Staccare la spina alla guerra
I MILITARI HANNO BISOGNO DI MOLTA ENERGIA, NON SOLO PER COSTRUIRE ARMI. PER
FERMARE LA GUERRA DOVREMMO PROVARE A STACCARGLI LA SPINA. COME? METTENDO IN
DISCUSSIONE NON SOLO QUALE ENERGIA PRODURRE, MA CHI LA PRODUCE E PER FARNE COSA
Foto Una città in comune di Pisa
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L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi.
I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre
più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente
mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento
a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati
satellitari, informatici e l’uso di enormi data base. Tutte attività fameliche
di energia.
Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa
Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e
Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni
L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei
fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione
atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba.
Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività
militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”,
consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5
e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si
situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina e India. (Federica Frazzetta e Paola
Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono
segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma
solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una
rendicontazione volontaria.
Ma è davvero possibile scorporare i dati sul consumo di energia tra i settori
militari e civili?
Per il nucleare l’intreccio è – per definizione – inestricabile. Sia per come
funziona la filiera produttiva, sia per i requisiti di gestione. Una centrale
nucleare è di fatto un sito militare.
Ma l’ignobile e perverso “dual use” è oramai una realtà in tutti i settori
tecnologici e della ricerca scientifica.
Sappiamo che le industrie belliche e le attività militari sul campo hanno
bisogno dei servigi delle grandi aziende tecnologiche globali (tra cui IBM,
Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard). Sappiamo da quello che
sta accadendo a Gaza (vedi i rapporti di Francesca Albanese) come la guerra sia
il campo di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche in ogni settore.
Non è del resto una novità nella storia dell’umanità. I militari hanno bisogno
di usare i ritrovati della scienza, così come la scienza e la tecnica hanno
bisogno delle commesse militari per potersi sperimentare e sviluppare. Una
questione questa di enorme importanza su cui gli scienziati, i centri di
ricerca, le università dovrebbero riflettere, a proposito della neutralità della
scienza e di altri miti bugiardi che allontano l’agire etico e delle
responsabilità individuali (vedi l’Appello degli scienziati contro il riarmo,
firmato da Carlo Rovelli e non molti altri).
Le grandi innovazioni nella chimica (esplosivi che diventano fertilizzanti e
viceversa), nell’ingegneria (aviazione), nelle telecomunicazioni, nella
biologia, della geoingegneria, nella stessa informatica sono quasi sempre il
frutto della volontà di conquista degli stati esercitata attraverso gli
eserciti.
La questione non è tanto o quanto si spende per le armi (come se il 2,1% sia più
sostenibile del 5% del Pil), ma tutto ciò che permette agli industriali di
costruire e ai militari di usare le armi. Quando si dice siamo in una “economia
di guerra” non si dice solo che la spesa per gli eserciti è eccessiva, ma che il
sistema sociopolitico ruota attorno alla guerra, dipende dai rapporti di forza
armati (deterrenza) e dalla capacità di usarli in qualsiasi omento e in
qualsiasi luogo (“prontezza”, la chiama Ursula von der Leyen). Letta e Draghi
nei loro rapporti/suggerimenti alla UE affermano che la competizione economica
(a partire dalla superiorità tecnologica) la si vince o la si perde nella misura
in cui gli appartati industriali militari saranno superiori a quelli dei
competitori. Mi pare che Israele lo stia dimostrando alla grande con l’IDF.
La spirale tra militarizzazione del pianeta, accaparramento delle materie prime
e controllo delle rotte commerciali moltiplica i conflitti armati (mai così
tanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, 57) e aumenta spaventosamente i
fabbisogni energetici.
Possiamo fermare la guerra?
Come fare, allora, a fermare la guerra? Potremmo provare a staccargli la spina.
Non è uno scherzo. Attenzione, anche loro sanno di avere qualche problema di
sostenibilità nell’uso dell’energia. Sembra che gli Stati maggiori del generale
Crosetto stiano lavorando a una “Strategia Energetica della Difesa”, il cui
obiettivo è: “raggiungere più elevati livelli di efficienza e indipendenza
energetica, al fine di perseguire concreti obiettivi di […] tutela ambientale
[…] e di sviluppare una nuova mentalità energy oriented nell’ambito dei settori
della logistica, delle operazioni e delle infrastrutture della Difesa”. Ci sono
anche progetti per “Caserme Verdi a basso impatto ambientale”, “Basi (navali)
Blu” e “Aeroporti Azzurri”.
L’ex ministro alla fu Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ora ad della
Leonardo saprà certamente inventarsi un carro armato con vernice green
biologica, perfettamente riciclabile e dotato di motori elettrici. C’è un
magistrale discorso di papa Bergoglio, che andrebbe sempre ricordato: “Gli aerei
inquinano l’atmosfera ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano
alberi per compensare parte del danno arrecato. Le società del gioco d’azzardo
finanziano compagnie per i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui
le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle
loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!”
(Vaticano 4 febbraio 2017). La Leonardo ci ha provato a donare 1,5 milioni di
euro all’ospedale di Roma Bambin Gesù, ma non li hanno voluti.
Se nell’economia di guerra tutto ruota inestricabilmente attorno all’apparato
militare industriale e se l’intero sistema industriale dipende dal controllo
dell’energia, allora rivendicare un controllo democratico sull’uso delle fonti
energetiche può essere una giusta e buona strategia per i movimenti pacifisti ed
ecologisti (ecopacifisti).
In fondo l’energia è una sola, è il flusso che alimenta ogni processo naturale.
È il primo bene comune. È la forza preesistente della vita, sia quella
miracolosamente sprigionata direttamente dal sole, sia quella racchiusa nei
giacimenti fossili, sia quella meravigliosamente rigenerata in continuazione dal
processo biochimico della fotosintesi clorofilliana, sia quella rara e
misteriosa contenuta nell’atomo di uranio. Ha un valore primario in sé, il cui
uso dovrebbe essere regolato da un semplice principio: i benefici che se ne
possono trarre, senza danneggiare il bene, devono essere messi a disposizione,
condivisi e goduti da tutti gli esseri viventi. Non solo gli esseri umani.
Poiché il flusso dell’energia è il principale regolatore e indicatore (il
“medium”) del metabolismo uomo/natura, nella storia dell’umanità intervengono
delle regolazioni sociali che trasformano un dono gratuito della natura in uno
di più potenti strumenti di controllo e di dominio politico. Accade così che nei
regimi del capitale (nell’“ecologia del capitale”) le fonti di energia primaria
vengano privatizzate attraverso la costruzione di apparati tecnologici e regimi
giuridici proprietari di cattura, estrazione, trasformazione, distribuzione,
erogazione, consumo. Si formano così enormi asimmetrie di potere nel disporre
del bene comune, concentrazioni ed esclusioni, sprechi vergognosi e
disuguaglianze intollerabili (povertà energetica, magari tra quelle popolazioni
dal cui suolo si estraggono idrocarburi; 800 mln di africani non hanno accesso
all’elettricità). Queste strutture e questi apparati sono pensati allo scopo di
realizzare profitti e accumulare capitali, trasformano l’energia (un dono
gratuito) in una merce e oscurano l’origine naturale dell’energia.
Mettere in discussione l’intero sistema energetico
Per avere la pace, per pacificare il mondo dovremmo quindi mettere in
discussione il sistema energetico nel suo complesso. Non solo il tipo di
tecnologie usate per trasformare l’energia primaria in energia utilizzabile, non
solo gli impatti ambientali sulle diverse matrici naturali lungo tutta la
filiera, non solo l’equa ridistribuzione delle utilità, ma anche quali sono i
fabbisogni autentici e davvero necessari al benessere umano (e non solo) che
devono essere garantiti. Insomma, dovremmo riuscire a mettere in discussione non
solo quale energia produrre, ma chi la produce e per farne cosa. La questione
fondamentale è il tipo di controllo sociale delle fonti e dei sistemi di
distribuzione dell’energia.
Non siamo – mi pongo all’interno dei movimenti che sognano una società della
decrescita – mossi da furore ideologico anticapitalistico o da nichilismo
tecnologico. A me piace il solare perché è una fonte ben distribuita e si può
usare senza appropriarsene. Amo le Comunità energetiche rinnovabili perché penso
che siano una forma di autogestione consapevole e replicabile. Ma so anche
quanto facile sia la loro sussunzione nel mercato tramite i collegamenti alla
rete e la bancarizzazione dei ricavi. Mi rivolgo quindi a quanti in ottima buona
fede sostengono la “transizione energetica”, le energie pulite, la neutralità
climatica, l’elettrificazione, le green tech… per metterli in guardia sul fatto
che questi sacrosanti obiettivi rimarranno una chimera (come lo è tutto il Green
Deal europeo) se a controllare produzione e distribuzione continueranno ad
essere le forze di mercato, i gruppi industriali interessati a ricavare più
profitti a prezzi vantaggiosi.
Mi auguro e spero che non un raggio di sole, non un soffio di vento, non una
goccia d’acqua possa mai finire in mani armate.
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Testo preparato per l’incontro La transizione ecologica va in guerra: il ritorno
del falso mito del nucleare, promosso da Confluenza (progetto nato per
connettere le lotte territoriali nel Piemonte) all’interno del Festival
dell’Alta Felicità, a Venaus.
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Nell’archivio di Comune, sono leggibili oltre 250 articoli di Paolo Cacciari.
Tra gli ultimi suoi libri Re Mida. La mercificazione del pianeta. Lavoro e
natura, economia ed ecologia (ed. La Vela).
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LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI:
> La guerra organizza l’accumulazione del capitale
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