Crimini di sistema contro il Popolo migrante: quale giurisdizione?
Venerdì 24 ottobre alle 18.30 sarà presentato allo Spazio Sintesi di Palermo il
libro di Rino Messina “Closed Arms. Non si accettano migranti” edito
dall’Istituto Poligrafico Europeo. Ne discuterà con l’autore, tra gli altri,
Fulvio Vassallo Paleologo. Ecco la traccia del suo intervento
Nel corso degli anni si è riscontrata una progressiva eliminazione dei diritti
di difesa delle vittime delle prassi di allontanamento forzato, respingimento e
detenzione amministrativa. La circostanza che le violazioni dei diritti
fondamentali di gruppi di persone costrette a lasciare il proprio paese siano
diventate tanto frequenti, con modalità omogenee e prive di una qualsiasi
sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso
di individuare un popolo migrante. Un «popolo» dotato di una sua specifica
connotazione, nei confronti del quale si commettono reati comuni e crimini
internazionali, che possono assumere il carattere di crimini sistematici. Come è
emerso da numerose testimonianze individuali e da rapporti concordanti, come
quelli delle Nazioni Unite, di MEDU (Medici per i diritti umani) e di altre
organizzazioni indipendenti, esaminati nel corso della sessione di Palermo del
Tribunale Permanente dei popoli, che si è svolta nel dicembre del 2017, con
particolare riguardo rispetto alle rotte migratorie nel Mediterraneo centrale .
Nella successiva sessione del TPP, nel 2018 a Barcellona,si rilevava come
venissero generati spazi non-giuridici (o di non diritto), “perché le leggi
vengono trasformate in mere affermazioni formali: sono perfettamente formulate,
ma non hanno applicazione nella pratica. Le politiche di immigrazione
distruggono il capitale legale diritti umani: degerarchizzano le norme e i
valori supremi che governano le nostre società”. Anche in quella occasione si
metteva dunque in evidenza, al di là della peculiare situazione nei singoli
paesi, la diffusa negazione della giurisdizione, come strumento per dare
effettività al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone.
A Berlino, nel 2020, il Tribunale permanente dei Popoli concludeva che “Le
caratteristiche principali e impressionanti degli scenari che sono stati
presentati al TPP nei suoi anni di attività, culminati nella Sessione di
Berlino, devono essere visti alla luce della sostanziale negazione da parte
delle istituzioni nazionali ed europee del permanente e schiacciante accumulo
delle prove più tragiche di violazioni dei diritti umani individuali e
collettivi dei popoli migranti e rifugiati lungo tutte le rotte marittime e
terrestri che conducono ad un luogo europeo che dovrebbe essere un porto sicuro.
Nella categoria dei “crimini di sistema”, si comprendono politiche statali e
scelte economiche che sacrificano diritti fondamentali della persona. Nella
categoria più ampia dei crimini di sistema possono rientrare sia i crimini
contro l’umanità, che possono essere sanzionati dalla Corte Penale
internazionale e dalla Corte internazionale di giustizia, che reati comuni,
sanzionabili già dalla giurisdizione nazionale, come il sequestro di persona, o
l’omissione di soccorso, commessi da agenti istituzionali per effetto di scelte
politiche.
Già nella sentenza del TPP di Palermo si osservava come l’allontanamento forzato
delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal Codice di condotta
Minniti imposto dal governo italiano nel mese di luglio del 2017, avesse
indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in
mare e contribuisse ad aumentare quindi il numero delle vittime, consentendo di
fatto ai libici di estendere la loro giurisdizione in acque internazionali, come
se le zone di ricerca e salvataggio fossero spazi di sovranità, e non piuttosto
aree di responsabilità per attività di ricerca e salvataggio.
A partire dal 2020 il ruolo di coordinamento della sedicente Guardia costiera è
stato più frammentato, dopo il ridimensionamento della missione italiana in
Libia, e l’ingresso della Turchia nelle aree costiere della Tripolitania, ma
sempre più violento, mentre aumentava la pressione dell’Egitto sulla Libia
orientale. Con la conseguenza che anche dalla Cirenaica, soprattutto dalla zona
di Tobruk, sono ripresi transiti e partenze che negli anni precedenti sembravano
bloccati quasi del tutto.
Malgrado accordi successivi, stipulati nel 2023 anche da rappresentanti
dell’Unione Europea con il governo Saied, neppure la rotta tunisina veniva
chiusa del tutto, e nonostante le violente azioni di repressione e gli
interventi talvolta mortali della guardia costiera tunisina, riprendevano
periodicamente le partenze verso la Sicilia, ed aumentava il numero delle
vittime. In entrambi i casi la polverizzazione delle procedure di conclusione
degli accordi a diversi livelli di responsabilità, e la frammentarietà degli
interventi di intercettazione in mare, spacciati per operazioni di ricerca e
soccorso (SAR), impedivano il ricorso alla giurisdizione e la sanzione dei
responsabili.
In questo contributo, con particolare riferimento alle rotte migratorie
attraverso il Mediterraneo centrale, si esamineranno i diversi casi della
giurisdizione interna ed internazionale che in Italia ed a livello europeo, dal
2017 ad oggi, hanno affrontato le materie oggetto della sentenza del Tribunale
Permanente dei Popoli adottata nella sessione di Palermo. Di fronte ad una
travagliata involuzione della giustizia internazionale, si può parlare oggi
di giurisdizione negata. Si tratta di un fenomeno che, soprattutto in base ad
accordi intergovernativi, si rileva con diverse modalità in tutti i settori del
Mediterraneo.
Nel 2017 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto la propria
carenza di giurisdizione sugli accordi stipulati dai singoli paesi membri con la
Turchia. Con tre ordinanze, del 28 febbraio 2017 (T-192/16, T-193/16 e
T-257/16), il Tribunale dell’Unione ha dichiarato la propria incompetenza e ha
quindi respinto i ricorsi introdotti, a norma dell’art. 263 TFUE, da due
cittadini pakistani e da un cittadino afgano, richiedenti asilo in Grecia, con
riguardo al c.d.accordo sui migranti del 18 marzo 2016 tra Unione europea e
Turchia.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha delimitato la propria giurisdizione in
modo da non intralciare le intese operative tra Italia e Libia per sequestrare i
naufraghi in acque internazionali e deportarli nei lager dai quali sono fuggiti.
Anche per la Corte di Strasburgo, evidentemente, le Convenzioni internazionali
di diritto del mare ormai non valgono nulla. E non rileva neppure il ruolo
criminale di comandanti libici come Bija o come Abdel Ghani al-Kikli, uccisi in
faide tra milizie, dopo essere stati, per conto del governo di Tripoli,
interlocutori privilegiati delle autorità italiane e protagonisti di
respingimenti collettivi su delega e di sequestri di persone migranti
intercettate in acque internazionali.
A giugno del 2025 sembra che un cerchio si sia definitivamente chiuso,
soffocando i diritti delle persone migranti a partire dal diritto alla vita,
fino al diritto di chiedere asilo e di non subire trattamenti disumani o
degradanti. I giudici della Corte europea dei diritti dell’Uomo hanno negato la
loro giurisdizione sul caso del respingimento collettivo operato da una
motovedetta libica il 6 novembre 2017 (caso S.S./Italia), richiamandosi al caso
Hirsi del 2009, ma di fatto capovolgendone la portata sostanziale, con la
legittimazione delle sedicenti guardie costiere libiche, nei cd. respingimenti
su delega, in acque internazionali.
La cartina di tornasole della effettiva portata degli accordi con i governi di
paesi terzi che non rispettano i diritti umani è stata offerta da ultimo nel
caso dell’arresto in Italia del comandante libico Almasri sulla base di un
mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale e tempestivamente
trasmesso alle autorità italiane. Dopo settimane nelle quali diversi esponenti
di governo avevano negato l’apertura di indagini da parte della Corte Penale
internazionale, il 16 febbraio 2025 la Camera preliminare della CPI ha rivolto
un invito alla Repubblica Italiana (“Italia”) a presentare osservazioni per
spiegare la mancata consegna di Osama Elmasry/Almasri Njeem alla Corte dopo il
suo arresto in territorio italiano.
Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera
preliminare della Corte Penale Internazionale ha concluso la sua indagine e lo
scorso 17 ottobre ha formulato gravi accuse nei confronti del governo italiano,
che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante
libico Njeem Almasri. In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha
avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie
presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie
memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del
signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato
d’arresto.
La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue
memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né
eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A
tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha
cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto
del signor Njeem da parte della polizia italiana.
Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha
informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte
d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito
dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a
seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha
giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di
ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando
che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”.
I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti
lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di
condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli
Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati
all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano
la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte.
Sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano, sulla
richiesta del Tribunale dei ministri di mandare a processo i ministri Nordio e
Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano si sono
innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte
costituzionale. Si può temere adesso che le tattiche dilatorie da parte del
governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti
ancora in corso a livello nazionale, possano comportare ulteriori rallentamenti
anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale.
L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale
internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte,
presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del
governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche
davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche
oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento
dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di
Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale.
Bisogna ripristinare un sistema di controlli giurisdizionali che permetta di
sanzionare le violazioni dei diritti umani ed i reati comuni commessi da
rappresentanti istituzionali, e tutte le complicità negli accordi con i paesi
terzi, fino ai livelli più elevati della decisione politica. Una decisione
politica che non può produrre morte e abusi disumani per tentare di raggiungere
finalità di blocco delle migrazioni che oggi appaiono definitivamente fallite.
Un tribunale di opinione come il Tribunale permanente dei popoli è chiamato a
mantenere costanti canali comunicativi con il sistema della informazione, sempre
più condizionato dalle grandi proprietà e dai partiti di governo, e con la
giurisdizione interna ed internazionale, in un duplice senso. Innanzitutto per
trasmettere i risultati delle indagini e le decisioni di condanna che ne
potrebbero venire. Ma anche per difendere, attraverso la raccolta di prove e la
formulazione di atti di accusa, l’indipendenza di tutte le diverse
giurisdizioni, che i governi attaccano perchè ostacolano il raggiungimento delle
proprie finalità politiche, sulle quali costruiscono consenso elettorale
sfruttando la disinformazione e l’indifferenza. Saranno questi gli impegni per i
quali continueranno a battersi nei prossimi anni le associazioni che hanno
proposto dal 23 al 25 ottobre una nuova sessione a Palermo del Tribunale
Permanente dei Popoli.
Fulvio Vassallo Paleologo