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Amnesty International Italia e altre 12 associazioni chiedono il rilascio di Shahin
L’iniziativa coinvolge la sezione locale della struttura internazionale insieme alle italiane ARCI e A Buon Diritto e alle europee ELSC ed LDSF, all’italo-egiziana EgyptWide e alle egiziane CIHRS, ECFR, EFHR, EHRF e RPE con il Centro contro la violenza El Nadeem e la tortura e la Sinai Foundation for Human Rights. Alla data della diffusione del proprio appello, martedì 2 dicembre scorso, non era ancora arrivara risposta alla lettera che avevano inviato alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno italiano per perorare la sospensione del procedimento di espulsione e, a spiegazione della motivazione, fornendo la documentazione e reportistica sullo stato dei diritti umani in Egitto. APPELLO Tredici organizzazioni della società civile chiedono al governo e al ministero dell’Interno italiani di fermare l’espulsione verso l’Egitto di Mohamed Mahmoud Ebrahim Shahin, in conformità ai propri obblighi in materia di protezione dei diritti umani, incluso il principio di non-refoulement. Mohamed Mahmoud Ebrahim Shahin, cittadino egiziano residente a Torino, in Italia, da circa vent’anni, è stato sottoposto a un procedimento giudiziario ingiusto, fortemente viziato da evidenti irregolarità procedurali, a partire dal giorno 24 novembre 2025. Su iniziativa del ministero dell’Interno, al sig. Shahin è stato revocato il permesso di soggiorno europeo di lunga durata ai sensi dell’art.13, comma 1 del Testo unico sull’immigrazione (decreto n. 286/1998) che, insieme alle successive modifiche, introduce la possibilità di espellere i cittadini stranieri qualora presentino un profilo di pericolosità sociale o costituiscano una minaccia per la sicurezza nazionale. Le accuse rivolte al sig. Shahin, che sono alla base del decreto di espulsione, includono “l’appartenenza a un’ideologia estremista” e l’aver partecipato a un blocco stradale durante una manifestazione contro il genocidio del popolo palestinese a maggio 2025. Nel decreto, il ministero dell’Interno fa anche riferimento a una presunta dichiarazione in cui Mohamed Shahin avrebbe commentato gli attacchi del 7 ottobre 2023 nel corso di un’altra manifestazione in solidarietà con la Palestina, a Torino, nell’ottobre 2025. Dopo essere stato trattenuto presso una stazione di polizia, Mohamed Shahin è stato trasferito presso il Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Caltanissetta, lontano dai suoi familiari, dalla sua comunità e dai legali che lavorano alla sua difesa. La richiesta di protezione internazionale che ha presentato a seguito della revoca del permesso di soggiorno è stata rigettata a seguito di un procedimento di esame fortemente accelerato, sul quale ha certamente pesato la classificazione dell’Egitto come “paese di origine sicuro” e che non ha attribuito la giusta importanza ai rischi in cui Mohamed Shahin incorrerebbe qualora fosse espulso in Egitto, un paese dove la tortura è endemica e le autorità sottopongono le persone ad arresti e detenzioni arbitrarie, spesso nell’ambito di processi iniqui, sulla base delle sole opinioni. «Le autorità italiane devono riconoscere pienamente i gravi rischi cui Mohamed Shahin andrebbe incontro se fosse rimpatriato in Egitto. Procedere con la sua espulsione metterebbe l’Italia in diretta violazione dei suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. Il trattamento riservato dall’Italia a Mohamed Shahin è un altro esempio dell’arretramento globale dello Stato di diritto e dei diritti umani a cui stiamo assistendo. Nessuno Stato può credibilmente dichiarare che un altro paese sia “sicuro per tutte/i”, come fa l’Italia classificando l’Egitto come “paese di origine sicuro”, e nessuno Stato può semplicemente ignorare i propri obblighi fondamentali in materia di diritti umani» ha dichiarato Sayed Nasr, direttore esecutivo dell’associazione EgyptWide for Human Rights. Al momento della revoca del permesso di soggiorno, Mohamed Shahin era un individuo incensurato, attivamente coinvolto nella vita socio-culturale della sua città e della comunità islamica torinese. Nel suo ruolo di imam è stato spesso promotore di iniziative nell’ambito dei percorsi locali di dialogo interreligioso, e nel contesto delle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese è ricordato dai movimenti locali per il ruolo di mediatore a garanzia dello svolgimento pacifico delle manifestazioni. L’inconsistenza dei fatti contestati a Shahin per giustificare il procedimento di espulsione emesso contro di lui ai sensi dell’art.13, comma 1 del Testo unico sull’immigrazione rappresenta un caso allarmante di strumentalizzazione del diritto in chiave repressiva e di repressione del dissenso pacifico per mezzo della normativa in materia di sicurezza nazionale. «Nella vicenda di Mohamed Shahin preoccupa l’utilizzo dello strumento del decreto d’espulsione e del trattenimento in CPR, una procedura amministrativa che non prevede le garanzie di difesa del procedimento penale. L’applicazione di tale misura altamente restrittiva si basa peraltro su un sospetto riguardante una condotta che non configura una fattispecie penalmente rilevante e su alcune dichiarazioni poi rettificate. Emerge che le persone straniere in Italia rischiano troppo facilmente di essere allontanate dal tessuto sociale in cui vivono, dove intessono relazioni e di cui sono parte integrante, e che non godono delle piene garanzie che lo Stato di diritto prevede per tutte e tutti. Riteniamo che sia un fatto gravissimo, lesivo dei diritti fondamentali», ha dichiarato Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto. «Se espulso in Egitto, stato di cui conosciamo bene la propensione alla tortura e alle sparizioni forzate, Mohamed Shahin rischierebbe la vita. Ciò a causa di un provvedimento iniquo e sproporzionato emesso dalle autorità italiane, frutto di politiche repressive in materia di sicurezza nazionale, provvedimento che chiediamo sia annullato», ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nel corso degli anni passati, le organizzazioni firmatarie hanno documentato numerosi casi in cui cittadini egiziani di rientro dall’estero, tanto volontariamente quanto a seguito di procedure di rimpatrio iniziate da Stati terzi, sono stati sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, compresi arresti arbitrari, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture, per la loro reale o percepita opposizione al governo. Tra le vittime di queste pratiche rientrano oppositori politici, studenti universitari, attivisti e comuni cittadini senza una storia di attività politica o movimentista alle spalle. Esiste inoltre una pratica consolidata, da parte delle autorità egiziane, di ritorsioni e intimidazioni nei confronti dei familiari degli oppositori politici, che comprende arresti e processi arbitrari, detenzioni prolungate oltre i termini di legge, maltrattamenti, torture, sparizioni forzate. Dal momento che le autorità egiziane hanno già sottoposto la famiglia Shahin a procedimenti giudiziari iniqui a causa della loro opposizione pacifica al governo, abbiamo motivo di credere che egli andrebbe incontro a gravi violazioni dei diritti umani se rimpatriato in Egitto, tra cui detenzione arbitraria o sparizione forzata, maltrattamenti, torture, procedimenti penali ingiusti. Il provvedimento del ministero dell’Interno italiano che attribuisce al sig. Shahin un profilo di pericolosità sociale avrebbe inoltre l’effetto di aggravare notevolmente tali rischi. Alcune delle organizzazioni firmatarie hanno esposto preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani in cui il sig. Shahin rischierebbe di essere sottoposto se venisse espulso in Egitto in una lettera alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno italiano, chiedendo di sospendere il procedimento di espulsione e fornendo inoltre documentazione e reportistica sullo stato dei diritti umani in Egitto che illustra la serietà e la gravità di tali rischi, ma non abbiamo ad oggi ricevuto risposta. Chiediamo alle autorità italiane, in conformità ai propri obblighi in materia di diritti umani, ivi compresi il diritto di ogni persona a non essere sottoposta a trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il diritto alla riservatezza familiare, e il principio di non-refoulement, di fermare l’espulsione di Mohamed Shahin verso l’Egitto, e di garantirgli il diritto a cercare protezione internazionale in Italia. ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE: * Amnesty International Italia * ARCI * A Buon Diritto * European Legal Support Center (ELSC) * Law and Democracy Support Foundation (LDSF) * EgyptWide for Human Rights (EgyptWide) * Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS) * Egyptian Commission for Rights and Freedoms (ECFR) * Egyptian Front for Human Rights (EFHR) * Egyptian Human Rights Forum (EHRF) * Refugees Platform in Egypt (RPE) * El Nadeem Center * Sinai Foundation AMNESTY ITERNATIONAL ITALIA, 2.11.2025 – Stop all’espulsione di Mohamed Shahin verso l’Egitto PRESSENZA, 2.11.2025 – Il ‘caso’ di Mohamed Shahin: dal suo rilascio dipende la tutela di tanti diritti  Amnesty International
Verso l’equiparazione tra anti-sionismo e anti-semitismo. Un caso di persecuzione all’Università di Bologna
Mentre il dibattito si accende intorno alla proposta di legge Gasparri, che di fatto equipara l’antisionismo all’antisemitismo rendendo labile il confine tra i due concetti mettendo così a rischio ogni critica al governo israeliano, proseguiamo l’excursus all’interno delle agenzie culturali, in questo caso quella universitaria, sulle presenze nel nostro territorio di soldati dell’IDF o di loro fiancheggiatori. In questo caso si vuole far luce sulle numerose intolleranze anche violente verso chi tenta di togliere il velo al genocidio in Palestina che incredibilmente ancora in molti negano o ne fanno una questione di “quantità” di morti o di assenza di prove certe: certamente aver ucciso in maniera mirata decine di giornalisti sul campo ha ridotto questa possibilità testimoniale, così come seppellire chissà quanti cadaveri con l’uso di bulldozer militari renderà difficoltosa la conta definitiva dei trucidati. Raccontiamo, quindi, il caso di un ricercatore di UNIBO, Giuseppe (nome di fantasia n.d.r.), perseguitato da studenti israeliani-sionisti in ateneo perché indossa la kefiah. Si scopre che alcuni di loro sono soldati dell’IDF. Il caso di Giuseppe riguarda un docente ricercatore del DIMEVET di Ozzano Emilia, il Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie di UNIBO. la quale non ha saputo/voluto difenderlo. La sua colpa? Indossare la kefiah, che alcuni studenti permeati da idee di stampo sionista non tollerano, al punto di pretendere dal dipartimento il divieto di indossarla negli spazi dell’università. La sensazione di Giuseppe è di essere stato “puntato”, in particolare in occasione dell’iniziativa “Sudari per Gaza”, il 4 novembre 2024, quando come tanti docenti universitari in Italia, aveva dedicato 5 minuti prima della lezione alla tragedia di Gaza: in particolare, si limitò a fornire in modo asettico i dati numerici dei morti in Palestina ed in Israele dal 7 ottobre 2023 in poi, senza esprimere alcun giudizio personale. Quel giorno in aula c’erano degli studenti israeliani e forse proprio loro hanno riferito ad altri colleghi connazionali in dipartimento quanto avvenuto. Sta di fatto che dopo quell’evento alcune studentesse, che non seguivano il corso in cui insegnava, hanno iniziato a diffondere in ateneo voci infondate sul suo conto, minando così la sua reputazione. Nello specifico, lo hanno accusato di spargere odio in università contro Israele e di utilizzare le sue lezioni per fare propaganda a favore della Palestina. Accusa molto strana da parte di studentesse che non frequentano il suo corso, visto inoltre che ai questionari distribuiti al termine delle lezioni, quasi all’unanimità gli studenti hanno risposto che il docente si è attenuto agli argomenti del corso. Una volta fatta terra bruciata intorno a lui in dipartimento, le studentesse hanno alzato il tiro, denunciando la sua condotta all’amministrazione centrale di Unibo con un messaggio via e-mail al rettore, ribadendo la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo di professore, che guarda caso era proprio il prossimo step della sua carriera accademica. A fronte di questa campagna denigratoria portata avanti impunemente dal gruppetto di studentesse israeliane, l’ateneo ha risposto confermando una sanzione disciplinare che blocca la carriera di Giuseppe per un anno. E Unibo non ha finora messo in campo, dopo oltre tre mesi da quelle accuse, nessuna forma di tutela dei diritti nei confronti di un suo lavoratore dipendente, limitandosi a concedergli un colloquio, senza alcun impegno, solo di recente. Una governance quindi nella pratica assente e incapace di gestire questa vertenza. Il caso è stato portato alla ribalta dal sindacato USB, che peraltro si è messo a disposizione dell’ateneo dopo essersi consultato con il team di legali di ELSC – European Legal Support Center: un ricercatore isolato nel suo dipartimento, salvo la solidarietà di alcuni, rarissimi, docenti. Un ricercatore abbandonato alla sua sorte contro un attacco frutto di una strategia sionista, condita dalla consueta dose di vittimismo da parte delle studentesse, da diffamazioni, da pressioni ai vertici e attività di controllo indebite: per giustificare il monitoraggio che effettuavano sui social hanno persino affermato che era il docente ad invitare gli allievi a seguire i post sul suo profilo. Naturalmente, anche questo non rispondeva a verità. Il ricercatore ha pagato con una censura scritta comminata da Unibo per aver pubblicato un post sul suo profilo personale per la semplice leggerezza di aver indicato sul suo account l’affiliazione a Unibo. In seguito a quel post, tutto sommato innocente e che rientra comunque nella sfera della libera espressione del suo pensiero, è stato hackerato il suo profilo Facebook, cosa segnalata subito dal ricercatore a Meta. Dopo il furto dell’account, qualcuno pubblica un post molto crudo sul suo profilo per far credere che sia opera del docente, ma anche se risultava evidente che non era frutto suo, visto lo stile sgrammaticato in un misto di lingue fra italiano ed  inglese. Ma per l’accusa di Unibo è stata sufficiente la pubblicazione del primo post, quello riportante l’affiliazione ad Unibo indicata nel suo profilo, per chiudere il procedimento con una sanzione disciplinare. La Commissione disciplinare, per di più, nella sua attività istruttoria non sente la necessità di convocare le studentesse ed il ricercatore, perché in seguito a quel primo post, il secondo risulta “irrilevante”, cosi come risulta irrilevante lo stato d’animo che ha portato il docente a pubblicare quel post sull’onda di una reazione di sollievo dopo la risposta dell’Iran all’attacco delle bombe di Israele su Teheran: nella capitale iraniana, infatti,  vive la compagna del ricercatore e proprio nei giorni del suo fatale post, una bomba cade a soli 50 metri dall’edificio della famiglia della sua compagna, ovvero anche la sua famiglia.  Loro si salvano, ma lo stato emotivo di Giuseppe è pieno di preoccupazione, un’ansia che si scioglie in un moto di sollievo solo alla risposta di Teheran ai missili. Ma tutto questo per Unibo è indifferente, non ha alcun valore o peso nella decisione sulla sanzione da comminare. Vince l’attacco delle studentesse israeliane e la loro strategia sionista nel portare a segno l’azione. La governance esce da questa storia ricoprendosi con un manto di vergogna, senza alcuna motivazione plausibile, se non la codardia di fronte alle pressioni sioniste che provengono dall’esterno, oltre che presumibilmente anche da chi all’interno di Unibo fa da sponda. Un manipolo di studentesse israeliane manda in tilt il sistema di garanzie che dovrebbe proteggere i lavoratori dell’ateneo in casi del genere. Nell’istruttoria non vengono evidenziate le verifiche necessarie che l’USB aveva suggerito e si preferisce credere ad un gruppo di studentesse, a danno del ricercatore;  ma quel gruppo di studenti e studentesse che hanno agito per screditare e diffamare il docente non sono semplici ragazzi e ragazze venuti qui per studiare. Fra di loro c’è qualcuno/a che milita ancora oggi nell’esercito israeliano, come provato nelle controdeduzioni del sindacato  USB inviate all’area del personale per difendere la posizione del ricercatore. Soldati e soldatesse israeliani: alcuni di loro hanno completato il servizio di leva obbligatoria, mentre altri militano attualmente nell’IDF. E’ presumibile che quasi tutte/i vengano richiamati come riservisti (anche in Unibo) quando da Israele viene emanato l’ordine di rientro per combattere. Ed è ragionevole immaginare che almeno qualcuno di loro possa essere impiegato, anche indirettamente, in attacchi contro Gaza, oltre che in Cisgiordania e altre zone del Medio Oriente. Insomma, la possibilità che studenti israeliani che frequentano corsi in Unibo facciano la spola fra le aule del Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie a Ozzano e gli avamposti o le retroguardie nel genocidio a Gaza non è poi un’idea così remota, anzi sembra molto più che plausibile e il principio di precauzione dovrebbe portare ad evitare in origine tali presenze in ateneo. Il sindacato USB ha chiesto quindi a gran voce che la governance di Unibo faccia le opportune verifiche per chiarire se qualcuno o qualcuna di loro partecipa direttamente o indirettamente al genocidio, commettendo crimini di guerra e proceda in tal caso a denunciarli ed espellerli dall’Ateneo, anziché agevolarli come risulta che stia facendo, concedendo appelli straordinari per fare esami dopo il loro rientro dalle missioni militari o durante il loro periodo all’estero. Sarebbe ora, anche se in ritardo e ormai dopo due anni di massacri indiscriminati, di rompere ogni complicità con Israele rescindendo tutti gli accordi: anche quelli di mobilità, che dietro la loro apparente innocenza possono nascondere alcune insidie qui descritte,: qualsiasi studente potrebbe trovarsi nella stessa aula un soldato sionista israeliano che il giorno prima sparava contro civili indifesi nel genocidio a Gaza e il giorno dopo siede lì accanto come compagno di banco con le mani ancora sporche di sangue…   Stefano Bertoldi
Il caso Bertulazzi
Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona […] L'articolo Il caso Bertulazzi su Contropiano.
Nella Lituania “europeista” si celebrano i nazisti ma si perseguitano i politici non guerrafondai
Il Centro Documentazione e associazione della comunità ebraica situata in Lituania, Defending History, ha pubblicamente denunciato i processi in corso di riabilitazione e legalizzazione del passato neonazista locale, con commemorazioni, riscrizione della storia circa i crimini e massacri perpetrati nella seconda guerra mondiale nella regione, inaugurazioni di targhe e monumenti […] L'articolo Nella Lituania “europeista” si celebrano i nazisti ma si perseguitano i politici non guerrafondai su Contropiano.
Un appello a Russia e Ucraina per il rilascio dei prigionieri di coscienza
L’Ufficio Europeo per l’Obiezione di Coscienza (EBCO) ha pubblicato un rapporto annuale che chiede il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza in Ucraina, compresi quelli detenuti nei territori occupati dalla Russia e coloro che hanno subito abusi a causa della pesante mobilitazione militare ai fini della guerra difensiva ucraina contro l’aggressione russa. Il rapporto elenca 15 nomi di obiettori di coscienza che devono essere immediatamente rilasciati dall’Ucraina, compresi quelli imprigionati dopo essere stati condannati e detenuti in custodia cautelare ai sensi degli articoli 336 (elusione della leva) e 402 (disobbedienza) del Codice penale ucraino, e quelli detenuti nelle unità militari; si sottolinea che il numero completo di obiettori detenuti sembra essere significativamente più alto e ammonta almeno a qualche centinaio. Il rapporto menziona anche che i Testimoni di Geova riferiscono di 7 prigionieri di coscienza detenuti dall’Ucraina e che tra i 183 Testimoni di Geova detenuti dalla Russia per le loro convinzioni, compresa l’obiezione di coscienza, 14 sono detenuti in Crimea. I difensori dei diritti umani chiedono anche di proteggere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare in tempo di guerra e di permettere agli obiettori di servire la società in modo pacifico. L’obiezione di coscienza al servizio militare è un diritto umano fondamentale che deve essere protetto, ricorda l’EBCO. È inerente al diritto umano alla libertà di pensiero, coscienza e religione, sancito dall’articolo 18 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), dall’articolo 10 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e da altri trattati sui diritti umani. Il Rapporto annuale 2024 dell’EBCO sull’obiezione di coscienza al servizio militare in Europa viene pubblicato in un momento di crescente militarizzazione globale, si legge nel comunicato stampa. Dalla ripresa del servizio di leva in Europa agli impatti devastanti delle guerre in corso, la protezione e il sostegno agli obiettori di coscienza sono più urgenti che mai. Il rapporto di quest’anno documenta le persistenti violazioni dei diritti degli obiettori di coscienza – in particolare in Russia, Ucraina, Bielorussia, Turchia, Cipro e Grecia – e le minacce all’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza nel quadro del Consiglio d’Europa. L’EBCO è solidale con tutti i prigionieri di coscienza e con chi si oppone in modo nonviolento alla guerra e alla militarizzazione in tutto il mondo, e rimane attivamente impegnato nella campagna internazionale #ObjectWarCampaign, a sostegno degli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini e a favore della loro protezione e del loro asilo nei Paesi dell’UE. L’EBCO chiede alla Federazione Russa di rispettare il diritto all’obiezione di coscienza, di porre fine alla coscrizione e alla propaganda militare, di smilitarizzare l’istruzione nei territori ucraini occupati e di perseguire la completa smilitarizzazione. L’EBCO esorta inoltre l’Ucraina a sostenere questo diritto in tempo di guerra e a cessare la persecuzione degli obiettori e dei loro sostenitori, tra cui il membro del Consiglio dell’EBCO Yurii Sheliazhenko. L’EBCO accoglie con favore la chiara dichiarazione della Commissione di Venezia nel suo parere amicus curiae, relativo al caso di Dmytro Zelinsky, secondo cui nessun obiettore può essere costretto a portare le armi. FREE CIVILIANS ha pubblicato il parere e i quaccheri lo hanno tradotto in ucraino per la Corte Costituzionale dell’Ucraina Obiettori repressi dalla Russia nei territori occupati dell’Ucraina Secondo il rapporto dell’EBCO, War Resisters’ International, in collaborazione con Connection e.V. e il Movimento Pacifista Ucraino ha informato le Nazioni Unite che, in violazione dell’articolo 51 della IV Convenzione di Ginevra, la Russia impone la schedatura e la coscrizione militare obbligatoria, l’indottrinamento militare dei bambini nelle scuole, la propaganda e la pressione ad arruolarsi nei territori occupati illegalmente dall’Ucraina, mediante detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni. Il rapporto fornisce un link a un database di 875 Testimoni di Geova perseguitati dalla Russia per le loro convinzioni, compresa l’obiezione di coscienza. Secondo questo database, tra il numero totale dei 183 prigionieri di coscienza, 14 sono detenuti in Crimea, uno (Vitaliy Burik) agli arresti domiciliari e altri imprigionati: Aleksandr Dubovenko, Sergey Filatov, Yuriy Gerashchenko, Artem Gerasimov, Viktor Kudinov, Aleksandr Litvinyuk, Vladimir Maladyka, Sergey Parfenovich, Vladimir Sakada, Igor Shmidt, Viktor Stashevskiy, Sergey Zhigalov e Yevgeniy Zhukov. Violazioni sistematiche dei diritti umani in Ucraina Il rapporto dell’EBCO solleva diverse importanti preoccupazioni riguardanti l’Ucraina e fornisce raccomandazioni mirate sui problemi esistenti. Sottolinea che ci sono prigionieri di coscienza come Mykhailo Adamovych, Vladyslav Bezsonov, Taras Bratchenko, Tymur Chyzhov, Serhii Ivanushchenko, Andrii Khomenko, Andrii Kliuka, Vitalii Kryushenko, Serhii Nechayuk, Ihor Nosenko, Oleksandr Radashko, Serhy Semchuk, Andrii Skliar, Oleksandr Solonets, Vasyl Volosheniuk ed è urgente il loro immediato rilascio, così come il rilascio di tutti gli obiettori di coscienza imprigionati in istituti di pena o detenuti in strutture militari, condannati o detenuti in custodia cautelare; è inoltre preoccupante che alcuni obiettori di coscienza siano incriminati per vari reati, quando in realtà queste persecuzioni sono perpetrate unicamente a causa della loro religione o credo. Tra le principali preoccupazioni, l’imposizione alla società dell’ideologia che sia un dovere di tutti combattere una guerra difensiva nell’esercito o sostenere l’esercito, sopprimendo e non tollerando in tal modo il dissenso pacifista, che mina il pluralismo religioso, e convinzioni e il controllo democratico civile. L’EBCO raccomanda di prendere in seria considerazione le proposte degli obiettori di coscienza di contribuire, attraverso azioni nonviolente e un lavoro pacifico, alla resilienza della società civile democratica che soffre a causa degli attacchi dell’esercito russo. L’EBCO è preoccupato per la revoca, durante l’attuale stato bellico, di ogni riconoscimento, e per la precedente mancanza di pieno riconoscimento, del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, prima, durante o dopo il servizio militare, indipendentemente dalle convinzioni su cui si basa l’obiezione, o dall’appartenenza a chiese o altre organizzazioni. Si suggerisce di intensificare gli sforzi per introdurre una legislazione sul servizio alternativo non militare in tempo di guerra nel Parlamento e nel gruppo di lavoro interdipartimentale incaricato di redigere gli emendamenti. Le esenzioni selettive dal servizio di leva introdotte di recente per alcuni membri del clero, nel tentativo di tranquillizzare le Chiese, non solo si basano sulla loro classificazione come “lavoratori essenziali” senza riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ma mirano apparentemente a creare divisione tra le Chiese, per incentivare il clero ad astenersi dal sostenere la piena protezione del diritto dei fedeli regolari all’obiezione di coscienza. La punizione degli obiettori di coscienza continua attraverso la persecuzione, la discriminazione, la detenzione o addirittura la tortura e i trattamenti inumani, nonché le campagne mediatiche ostili, riferisce l’EBCO. Secondo un dictum della Corte Suprema, l’obiezione di coscienza è trattata come un’elusione della leva punibile per legge. Anche quando l’obiettore può essere considerato un lavoratore essenziale, come nel caso di Valentyn Adamchuk, un Pentecostale che lavora nella metropolitana di Kiev e ha partecipato al ripristino dei trasporti dopo gli attacchi dei droni e dei missili russi, i reclutatori dell’esercito, invece di appoggiare la richiesta di concessione di un periodo come riservista, hanno insistito per la sua mobilitazione, sapendo che è un obiettore di coscienza, e poi con palese mancanza di rispetto per i diritti umani hanno falsamente denunciato alla polizia “l’elusione della leva”, che ha portato a una rapida condanna a 3 anni di carcere. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha documentato il reclutamento forzato di cinque obiettori di coscienza (nel rapporto, si vedano i paragrafi 90 e 91), tutti detenuti dai militari, minacciati con violenza e inviati in prima linea; tutti hanno riferito di aver subito maltrattamenti e torture, quattro di loro sono stati picchiati, soffocati e trascinati per terra. FREE CIVILIANS ha riferito in precedenza che i pacifisti ucraini avevano denunciato torture durante la mobilitazione, citando casi analizzati e pubblicati da Forum 18 e da altre fonti. Le pratiche di coscrizione forzata e di registrazione obbligatoria all’esercito (“busificazione”) continuano, portando a casi di percosse e decessi nei centri di reclutamento militare. A coloro che non hanno la matricola militare viene impedito l’accesso al lavoro, all’istruzione (istituti di istruzione superiore) e ai servizi pubblici (come i servizi consolari all’estero). Questo include anche accuse di negligenza nei confronti dei militari incaricati dei piani di reclutamento, che mettono sotto pressione i reclutatori e incentivano il ricorso a metodi aggressivi. Tra le indagini relative agli abusi terminate nel 2024 con l’incriminazione di alcuni reclutatori militari, vi sono stati pestaggi crudeli a Vinnytsia, detenzioni arbitrarie a Sambir (regione di Leopoli), torture a Ternopil ed estorsione di tangenti ai posti di blocco sotto la minaccia di detenzione arbitraria e mobilitazione nella regione di Odessa. Ulteriori indagini sono state avviate in seguito ad alcuni decessi avvenuti nei centri di reclutamento. I reclutatori dell’esercito continuano a impedire ai coscritti di richiedere assistenza legale e, secondo quanto riferito, esercitano pressioni sui membri dell’ordine degli avvocati in casi delicati. Nel settembre 2024, il Comitato delle Nazioni Unite sulle Sparizioni Forzate ha criticato la detenzione arbitraria da parte dell’Ucraina di militari di leva, compresi gli obiettori di coscienza, alcuni dei quali sono stati tenuti in isolamento, e ha sollecitato un’indagine completa su tutte le accuse, un’azione penale nei confronti dei responsabili e il risarcimento delle vittime. Le denunce di incostituzionalità della legislazione che consente di punire l’obiezione di coscienza, di discriminare gli obiettori e di negare il servizio alternativo in tempo di guerra, presentate dagli ex prigionieri di coscienza Dmytro Zelinsky (rilasciato nel maggio 2025) e Vitalii Alekseienko (rilasciato nel maggio 2023), sono in stallo presso la Corte Costituzionale dell’Ucraina, che attualmente non è in grado di decidere nel merito a causa dei ritardi nella nomina di nuovi giudici. FREE CIVILIANS ha pubblicato un articolo sul ricorso presentato da Alexeienko. I rifugiati ucraini in età di leva stanno oggetto di tentativi volti a costringerli a ritornare in Ucraina o a essere espulsi attraverso il diniego dei servizi consolari per la mancanza di una registrazione militare aggiornata, l’assenza dell’applicazione militare Reserve+ sui loro smartphone o la mancanza di un codice corretto al suo interno, nessuna eccezione per gli obiettori di coscienza. Molti di questi uomini vivono in Europa da decenni e hanno perso completamente i legami con l’Ucraina, compreso il fatto di non avere conti bancari in banche ucraine – eppure l’identificazione bancaria (BankID) è un elemento chiave per l’autorizzazione nell’applicazione Reserve+. Il rifiuto di rilasciare o rinnovare i passaporti internazionali ucraini, necessari per la proroga dei permessi di soggiorno, causa l’impossibilità di rinnovarli, la perdita dello status giuridico e il rischio di deportazione. Le restrizioni sui servizi consolari costituiscono una forma di coercizione, in quanto gli uomini sono costretti a tornare in Ucraina e ad affrontare il rischio di arruolamento forzato, oppure a rimanere all’estero senza documenti personali validi, il che limita fortemente la loro libertà di movimento, il diritto a una residenza e l’accesso alla protezione legale. Ciò potrebbe richiedere agli Stati europei di riconoscere come validi i passaporti ucraini scaduti, poiché, come sostenuto nella petizione degli ucraini al Parlamento Europeo n. 1453/2024, queste restrizioni sul rilascio dei passaporti sono una violazione dei diritti umani. Riferendo di circa 15 prigionieri di coscienza e di altri casi di violazione dei diritti umani ben documentati, la maggior parte dei quali già noti a livello internazionale, l’EBCO avverte che potrebbero essere molto più numerosi i casi di procedimenti giudiziari, detenzioni preliminari, condanne, imprigionamenti, detenzioni arbitrarie e trattamenti crudeli nei confronti degli obiettori di coscienza, come suggeriscono le statistiche dei procedimenti giudiziari e dei tribunali, nonché gli elenchi noti dei nomi di persone che pregano per centinaia di obiettori di coscienza perseguitati nelle chiese ucraine. Il rapporto sottolinea la resistenza popolare spontanea su larga scala alla leva militare in Ucraina, con oltre 6 milioni di uomini idonei che non si sono sottoposti alla registrazione obbligatoria ai fini dell’arruolamento, nonostante le minacce di severe punizioni. Purtroppo, questa riluttanza a combattere la guerra raramente coincide con la consapevolezza del diritto umano all’obiezione di coscienza e con la disponibilità all’azione nonviolenta necessaria per fermare l’aggressione russa e garantire la resistenza della popolazione civile e la democrazia in Ucraina, che potrebbe essere un modo legittimo di servire pacificamente il Paese invece di contribuire allo sforzo bellico. Nei casi riportati dall’EBCO, gli obiettori hanno dimostrato la loro sincerità chiedendo un servizio alternativo non militare e appartenendo a chiese i cui insegnamenti proibiscono l’uso delle armi; il numero di membri di tali chiese e organizzazioni religiose, secondo il gruppo di lavoro interdipartimentale incaricato di redigere la legge sul servizio alternativo in tempo di guerra, potrebbe ammontare a 500.000. Il rapporto dell’EBCO e le sue raccomandazioni generali Ogni anno, l’EBCO pubblica il Rapporto annuale sull’obiezione di coscienza al servizio militare in Europa, avvalendosi dei contributi di governi nazionali, istituzioni per i diritti umani, ONG e reti di solidarietà. Il rapporto viene presentato al Parlamento Europeo, all’Assemblea Parlamentare e al Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa e alle autorità statali competenti, ogni volta accompagnato da una serie di raccomandazioni mirate. Le sue raccomandazioni generali, applicabili a tutti gli Stati europei, sono indicate nel rapporto: 1. se già non è stato fatto, abolire il servizio militare obbligatorio e nel frattempo astenersi dal perseguire o perseguire in altro modo gli obiettori di coscienza, coloro che li sostengono o che sostengono l’obiezione di coscienza, senza che sia richiesta alcuna ulteriore azione da parte di tali persone; oppure -secondo – fornire un servizio alternativo non punitivo e non discriminatorio di natura puramente civile, che non deve essere asservito al sistema militare, ma progettato e gestito con la partecipazione degli obiettori di coscienza; 2. riconoscere per legge il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, compreso il diritto all’obiezione di coscienza a tutte le forme di arruolamento, istruzione e addestramento obbligatori ai fini della coscrizione in tempo di pace e in tempo di guerra, e garantire che sia possibile per tutti gli obiettori di coscienza evitare l’arruolamento nelle forze armate e che tutti i membri in servizio delle forze armate o i riservisti possano ottenere il rilascio senza sanzioni nel caso in cui sviluppino obiezioni di coscienza, e che i diritti civili, economici e politici degli obiettori di coscienza siano pienamente tutelati; 3. riconoscere l’obiezione di coscienza come parte vitale del pluralismo e della libertà di religione e di credo nella società democratica, garantire la consapevolezza della legittimità dell’obiezione di coscienza tra i funzionari e nell’opinione pubblica, e garantire la non discriminazione degli obiettori di coscienza, che non dovrebbero essere sottoposti a campagne di incitamento all’odio ed essere considerati colpevoli del reato di elusione del servizio di leva, o di qualsiasi altro reato, e costretti a provare la loro innocenza; 4. cessare immediatamente qualsiasi reclutamento nelle forze armate di persone di età inferiore ai 18 anni e interrompere qualsiasi addestramento di tipo militare di tali persone; 5. accogliere le domande di asilo di tutte le persone che cercano di sottrarsi al servizio militare in qualsiasi Paese in cui non esistono disposizioni adeguate per gli obiettori di coscienza, e in particolare quando rischiano di essere costretti a partecipare a conflitti armati; 6. diminuire le spese militari e aumentare le spese a favore della società, e mettere a disposizione dei cittadini con obiezioni di coscienza strumenti per specificare che nessuna parte delle tasse das loro pagate è destinata alle spese militari; 7. introdurre l’educazione alla pace in tutti i settori del sistema educativo e impedire qualsiasi forma di militarizzazione dei programmi di studi; 8. adottare misure adeguate per gli obiettori di coscienza e impedire azioni violente nei loro preparativi istituzionali e legali per qualsiasi tipo di emergenza e risposta alle minacce percepite per la pace, ricordando che legittimi scrupoli di coscienza potrebbero impedire a un numero significativo di civili di sottomettersi al sistema militare, e che in nessun caso un obiettore di coscienza può essere obbligato a portare o usare armi, anche per la legittima difesa del Paese. Fonte: civilni.media Link all’articolo completo Redazione Italia