«Un progetto esplicitamente apocalittico»«Un progetto esplicitamente apocalittico»
Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al
capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli
Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A
parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista
fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus
statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus
Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo
che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti
sono un progetto esplicitamente apocalittico».
Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che
consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata
sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella
rivoluzionaria.
Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di
apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene
insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve
interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La
distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non
assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe,
eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso
si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo
uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa
tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo
nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e
nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine
“intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi
all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che
tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento
che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della
materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente
apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma
la sua interruzione e il suo disvelamento.
Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che
«l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto
il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il
punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale
della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra
il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per
andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce
al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che
s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione
nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e
l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore.
Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per
tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata
letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo
si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben
presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli
anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la
promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della
rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a
leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli
abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui
esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani
in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel
linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto
apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale,
se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai
santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come
ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è
semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala
a pioli.
«Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in
spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta
la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il
tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico
è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo
cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci),
sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente
immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente
raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice
ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre
vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero
dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del
capitale.
O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita.
Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in
un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare.
L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento
rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento
internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi
ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente
apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo
importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con
il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro
partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non
può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa
vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non
solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli
nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di
terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente,
«oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono
stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e
d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e
«Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la
polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il
fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla
violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non
è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica
pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa
mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di
apocalittico.
Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della
modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri
colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce
con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica)
– è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo,
perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua
incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo
di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha
accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i
pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli
Untermenschen del presente e del futuro.
Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una
tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse
verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole
sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche,
Frammenti postumi 1887-1888).
Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che
sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e
per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti»
russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti
contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e
gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e
rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow,
cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora
sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma
per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco.
E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo
partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce
dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti
rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.