Mia moglie: ritratto di fallocrazia di gruppo
Cosa succederebbe se per ipotesi, in risposta al gruppo Facebook Mia moglie,
salito recentemente e tristemente alla cronaca nei giorni scorsi, venisse creato
il gruppo Mio Marito, con le foto di quei consorti che avevano condiviso
immagini intime, e nella maggior parte dei casi non consenzienti, delle proprie
metà?
Potremmo assistere al disvelamento delle grazie di questi signori, che
verrebbero sottoposti al commento e al giudizio femminile, che spesso sa essere
tagliente; ma non solo: finalmente si conoscerebbero i loro volti, tra i quali
magari riconosceremmo quelli del nostro vicino di casa, di un nostro amico o
peggio ancora, di mariti e compagni. Ma non sarebbe questa la giusta via da
seguire per punire quanti hanno pubblicato foto di donne invitando a commentarne
il corpo e l’appetibilità sessuale, in una sorta di rituale patriarcale,
misogino e fallocentrico. Ci penserà la legge, almeno si spera.
Se non si tratta di odio e violenza di genere, così come affermano alcuni
signori, direttamente o indirettamente coinvolti nella questione, cercando di
minimizzare la vicenda riconducendola a una goliardata, allora bisogna chiedersi
a cosa stiamo assistendo. E’ facile adottare un atteggiamento di disimpegno
morale, riducendo tutto allo scherzo: qui si tratta di altro, perché le mogli e
le compagne in questione sono state oggettificate, mostrate come fossero
proprietà personale, senza nessuno scrupolo, senza nessun rispetto non solo per
la persona ma anche per la legge, accumulando reati che vanno dalla violazione
dalla privacy alla violenza privata e oltre. Alcuni si sono difesi attaccando e
dando la colpa alle ficcanaso e alle solite femministe represse, a quelle che
parlano sempre di parità e di patriarcato, a quelle che non si fanno gli affari
loro perché, in fin dei conti, gli scambi di fotografie esistevano già ai tempi
delle caselle postali. Ma quello che questi individui non comprendono è che oggi
la comunicazione è diventata capillare e globalizzata: qualsiasi parola,
immagine, suono viene amplificato e rimbalzato dalla rete. Così, anche se esiste
il diritto all’oblio, che si può esercitare per eliminare dati sensibili finiti
sul web, può succedere che alcune tracce permangano. Anche le loro, compresi
volti, nomi e cognomi. Nella società dell’interconnessione nulla si cancella mai
definitivamente.
Gruppi simili esistono, soprattutto in luoghi virtuali pressoché quasi
inesplorabili come Telegram. Scoprirne uno significa scorgere la punta di un
iceberg enorme e ramificato. L’unica difesa resta la denuncia . Non bisogna
restare in silenzio, bensì pensare che ogni segnalazione è un atto di
ribellione, di interruzione della catena di odio e violenza che inizia dal web e
al web ritorna, in un eterno girone infernale. E stavolta, speriamo che siano
gli uomini, a protestare.
Stefania Catallo