Herman Koch / Continuare a vivere e a scrivere, scrivere per vivere
Ci sono alcune parole – prostata, tumore o mascherina, per esempio – che Herman
Koch, scrittore e attore olandese classe 1953, fa fatica a pronunciare, le trova
brutte. Dell’ultima, purtroppo, abbiamo fatto tutti largo uso quando, nel 2020,
il nostro mondo è stato travolto e sconvolto dalla pandemia di Covid-19, mentre
le altre due riguardano la sua storia personale, dal momento che nel febbraio
del 2020 il suo medico curante lo informa che, dagli esami effettuati, risulta
la presenza di un cancro alla prostata, con metastasi. “Ne scriverai?” gli
chiede il medico dopo aver commentato le analisi. “Non credo”, risponde lo
scrittore.
Invece, dopo qualche anno – nel 2024 in Olanda, l’anno dopo in Italia per Neri
Pozza – arriva questa storia, tra il memoir e l’autobiografia. In un mondo in
cui tutto viene spettacolarizzato, dove anche la malattia viene vissuta ed
esposta sui social, dove chi indossa l’abito della vittima riceve più
attenzioni, dove la sofferenza esce dalla dimensione privata per essere data in
pasto al pubblico spesso anche condita con dettagli sgradevoli, il grande merito
di Koch è quello di raccontare la sua malattia spogliandola dalla veste di
protagonista e, anche se ogni tanto versa qualche lacrima, non c’è alcuna
pornografia del dolore, nessuna autocommiserazione. «Avrei fatto una cosa
diversa. Per il momento non ne avrei ancora parlato con nessuno. L’avrei tenuta
per me così avrebbe avuto maggiore probabilità di successo. La vita andava
semplicemente avanti».
Dopo aver raccontato come la diagnosi gli abbia stravolto la vita, coinvolgendo
anche la moglie Amalia e il figlio Pablo, lo sguardo dello scrittore, invece di
rivolgersi al futuro che per lui ha una data di scadenza – dai tre ai quindici
anni di vita –, cerca comprensibilmente di dare un senso al tempo presente ma,
soprattutto, si rivolge al passato, come se la malattia gli chiedesse un
resoconto di come ha utilizzato gli anni, ripercorrendo alcuni degli eventi
chiave della sua esistenza senza cadere nella nostalgia, ma regalandoci anche
alcuni momenti di leggerezza. Ogni capitolo è un piccolo racconto e, se la
costruzione del libro può apparire un po’ disordinata, con alcuni frammenti di
storie non sempre ben collegati tra loro, è lo stesso scrittore a confessarci
che nulla in lui è ordinato per cui lo si perdona facilmente: «A un tratto la
scrivania è vuota, ordinata, il caos è stato eliminato, ma la stanza non ha più
un’anima».
Leggiamo della sua giovinezza trascorsa ad Amsterdam, del difficile rapporto tra
i suoi genitori, dell’intenso legame con la madre con cui spesso la domenica
mattina, quando lui era un ragazzino e suo padre trascorreva la notte fuori con
l’amante, condivideva la colazione, infilandosi nel suo letto, ascoltando musica
o notizie alla radio e di come, pur avendo parteggiato per lei all’epoca del
tradimento, dalla morte di entrambi i genitori ha notato uno spostamento
graduale della sua comprensione, da esclusiva nei confronti della madre, a
parziale nei confronti del comportamento del padre. Racconta del suo desiderio
di fare in qualche modo la differenza attraverso la scrittura, stimolato anche
da un insegnante che apprezzava i suoi temi e racconti, riconoscendogli un
talento che lo avrebbe potuto trasformare in uno scrittore, appunto. Condivide
alcune questioni attuali: è contrario ai programmi scolastici che obbligano in
qualche modo i giovani a leggere alcuni libri (e non altri) e, nonostante sia un
promotore della lettura che considera un’attività piacevole e un efficace
rimedio contro la grigia noia quotidiana, riconosce anche il piacere di non
leggere, poiché aprendo un libro ci arrivano i pensieri di un’altra persona
mentre, a volte, è necessario soffermarsi sulle proprie idee e approfondirle.
Trova anche faticosi i social, che costringono a pubblicare un commento su ogni
tipo di evento, anche il più drammatico, in maniera sagace, poiché la tua
opinione deve essere “migliore” di quella che hanno i tuoi follower.
In questo libro c’è un momento che ho particolarmente apprezzato: oltre a
riconoscere il colpo di fortuna che ha permesso all’autore di assumere un
farmaco sperimentale che senza il coronavirus non sarebbe stato coperto
dall’assicurazione sanitaria, si scusa con gli eventuali lettori afflitti, come
lui, da una malattia che riduce drasticamente l’aspettativa di vita, ammettendo
di essere perfettamente consapevole del fatto che il suo è un punto di vista
privilegiato, da ricco: quando Koch comunica alla moglie l’infausta diagnosi, si
chiedono se concludere l’acquisto di un appartamento a Barcellona mentre,
magari, altre famiglie nella loro stessa situazione, si sono poste il problema
di come pagare le rate del frigorifero.
Koch è uno che ama raccontare storie, a suo modo un ribelle non violento che si
candida alle elezioni scolastiche con la promessa di non organizzare nulla, uno
che pensa che se il mondo dovesse finire sarebbe soprattutto per questa
assillante idea che non bisogna mai sprecare neanche un momento, uno che ritiene
il non fare nulla come la via più breve per raggiungere la felicità, uno che
ammette cha la pigrizia e qualche bicchiere in più l’abbiano influenzato
positivamente, uno che cerca sempre di contrapporre alle brutte notizie un
progetto per andare avanti. Herman Koch con Ne scriverai? non ci consegna un
addio, ma una filosofia di vita e preziosi consigli sulla gestione del tempo:
«Il godimento sta proprio nel passare del tempo. Nell’assenza di tempo».
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