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Le crepe nella NATO: un’analisi
La mia analisi sulle prime crepe nella NATO è stata pubblicata con un leggero ritardo, sufficiente per diventare obsoleta. Avevo segnalato i due referendum proposti in Slovenia – uno sulla spesa militare e l’altro sull’adesione all’Alleanza – quando la situazione è improvvisamente cambiata. Con sorpresa di chi non conosce bene […] L'articolo Le crepe nella NATO: un’analisi su Contropiano.
Per il 3,5% in spesa militare pura l’Italia dovrà sborsare 700 miliardi
L’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane fa chiarezza sull’entità dello sforzo finanziario richiesto all’Italia per raggiungere l’obiettivo Nato del 3,5% in spese militari ‘pure’, sgomberando il campo da equivoci più o meno voluti sul punto di partenza attuale: l’1,57% del Pil e non il 2% ‘olistico’ da cui partire per raggiungere l’analogo obiettivo del 5%. Quindi ci vogliono quasi due punti di Pil aggiuntivi per arrivare al target del 3,5%. In valore assoluto significa che l’Italia, per portare in dieci anni la spesa militare annua dagli attuali 35 miliardi agli oltre 100 miliardi, cioè per triplicarla, dovrà reperire ogni anno in manovra nuove risorse finanziarie nell’ordine dei 6-7 miliardi, ogni anno per dieci anni. Questo si traduce in un impegno cumulativo decennale di spesa di quasi 700 miliardi di euro, circa 220 miliardi in più rispetto a quello che si spenderebbe in dieci anni se invece del 3,5% si puntasse a raggiungere il 2% in spese militari ‘core’, con aumenti di spesa annuali medi nell’ordine dei 2 miliardi. Milex spiega inoltre che la flessibilità concessa ai singoli alleati Nato sul percorso finanziario da seguire per arrivare all’obiettivo finale, con l’assenza di target di spesa annuali da rispettare ma che comunque deve essere “incrementale” e “credibile”, lascia al governo la possibilità di rinviare il grosso degli aumenti di spesa, ma questo non cambia la sostanza di un impegno finanziario cumulativo decennale che supererebbe comunque i 600 miliardi, 140 miliardi in più rispetto allo “scenario 2%”. Rispetto all’altro obiettivo Nato dell’1,5%, infine, Milex sottolinea che esso comprende anche spese per “promuovere l’innovazione e rafforzare la nostra base industriale della difesa”, dicitura che potrebbe facilmente ricomprendere un canale aggiuntivo di finanziamento al riarmo. Report e tabella esplicativa: https://www.milex.org/2025/06/25/ decisioni-nato-per-il-35-in-spesa-militare-pura-litalia- dovra-sborsare-700-miliardi MIL€X - Osservatorio sulle spese militari italiane
Pallone blindato: il riarmo globale e il calcio italiano
Quando siamo allo stadio o, sempre più spesso, davanti alla televisione per tifare la nostra squadra del cuore, vediamo undici uomini che ci fanno emozionare con gesti tecnici e atletici sempre più impressionanti; veniamo trascinati dalla dinamica della partita, dalle scelte tattiche dell’allenatore e dalle giocate dell’ultimo “colpo di mercato”. Quello che non vediamo però è tutto quello che si trova dietro, la base di un’architettura complessa che sostiene, seppur in modo fragile, il calcio come lo intendiamo oggi. Dietro i gol e le coreografie, infatti, si muove una rete di capitali globali, di interessi finanziari e industriali che non hanno nulla a che fare con la passione per il calcio. In particolare, nel cuore pulsante del calcio europeo e italiano si stanno inserendo giganti che operano su un altro fronte: quello della produzione e gestione della guerra. In un mondo attraversato da una nuova corsa agli armamenti, il calcio si è trasformato in un asset strategico: non solo una piattaforma d’investimento, ma anche uno strumento di legittimazione sociale, di propaganda e persino di copertura mediatica. Nel 2025, la spesa militare globale ha superato i 2.718 miliardi di dollari e non è per nulla una coincidenza se, nello stesso momento storico, il controllo dei club calcistici è passato sempre più nelle mani di fondi finanziari legati all’industria bellica o di Stati che traggono potere e ricchezza proprio dai conflitti in corso. Grandi fondi di investimento, colossi della difesa, fondi sovrani del Golfo: tutti stanno trovando nel calcio uno spazio in cui investire, legittimarsi e infiltrarsi.  Il calcio nella nuova fase storica del riarmo Dal 2022 in poi, il mondo ha assistito a un’impennata senza precedenti nella spesa militare globale. Con la crisi dell’industria europea e nordamericana e il crescente debito pubblico, l’industria bellica e quella delle tecnologie dual-use hanno velocemente esercitato una fascinazione nei confronti dei leader mondiali, i quali, supportati dal ritorno di un’ideologia suprematista e neocoloniale, hanno spinto per regalare miliardi alle aziende militari. In questo contesto, la grande finanza ha trovato nel comparto bellico una nuova frontiera di profitto e i grandi fondi globali — da BlackRock a Vanguard, da Carlyle ad Apollo — non hanno esitato a posizionarsi nel cuore dell’industria della difesa. Ma la stessa finanza non investe solo in aerei da guerra o missili ipersonici, anzi: investe dove il capitale circola più velocemente, dove l’opinione pubblica è più permeabile, dove la legittimazione sociale è più immediata. Investe nel calcio. Perché i fondi della guerra comprano squadre di calcio Il calcio è l’asset perfetto nel capitalismo del XXI secolo: è liquido, perché produce utili da diritti TV, sponsorizzazioni, marketing e plusvalenze; è popolare, perché penetra ogni ceto sociale, territorio, identità; è politico, perché veicola immaginari, costruisce consenso, produce simbologie e linguaggi. Per questo motivo, l’intreccio tra fondi finanziari e club calcistici non è casuale, ma funzionale: chi arma governi genocidari, supporta l’occupazione di territori o sfrutta risorse comuni, ha bisogno anche di ripulire la propria immagine; ha bisogno di distrazione, di consenso, di strumenti per presidiare culturalmente lo spazio pubblico. Il calcio, oggi, è parte della catena del valore dell’economia di guerra. Le tre maggiori società di investimento del mondo, i cosiddetti “Big Three”, ovvero BlackRock, Vanguard, State Street, amministrano complessivamente oltre 20.000 miliardi di dollari e possiedono quote rilevanti in tutti i principali colossi dell’industria bellica: Lockheed Martin, Raytheon, Leonardo, Northrop Grumman, Boeing; queste società sono però anche dentro ai fondi che possiedono club calcistici e accanto a loro si muovono i fondi sovrani della penisola arabica: Mubadala (Abu Dhabi), PIF (Arabia Saudita), QIA (Qatar). Sia le società di investimento che i fondi sovrani, data la quantità infinita di denaro che movimentano, sono attori politici prima ancora che finanziari, e utilizzano il calcio per quello che è da quasi sempre stato: un veicolo di legittimazione, di influenza, di soft power. Nella maggior parte dei casi questi fondi sono direttamente coinvolti nel riarmo dei propri Stati o degli Stati di riferimento e nei conflitti regionali e quando investono nel pallone, lo fanno per rendere accettabile, desiderabile, perfino vincente, un sistema economico e politico basato sulla guerra, l’imperialismo e lo sfruttamento del lavoro. Club italiani, capitali globali Nel 2024 l’Internazionale Milano, stremata finanziariamente, passa al fondo statunitense Oaktree Capital Management, che aveva già prestato alla precedente proprietà 275 milioni durante la pandemia tramite l’emissione di bond. Quando i debiti lievitano e diventano impossibili da ripagare, Oaktree, di proprietà dal colosso canadese Brookfield Asset Management, a sua volta partecipato dalle Big Three in diversa misura, ne entra in possesso. Di pochi giorni fa, inoltre, è la notizia che il fondo Oaktree, per rifinanziare il debito di 400 milioni del club nerazzurro, si è affidata alla Bank of America, detenuta al 21,3% dalle Big Three. La storia recente del Milan riflette l’intreccio tra finanza speculativa occidentale e capitale sovrano del Golfo. Dopo aver risanato il club e centrato importanti risultati sportivi, il fondo statunitense Elliott, assistito da Bank of America Merrill Lynch, avvia nel 2022 una trattativa esclusiva per la cessione del Milan al fondo bahreinita Investcorp, affiancato da Goldman Sachs. L’operazione, poi fallita a favore di RedBird Capital, avrebbe potuto vedere Elliott restare inizialmente con una quota di minoranza; il vero nodo geopolitico, in questa operazione, è rappresentato dalla presenza in Investcorp del fondo sovrano di Abu Dhabi, Mubadala, che ne detiene il 20%. Mubadala, che gestisce oltre 240 miliardi di dollari, ha partecipazioni globali in energia, difesa, semiconduttori, ed è legato a stretto giro al Manchester City attraverso figure di vertice come Mansour bin Zayed e Khaldoon Al Mubarak. Il fondo emiratino ha anche intrecci con l’Italia e con industrie italiane attive nel settore della difesa, con investimenti passati in Ferrari, UniCredit e Piaggio Aero, Ferretti, promossi da Alberto Galassi, oggi nel board del Manchester City. Va, infine, ricordato che l’effettivo passaggio di proprietà è avvenuto verso RedBird Capital Partners, anch’esso legato a fondi sovrani attraverso RedBird IMI, joint venture con il fondo emiratino di Abu Dhabi. A segnare la connessione tra i proprietari dei club delle due squadre di Milano e l’industria della difesa, nel 2023, le società Brookfield Infrastructure Partners L.P., proprietaria di Oaktree e, dunque, dell’Inter, annuncia di aver acquisito, insieme ad un partner, la società Compass Datacenters, un’azienda che costruisce e gestisce data center (centri di elaborazione dati), con il sostegno finanziario di Redbird, proprietaria appunto del Milan, e il gruppo Azrieli, un conglomerato israeliano con forti interessi nel settore immobiliare e della tecnologia dual-use. Lasciando Milano sbarchiamo a Torino, per osservare la Juventus, squadra che incarna perfettamente l’intreccio tra calcio e industria bellica: la squadra è sotto il controllo dell’impero finanziario della famiglia Agnelli-Elkann attraverso Exor N. V., che domina la filiera militare in Italia tramite Stellantis e IVECO Defence Vehicles, produttrice di mezzi blindati per le forze NATO e ora nel mirino di Leonardo-Rheinmetall. Nel 2022, anche la Roma si consegna ai fondi. Per ottenere liquidità, la proprietà Friedkin emette un bond da 175 milioni di euro, sottoscritto in larga parte da Apollo Global Management tramite la sua controllata Athene; Apollo, tra le prime dieci entità finanziarie USA, è uno dei principali gestori di fondi legati a Lockheed Martin, primo produttore mondiale di armi convenzionali. A Palermo, il passaggio sotto il controllo del City Football Group, braccio calcistico del fondo sovrano emiratino, conferma la strategia. Mentre Abu Dhabi è coinvolta in operazioni militari in Yemen e sostiene una rete di influenza nell’intero Medio Oriente, utilizza i club di calcio per costruirsi una reputazione internazionale “moderna e progressista”. È la versione sportiva del greenwashing: qui, è sportwashing. Neppure l’Atalanta è rimasta immune. Bain Capital, fondo guidato da Stephen Pagliuca, rileva il 55% del club bergamasco nel 2022. Per l’operazione vengono usate holding in Lussemburgo e nel Delaware e si emette un bond da 152,5 milioni, sottoscritto dai fondi Carlyle e Ares Management. Carlyle, in particolare, è storicamente tra i maggiori finanziatori del Pentagono e dei contratti di difesa americani. Una volta di più, i Big Three compaiono come investitori istituzionali. E infine Napoli. Il volto più noto è quello di MSC, sponsor principale, presente sulla maglia che ha accompagnato lo scudetto. MSC, colosso globale della logistica e del trasporto container, è guidato dalla famiglia Aponte, una delle più potenti del Mediterraneo. Proprio nel 2023, Aponte ha stretto un accordo con BlackRock per la gestione strategica dei porti e del Canale di Panama, uno dei nodi più sensibili della circolazione globale di merci, armi e approvvigionamenti militari. Anche qui, il legame è più che simbolico: è strutturale. Il Napoli, nel nome della “napoletanità”, diventa vetrina di un potere logistico e finanziario globale che dialoga direttamente con la nuova geopolitica del commercio e della guerra. In ogni città, sotto ogni curva, si ripete lo stesso schema: il calcio come accesso al consenso, come strumento di investimento, come copertura per i flussi del potere. Che siano droni prodotti da EDGE, radar sviluppati da Leonardo o porta-container che attraversano il Canale di Panama, i capitali che finanziano la guerra sono già seduti nelle tribune vip che sempre più espropriano spazio ai tifosi negli stadi. Sportwashing e dominio I casi italiani non sono eccezioni, ma specchi. Il calcio oggi è un dispositivo ideologico e discorsivo: serve a deviare l’attenzione, a costruire consenso, a ripulire l’immagine di soggetti che altrimenti sarebbero esposti a critiche durissime. Il legame tra calcio e guerra passa per i mercati finanziari, ma produce effetti culturali: l’accettazione sociale del potere, la normalizzazione del controllo, la spettacolarizzazione della violenza. Per vivere un calcio diverso In un contesto globale segnato da molteplici ingerenze politico-economiche, l’impegno delle tifoserie in tutto il mondo e in Italia rappresenta un esempio di speranza e responsabilità. La campagna “Show Israel the red card”, promossa dal gruppo ultras del Celtic Glasgow Green Brigade, e promosso in Italia da Calcio e Rivoluzione, dimostra come il calcio possa essere un potente strumento di solidarietà e giustizia, di aggregazione e di mobilitazione, capace di sfidare le narrazioni unilaterali e le complicità istituzionali, promuovendo valori di uguaglianza e giustizia. La mobilitazione globale, che coinvolge centinaia di tifoserie in decine di Paesi, offre un modello positivo di come si possa costruire una presenza nel calcio diversa, lontana da logiche di profitto e potere che spesso lo collegano a interessi mortali, inclusa l’industria bellica. *L’articolo ha preso le mosse dalle riflessioni contenute nel libro di Luca Pisapia, Fare gol non serve a niente. Il pallone nella rete della finanza, Add editore: Torino 2024, in cui si analizza la crescente finanziarizzazione del mondo del calcio europeo. Emiliano Palpacelli