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È tempo di giustizia riparativa per i crimini del colonialismo?
Il movimento per le riparazioni legate alla schiavitù perpetrata dagli imperi coloniali europei sta crescendo e acquistando visibilità. A guidare questa spinta sono soprattutto gli sforzi dei Paesi dei Caraibi, che trovano risonanza anche negli appelli del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Il 30 maggio 2025 António Gutierres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha reiterato l’invito agli Stati Membri a lavorare per la giustizia e le riparazioni per gli africani e la diaspora affermando che: “L’Africa è un continente di energia e possibilità illimitate. Ma per troppo tempo, le colossali ingiustizie inflitte dalla schiavitù, dalla tratta transatlantica degli schiavi e dal colonialismo sono state non riconosciute e affrontate”. Le Nazioni Unite hanno condannato la schiavitù e il commercio transatlantico come crimini contro l’umanità in diverse occasioni e Gutierres ha più volte incitato ad agire per riparare questi delitti. Il Segretario Generale ha precisato come la decolonizzazione, pur avendo segnato la fine formale del dominio coloniale, non è stata sufficiente a liberare i paesi africani e le persone afrodiscendenti dai pregiudizi e dalle strutture razziste che hanno reso questi crimini possibili. Al momento della fondazione delle Nazioni Unite, diversi Paesi africani erano ancora sotto il controllo coloniale e per questo hanno ereditato un sistema internazionale pensato per gli scopi e con i principi di altre regioni del mondo, ancora una volta esclusi dai processi decisionali globali. Pertanto si fa sempre più urgente assegnare ad uno dei Paesi africani un seggio nel Consiglio di Sicurezza. Il tema delle riparazioni o compensazioni per le popolazioni e i Paesi vittime della schiavitù degli imperi coloniali europei non è nuovo, ma negli ultimi anni sta assumendo sempre più visibilità e forza. Già nel 2013, in occasione del World Social Forum di Tunisi, era emersa la proposta di istituire la Giornata Internazionale delle Riparazioni per la colonizzazione, accolta da diverse parti. La data prevista, il 12 ottobre, giorno in cui Cristoforo Colombo approdò nel continente americano, ha il valore simbolico di capovolgere la narrazione eurocentrica legata a quella ricorrenza, trasformandola in un’occasione per restituire la voce alle vittime del colonialismo, rendendo visibili le iniziative in favore della giustizia riparativa.   Africa Rivista
Vecchie e nuove schiavitù: il caso Rio de Janeiro
Riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa www.interris.it “Gli schiavi esistono ancora oggi- denuncia ActionAid-. Le loro vite, senza nessuno che li aiuti, sono condannate a svolgersi in condizioni disumane” “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”, eppure, nonostante quanto sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, la schiavitù è ben lontana dall’essere debellata. Ha solo cambiato pelle. Tanto che si parla di schiavitù moderna. ActionAid è un’organizzazione non governativa internazionale indipendente impegnata nella lotta alle cause della povertà. “La schiavitù non è qualcosa che riguarda solo il passato. È una pratica che ha radici profonde- riferiscono i volontari-. Esiste ancora oggi in molte forme diverse: traffico di esseri umani, sfruttamento del lavoro per debiti, sfruttamento dei bambini, sfruttamento sessuale e lavori domestici forzati sono solo alcune. Una più grave e disumana dell’altra”. Ci sono più persone in stato di schiavitù oggi che in qualsiasi altro momento della storia. Le persone vittime della schiavitù moderna, in tutto il mondo, sono più di 40 milioni di persone. Di questi, 25 milioni sono costretti a lavoro forzato e 15 milioni a matrimoni forzati. La schiavitù moderna riguarda tutti i Paesi del mondo. Prosegue ActionAid: “Ce lo dicono i numeri sull’incidenza della schiavitù moderna nelle grandi macroregioni in cui è diviso il mondo. 7,6‰ in Africa; 6,1‰ in Asia Meridionale e Asia Pacifica; 3,9‰ in Europa, Medio Oriente e Russia; 3,3‰ negli Stati della penisola araba; 1,9‰ in America settentrionale, centrale e meridionale“. La maggior parte dei moderni schiavi lavora in settori come agricoltura, pesca, artigianato, estrazione mineraria, servizi e lavori domestici: si tratta di circa 16 milioni di persone. Le vittime dei matrimoni precoci sono solo poco di meno: 15 milioni e 400mila, quasi tutte giovani donne, ragazze se non addirittura bambine. Le vittime dello sfruttamento sessuale sono quattro milioni e 800mila. Senza dimenticare i tanti, troppi bambini soldato. “La schiavitù moderna è un enorme business – evidenziano i volontari-. Secondo uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la schiavitù moderna genera profitti annuali per oltre 150 miliardi di dollari americani. Quanto i profitti combinati delle quattro aziende più redditizie del mondo“. I profitti derivanti dalla schiavitù moderna sono molto più alti nei Paesi industrializzati che in ogni altra parte del mondo. 51 miliardi e 800 milioni di dollari americani all’anno in Asia e nei Paesi del Pacifico, e quasi 47 miliardi di dollari americani all’anno nei cosiddetti Paesi industrializzati. Prosegue ActionAid: “La schiavitù moderna ha delle conseguenze per tutti. Non solo per coloro che ne sono direttamente coinvolti. Le conseguenze dello sfruttamento del lavoro comprendono abbassamento dei salari, riduzione del gettito fiscale, impiego di risorse economiche per sostenere le ingenti spese legali per perseguire le moderne forme di schiavitù“. Una delle moderne forme di schiavitù è il lavoro minorile, come abbiamo visto. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, i bambini e i giovani che sono vittime del lavoro minorile sono 152 milioni. Circa la metà di loro è impegnata in lavori pericolosi, che mettono seriamente a repentaglio la loro salute. Un discorso a parte è quello fatto da ActionAid per i bambini che vivono nelle zone di guerra. Secondo i dati dell’Unicef, sono circa 250mila i bambini attivamente coinvolti nei conflitti che dilaniano 42 Paesi in tutto il mondo. Questi bambini operano come soldati, facchini, spie, messaggeri. Rio de Janeiro Scoperto casualmente nel 1996, un sito storico nel centro di Rio de Janeiro si è rivelato essere il Cimitero dei Giovani Neri, che servì tra il 1774 e il 1830 come luogo di sepoltura per gli schiavi che venivano portati in Brasile per lavorare, e dove si stima siano state sepolte 40mila persone. In tutto furono oltre 4milioni, secondo i calcoli dell’Istituto brasiliano di Geografia e statistica, gli africani che furono portati in catene nel Paese sudamericano tra il Sedicesimo e la metà del Diciannovesimo secolo, pari a oltre un terzo della tratta mondiale degli schiavi: il numero più alto in assoluto. A tenere accesa la memoria storica è ora anche una trilogia pubblicata dall’Istituto Pretos Novos, a cura del ricercatore Joao Carlos Nara Jr, per volontà di Merced Guimares, la proprietaria della casa in cui affiorarono i resti durante i lavori di ristrutturazione e ora trasformata in museo. I tre volumi, “A morte no Valongo”, “O Cais e o Cemiterio”, “Silencios que gritam”, sono testimonianze forti della schiavitù africana a Rio de Janeiro, dove nel Cais del Valongo, nella zona portuale, venivano sbarcati adolescenti tra i 15 ed i 20 anni in arrivo soprattutto da Angola e Congo e altri Paesi dell’Africa centro-occidentale. La parrocchia responsabile per quella zona era la Chiesa di Santa Rita, gioiello dell’architettura Rococò in America Latina, che non avendo spazio disponibile dove interrare le spoglie, affittò un terreno, dove gli schiavi venivano sepolti a strati, tanto che molte ossa sono risultate essere coperte solo da poche manciate di terra, come riferì nel 1814 un naturalista tedesco, Georg Wilhelm Freyreiss, che nel suo resoconto parla di “inumazioni a fior di terra, insufficienti a garantire l’igiene dei luoghi”. In un lavoro di ricostruzione erculeo, Nara ha digitalizzato i due libri della chiesa, conservati dalla curia di Rio de Janeiro, in cui erano riportate le informazioni dei morti (1812-1818 e 1824-1830), da cui oltre alle età, al sesso e alla provenienza, si possono ricavare anche le cause della morte, nella maggior parte dei casi per malattia. Resti senza nome, identificati nei libri solo dal marchio a fuoco sulla loro pelle. Redazione Italia