Jose Eustasio Rivera nella prigione della selva
“Prima di appassionarmi per una qualsiasi donna, giocai il mio cuore all’azzardo
e me lo vinse la violenza”, parole che, a giudizio di chi scrive, si annoverano
fra gli incipit più potenti della storia della letteratura. Una frase che,
probabilmente, ha risuonato nell’anima di Roberto Bolaño suggerendogli l’inizio
di Putanas asesinas: «… ma la violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o
almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta». La
brutalità è la vera protagonista del romanzo La voragine di José Eustasio Rivera
(Utet, 2008, la prima edizione pubblicata a Bogotà è del 1924), scrittore e
poeta colombiano oggi misconosciuto, almeno dalle nostre parti, figura
fondamentale della letteratura sudamericana.
Arturo Cova, il protagonista, ha un sogno smisurato annidato nel cuore. Mentre
riposa all’ombra delle palme, vede le stelle scintillare nel cielo sconfinato
attraverso la maglia della zanzariera. La sua anima lo tormenta, perché
comprende l’incommensurabile portata dei propri sogni. Arturo sente il pianto
annegargli gli occhi, per le sue aspirazioni frustrate, per ciò che non potrà
mai essere. La prima parte del libro potrebbe intitolarsi la fuga. Il
protagonista ha sedotto e messo incinta Alicia, promessa sposa a un vecchio
possidente terriero. I due sono costretti ad allontanarsi da Bogotá per non
essere arrestati. Un atto impulsivo, un errore che si diffonde nel corpo come un
veleno. Del resto, Alvaro è già preda di una attitudine alla fantasticheria:
«Malgrado l’esuberanza fisica, ho sempre sofferto di un male: quello di pensare
troppo e anche durante il sonno la mia mente è di continuo occupata da visioni
immaginarie». Alicia, ben presto, gli viene a noia, anche se continuerà a
seguirla, con caparbia ostinazione, in un viaggio che è soprattutto un percorso
all’interno della propria anima. Il fuoco lo spinge nella foresta, senza
possibilità di ritorno. «O selva, sposa del silenzio, madre della solitudine e
della bruma! Quale destino maligno mi ha lasciato prigioniero del tuo carcere
verde?», è il principio della seconda parte, che potrebbe chiamarsi la ricerca.
Alvaro è sulle tracce di Alicia, fuggita con il perfido Barrera.
All’interno di questa “cattedrale dell’angoscia” che è la giungla, a ben
guardare la vera protagonista dell’opera, il protagonista incontra il tragico
demone pronto a impadronirsi della sua coscienza. Nella labirintica immensità,
l’uomo sperimenta la solitudine e l’orrore. Come non pensare a Cuore di tenebra
di Conrad, alla sua immersione nell’oscurità più perigliosa? In quest’ottica
l’atto stesso del narrare assume valenza catartica. Non a caso Rivera avvia il
libro per il tramite di un consolidato artificio: il manoscritto ritrovato che
racconta il terrifico viaggio nella selva. La discesa agli inferi di Conrad, a
un primo livello, mette in scena la distruttività della cultura coloniale, ma
contemporaneamente genera una pletora di interrogativi propri di una maniera
sommamente densa e ambigua. Anche Rivera, in particolare nella terza parte della
sua opera, condanna le condizioni di vita dei raccoglitori di caucciù, i
caucheros, costretti da un sistema coercitivo a vivere come schiavi, ma nel
contempo architetta un complesso edificio simbolico. La denuncia, come in
Conrad, si ammanta di molteplici significati. La selva inietta inquietudine
negli animi. Nella boscaglia, simbolo dell’ignoto, tutto ci inquieta. Uscirne è
sommamente arduo. La foresta si distrugge e rinasce continuamente, come un
enorme organismo vivente e terrifico. Il vegetale è un essere sconosciuto e
ostile. La sua contrapposizione all’uomo è totale. La violenza degli aguzzini
sconvolge equilibri, perpetua meccanismi di sopraffazione, che saranno sfruttati
dai nazisti nei campi di concentramento. Chi riesce a ritagliarsi un piccolo
spazio privilegiato diviene ancora più feroce nei confronti dei suoi sottoposti.
La cupidigia e la brama di ricchezza bruciano come le febbri che infestano le
zone paludose del territorio selvaggio. La foresta, a sua volta, si vendica
dello sfruttamento al quale viene sottoposta. Gli alberi della gomma appaiono
come corpi vivi, intrisi di sangue, martoriati dalle ferite inferte per estrarre
la preziosa sostanza.
Il cosiddetto uomo civilizzato è il paladino della distruzione reso folle dalle
sue stesse azioni, destinato a smarrirsi senza possibilità di catarsi; l’abisso
antropofago lo attende. La minaccia della voragine che ossessionava Rivera lo
inghiottì nel 1928, nel tessuto urbano di New York. Morte naturale, secondo la
versione ufficiale, omicidio, secondo narrazioni alternative mai confermate che
sottolineano il suo status di personaggio scomodo, per la sua inesausta brama di
denuncia. La versione poetica, a noi cara, vergata dal poeta messicano Juan José
Tablada, attribuisce la morte di Rivera a una vendetta della selva, dove la sua
mente si era smarrita rimanendo imprigionata nei meandri inestricabili delle sue
tenebre.
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