere, con Sartre e
attraverso i suoi strumenti concettuali, una delle sfide imprescindibili per la
riflessione contemporanea sulla politica: pensare una riorganizzazione dei
rapporti sociali e politici che non si esaurisca nella logica del contropotere e
che non presupponga un soggetto collettivo che sarebbe per essenza “oppositivo”
alla macchina Stato-capitale» (p. 39). Il compito è chiaro: si tratta di
affrontare il presente come un défi lanciato al pensiero, utilizzando gli
strumenti concettuali di un filosofo considerato superato e inattuale già dalle
sue contemporanee e dai suoi contemporanei. Il che significa che Sartre, e in
particolare la Critica della ragione dialettica, è il primo “passato a venire”
che il libro ci propone. Se il compito è concreto, la sfida è nondimeno
squisitamente teoretica – in tutti i sensi che questo termine ha in filosofia:
dall’analisi dello statuto dei concetti politici alla necessità di scardinare
l’ontologia della storia di matrice heideggeriana, dal tentativo di porre le
basi per una teoria del legame sociale e della sua specifica temporalità, fino
al rapporto tra normatività e contingenza storica.
Come si sarà capito, il termine filosofia politica ricopre in realtà tutta la
filosofia, al di là delle distinzioni disciplinari che dovrebbero rendere il
percorso più “praticabile”. Chiara Collamati ci insegna innanzitutto che le
opzioni filosofiche non si misurano in termini di fattibilità, come si evince da
una formula che ricorre costantemente nel libro: si tratta di porre le
«condizioni di “pensabilità“ delle lotte, o ancora di pensare l’intelligibilità
della storia. Per evitare la trappola dell’astrazione, il libro non si stanca di
problematizzare quello che Étienne Balibar ha definito “il concetto di concetto
in politica“».
> In ogni paragrafo, l’autrice cerca di pensare, in modo sempre più dettagliato,
> una certa disciplina dell’impegno politico. La riconosce in due pratiche
> distinte che fungono da motori dell’argomentazione: il giuramento da un lato e
> gli esempi dall’altro. Vale a dire, rispettivamente, una pratica del gruppo
> sociale e una pratica intellettuale.
Proprio perché il sociale non possiede un essere in sé, l’accento viene posto
sulla dimensione delle pratiche che definiscono un gruppo, marcando uno scarto
rispetto agli approcci che si rifanno all’ontologia sociale. Se il problema
della politica non è tanto quello dell’essere, quanto quello del dover essere,
tale normatività non informa alcuna materia preesistente. Chiara Collamati ci
ricorda che, per il filosofo politico, l’etica è sempre e solo un punto di
arrivo; l’esito di un percorso che richiede, come condizione preliminare, di
tracciare una me-ontologia (un modo di pensare il non-essere sociale) che non
dia nulla per scontato, o meglio: che non dia questo nulla per scontato. È solo
riconoscendo la cavità di tale assunto che gli strumenti della politica
(diritto, istituzioni) possono essere definiti precisamente come strumenti
forgiati per rendere il non-essere produttivo.
Dal momento che, come scrive Sartre, ogni giuramento implica una «vertigine
dell’abbandono», ciascun membro di un gruppo «ha paura di essere colui che
potrebbe mettere a repentaglio il legame di reciprocità» (p. 75): in questione è
dunque un modo di pensare la politica che, senza liquidare questa vertigine, ci
aiuti a rimetterci in piedi per continuare a camminare insieme. La lettura che
Chiara Collamati propone della Critica della ragione dialettica è guidata
appunto dalla ricerca dei processi attraverso i quali il gruppo in fusione
«cerca di inventare la forma della propria permanenza» (p. 63).
A causa del suo carattere evanescente, la temporalità dell’azione storica ha uno
statuto ambiguo che la condanna non tanto al fallimento sistematico, bensì a
un’incertezza costitutiva, vissuta dall’individuo come una sensazione di perenne
ritardo rispetto alla propria epoca. Un’asimmetria che si spiega con l’intreccio
di due temporalità distinte: quella delle disposizioni corporee dell’individuo e
quella delle condizioni oggettive storicamente determinanti. Dialetticamente,
questi due poli si producono a vicenda nel loro incontro sfasato e ciò che conta
sono le pratiche dei legami a venire: pratiche costrette ad assumere il passato
come loro materiale costitutivo. La nozione di praxis viene quindi ripensata per
analogia con la dimensione dello strumento: la filosofia politica sarebbe il suo
savoir-faire, il passato il suo materiale. Le azioni storiche si rivelano infine
come degli usi del passato.
Le passé qui vient non prende mai la strada più facile. Nella veste di storica
della filosofia, Collamati non si accontenta di esplorare le opere sartriane
degli anni Sessanta, per smarcarle dalle critiche di Merleau-Ponty. In un punto
nodale dell’opera, all’altezza del quarto capitolo, viene infatti proposta una
lettura innovativa de L’essere e il nulla, opera a cui l’autrice restituisce
tutta la sua carica esplosiva e il suo scandalo anti-heideggeriano – tornerò su
questo punto. Ma l’aspetto forse più importante è che, nella veste di filosofa
politica, Collamati non cade mai nell’astrazione dell’immediatezza, né in una
concretezza storico-filosofica priva di riflessività.
Pur non nominando esperienze di lotta o pratiche politiche contemporanee, il
libro è attraversato da interrogativi quanto mai attuali: come costruire un
senso condiviso della storia quando ci è stato detto che le nostre vite non
valgono nulla o quasi? Quando sembra che nessuno delle nostre antenate e dei
nostri antenati meriti di “passare alla storia”? Come selezionare il nostro
“passato futuro” e distinguerlo dalle sue forme reattive? Possiamo davvero
scegliere la nostra storia, nel duplice senso della praxis e della storiografia?
> La posizione di Chiara Collamati è piuttosto inusuale per una filosofa formata
> al pensiero hegeliano: la filosofia politica ci prepara a vivere ciò che ci
> aspetta.
Questo ci conduce a un altro aspetto importante del libro: la profondità con cui
l’autrice tratta il tragico che la storia porta in sé, senza cadere nel
romanticismo dell’azione collettiva – o ancora, dal momento che si tratta
prioritariamente dello statuto del passato, senza lasciarsi sedurre da una
qualche forma di “mito della storia”. Uno dei gesti fondamentali che il Sartre
di Collamati permette di compiere è infatti quello di uscire dal problema della
morte in prima persona: abbandonare un pensiero della morte al singolare per
pensare i morti o, più profondamente, i nostri morti. Ma compresa
dialetticamente, la verità della morte non sta nemmeno nel lutto, nella morte
alla seconda persona. La vera morte sta tutta nello scioglimento del legame: non
è tanto nella persona (che sia prima, seconda o terza) quanto nel passaggio dal
singolare al plurale. Alla stanchezza e all’esaurimento del collettivo, alla
vera morte, si oppone ciò che Collamati chiama «il comunismo» (p. 132):
anzitutto un legame di reciprocità, una forma di fedeltà.
Fondare collettivamente il “passato che viene” significa allora inventare dei
modi per riattivare il passato (potremmo definirli dei rituali) capaci di
riportare in vita i morti attraverso una forma di ripetizione selettiva.
Sappiamo bene che i morti non devono mai ritornare come fantasmi. Quello che
ancora non sapevamo, è che i nostri morti non devono tornare nemmeno come degli
eroi. Possiamo nominare questo problema con l’aiuto del primo pensatore che lo
ha posto correttamente, cioè il Nietzsche della Seconda considerazione
inattuale, dove vengono descritte le forze e le debolezze della storia
monumentale. Che uso possiamo fare del passato per uscire dalle semplificazioni
della storia monumentale, per liberarci cioè, una volta per tutte, del concetto
di storicità che Heidegger ha posto al centro di Sein und Zeit?
Collamati conduce una feroce battaglia contro l’individualismo heideggeriano su
almeno tre fronti: il circolo vizioso dell’essere-per-la-morte, lo sfondo
nichilistico del decisionismo astratto, la visione del futuro come destino.
Senza poter commentare in questa sede i densi passaggi analitici che l’autrice
dedica al confronto tra Sartre e Heidegger, mi limito a riportare una frase
tratta dal manoscritto Morale e storia, che potrebbe fungere da esergo alla
critica a Heidegger realizzata nel libro: «l’eroe della guerra è molto spesso
inadeguato per la pace che segue».
Come adattare le nostre pratiche di legame, le nostre fedeltà, in modo che esse
resistano in tempi di guerra e di pace? O meglio, in modo da poterci allontanare
da questa separazione un po’ artificiale che ci impedisce di vedere che, in
realtà, stiamo ancora continuando a combattere?
> Rispondere a queste domande non significa conferire un senso alla storia – si
> tratti di tutta la storia o dell’evento che è supposto riaprirla; significa,
> piuttosto, farsi carico della necessità di ciò che non è più, e di coloro che
> non sono più.
Abbandonando gli eroi a favore degli esempi, sappiamo solo cosa stiamo perdendo,
poiché «gli esempi sono sempre dubbiosi». In realtà, Collamati ci indica anche
cosa stiamo guadagnando: dei concetti senza artigli, riprendendo e tradendo il
lemma tedesco Begriff. Un rapporto del concetto rispetto alla storia e alla
politica che non è più verticalmente normativo: il concetto lascia il posto a
quella che Sartre definisce nozione dialettica. La teoria non è una rete che il
filosofo getta sulla storia, ma una costellazione di punti o di intensità, lo
spazio aperto dal filosofo affinché le praxis del passato possano connettersi
tra loro e con il presente, secondo variabili modalità di riattivazione
politica. Da qui, tre suggestioni che riprendono e interrogano i grandi luoghi
del libro: la storia della filosofia, la filosofia politica e gli esempi.
Le Passé qui vient instaura un rapporto con la storia della filosofia che appare
al contempo intenso e ambiguo. La ricostruzione delle reti di influenze è acuta
e sempre molto (quasi troppo) informata. Emblematiche a tal proposito le pagine
costruite a partire da un articolo di Karl Löwith su Heidegger: l’autrice mostra
come la critica di Merleau-Ponty a Sartre si sovrapponga a quella che Löwith
rivolgeva a Heidegger – dal punto di vista della storia intellettuale si tratta
di una congettura, la cui solidità sembra tuttavia patente se pensiamo che
l’articolo di Löwith è stato pubblicato nella rivista Les Temps Modernes e che è
stato letto e commentato da Merleau-Ponty. A ogni modo, dimostrare la fondatezza
di tale congettura non è ciò che interessa Chiara Collamati: «Il lettore non
dovrà cercare la pertinenza di questo gesto nei riferimenti o nelle allusioni,
più o meno esplicite, che Merleau-Ponty, nel momento in cui si accingeva a
criticare Sartre, avrebbe potuto fare a Heidegger, a Schmitt o a Löwith. È
piuttosto su un piano strettamente concettuale, sul piano della sequenza logica
che struttura l’argomentazione merleau-pontiana, che tale confronto trova, a mio
avviso, la sua giustificazione filosofica» (p. 156).
Ne Le Passé qui vient, la storia della filosofia è costantemente sottoposta alla
questione dell’esposizione filosofica, della Darstellung, che ne determina una
verità ulteriore rispetto a quella della ricerca storica. Sebbene Collamati
dialoghi costantemente con la letteratura critica sul Sartre politico, è molto
attenta a non allontanarsi dall’oggetto specifico che intende trattare: una
filosofia politica della temporalità o, come scrive all’inizio e alla fine del
libro, una «filosofia politica della storia». La verità della giustificazione
filosofica si gioca tutta all’altezza di un’adeguata disposizione degli
argomenti: la filosofia politica sfida la storia della filosofia, usandola come
un serbatoio di risorse da cui attingere, seppur con rigore.
Ci sembra, tuttavia, che l’autrice non assuma fino in fondo le conseguenze di
questo gesto metodologico. Nell’ultima parte del libro, Chiara Collamati passa
dalla Critica della ragione dialettica all’esplorazione di un’«etica
materialista» di cui gli esempi sono al contempo «gli oggetti, il metodo e il
contenuto» (p. 180) – una descrizione in linea con quelli che sopra ho definito
dei «concetti senza artigli». Ora, non vi è dubbio che, dal punto di vista
storico-filosofico, il metodo critico e il metodo normativo, le nozioni
dialettiche e gli esempi, possano essere produttivamente accostati. Tuttavia, se
ci poniamo dal punto di vista di una “filosofia politica della storia”, non
siamo forse costretti a scegliere tra un metodo e l’altro, tra una forma e
l’altra dell’esposizione? Il mosaico di nozioni dialettiche è davvero
compatibile con la pretesa di «definire i criteri di intelligibilità formale di
qualsivoglia storia» (p. 176)? Possiamo davvero integrare nell’esposizione
critico-filosofica l’intelligibilità degli esempi che Sartre avrebbe scoperto o
selezionato per noi, senza rinunciare alla pretesa della filosofia politica a
inglobare «qualsivoglia storia»?
Immagine di copertina di Julien (flickr)
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