Federico Pace / Quando si guarda un volto
L’ultimo libro di Federico Pace interseca le biografie di tre uomini che sono
stati tagliati, in senso più materiale e fisico che metaforico, dalla Seconda
guerra mondiale. Il padre del narratore, da bambino, quando aveva 5 anni, nel
luglio del 1945, fu colpito dalle schegge di una mina. Il suo viso fu menomato e
privato di buona parte della vista. Poco più di un anno dopo il celebre
fotografo svizzero Werner Bischof, rimasto nella Svizzera neutrale durante gli
anni della guerra, parte in bici per un lungo viaggio attraverso l’Europa a
documentare l’umanità stravolta dell’immediato dopoguerra. Nel novembre del 1946
arriva in Olanda, e tra i ritratti scattati nella cittadina di Roermond c’è
quello di un ragazzino con il volto martoriato da tante piccole cicatrici: un
volto familiare, con un occhio fisso e immobile.
L’intreccio virtuale e letterario delle tre vite è una sorta di terapia del
lutto che il narratore intraprende per assimilare la recente perdita del padre e
nello stesso tempo approfondire la conoscenza del genitore, seguendo trame solo
in apparenza incoerenti. Tutto comincia quando Pace inizia a interessarsi alla
scalata del Klein Fiescherhorn, un picco delle Alpi Bernesi, che Bischof
intraprende nell’estate del 1940, mentre era nell’esercito svizzero, di guardia
in un villaggio di confine per monitorare eventuali e improbabili invasioni
nemiche. Tra un turno e l’altro, insieme a un compagno, una notte compie la
salita alla vetta, fotografando i paesaggi sublimi e non toccati dalla
devastazione in corso in Europa. È una vicenda laterale alla guerra e
alternativa per un uomo che in quel momento poteva permettersela.
Della guerra Bischof prende consapevolezza quando finisce. Fino a quel momento
era stato un fotografo soprattutto naturalista e di moda. Attraversando
Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda sembra assumersi il compito di
mostrare le conseguenze del conflitto. Il ritratto del ragazzino di Roermond,
scattato a colori in un’epoca dove la produzione fotografica era prevalentemente
in bianco e nero, ne è una delle testimonianze più efficaci. Il narratore, alla
ricerca di quel ragazzo olandese così simile al padre, contatta il figlio di
Bischof (il fotografo è morto non ancora quarantenne nel 1954) alla ricerca di
un nome e di una biografia: è un sosia, un doppio, che forse gli può permettere
di conoscere meglio la vita di ombre e di contorni vaghi vissuta dal padre.
Di quell’evento cardine – lo scoppio della mina del 1945 – il padre non ha mai
parlato con il figlio. Dopo mesi di degenza al Policlinico Umberto I di Roma, è
tornato a casa, ha poi frequentato la scuola in un istituto per bambini ciechi,
si è laureato in giurisprudenza, si è sposato, si è sottoposto in età adulta a
un intervento per cercare di recuperare la vista, ha vissuto una vita che la si
direbbe completa, come quella di tutti. Colpisce che il figlio non abbia mai
neanche saputo esattamente che cosa il padre vedesse e cosa no. «Non ho mai
saputo se mio padre, in quella sua zona di confine tra la vista e la cecità,
negli anni della sua vita in cui ero ancora un bambino, percepisse ancora, e con
quale grado di precisione, i colori. Non ho mai osato chiedergli cosa
visualizzasse nella sua mente quando pensava al giallo della mimosa o al rosso
delle tegole».
Pochissimo viene raccontato del rapporto in vita tra padre e figlio. La
scrittura sgorga fuori tutta da quello spazio vuoto e bianco che si è creato
postmortem. Non si tratta di un romanzo-memoir ma del racconto dell’identità di
un padre ricostruita nel controluce delle esistenze di altre due persone che lui
non ha mai incontrato (Bischof e il ragazzo di Roermond, che torna ad avere un
nome insieme a un curriculum vitae e mortis).
Sono tantissime le cose di cui non parliamo con le persone a noi più vicine
quando queste sono ancora in vita, le curiosità che non osiamo soddisfare e i
dettagli che non notiamo. Gli eventi che hanno sconvolto le loro vite ci
appaiono di poco conto, quasi trascurabili, li accettiamo con disinvoltura –
pensando che così debba essere anche per loro, tanto più se sono passati anni –
e ci accontentiamo di conoscerli attraverso narrazioni di seconda mano. Quegli
eventi ci appaiono smisuratamente grandi e gravi soltanto quando ci ritroviamo
nel volume vuoto del lutto. Quando quelle persone non sono più e ciascuno a modo
proprio cerca di colmare la loro assenza. In questo caso, la ricerca a ritroso
di una memoria è stata innescata dalla forza di un volto: un viso squadrato
ricoperto di minuscole cicatrici, il labbro rosso, l’espressione né triste né
felice. Dall’atto del guardare: del fotografo che ha scattato la foto, del
narratore che ha quasi creduto di vedere ritratto il padre, di chi da un certo
giorno in avanti non ha visto più.
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