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Il “Rapporto Albanese”: un documento epocale
Sul report presentato dalla Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, la giurista italiana Francesca Albanese, si è basato lo svolgimento dell’incontro sulla Situazione dei diritti umani in Palestina e negli altri territori arabi occupati in programma il 3 luglio alla 59ª Sessione del Consiglio per i Diritti Umani riunito a Ginevra dal 16 giugno fino al 9 luglio. La relazione è intitolata DALL’ECONOMIA DELL’ OCCUPAZIONE ALL’ECONOMIA DEL GENOCIDIO e nel sommario che ne sintetizza i contenuti è spiegato: > Questo rapporto indaga i meccanismi aziendali che sostengono il progetto > coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei > territori occupati. > > Mentre i leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe > entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione > illegale, apartheid e ora genocidio. > > La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; > porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, > compresi i suoi dirigenti. > > Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno > dei quali richiede esame e accertamento delle responsabilità, in particolare > in questo caso, in cui sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa > di un popolo. > > Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il > sistema globale che lo ha permesso. Il 16 giugno, nel discorso di apertura della 59ª Sessione del Consiglio per i Diritti Umani, l’Alto Commissario Volker Türk aveva esplicitamente denunciato che il governo e l’esercito di Israele infieriscono da molti anni contro i civili palestinesi che abitano nei territori in Cisgiordania, in Libano e a Gaza, dove inoltre la popolazione assediata dal 2023 da mesi viene anche aggredita usando il cibo come un’arma letale [Le vittime delle ingiustizie non sono ‘danni collaterali / PRESSENZA – 20/6/2025]. Basate sui dati raccolti attingendo da “un’ampia letteratura” e dagli archivi dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), le analisi del report elaborato a cura di Francesca Albanese evidenziano molteplici correlazioni tra i crimini contro l’umanità compiuti nei territori palestinesi con le attività produttive e commerciali realizzate da imprese israeliane, società multinazionali e aziende di varie nazionalità operanti nell’industria bellica, inoltre nell’agricoltura, nel turismo e nella finanza e con le attività di ricerca scientifica e con i programmi accademici. Facendo riferimento anche ad alcuni precedenti storici, in particolare * i processi sull’Olocausto, che “hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali” * le inchieste sulla complicità delle aziende nell’apartheid in Sud Africa, in cui “la Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana ha contribuito a definire la responsabilità delle aziende per le violazioni dei diritti umani” il rapporto rileva che “il caso della Palestina mette ulteriormente alla prova gli standard internazionali”: > Se fosse stata effettuata un’adeguata due diligence in materia di diritti > umani, le entità aziendali si sarebbero da tempo disimpegnate dall’occupazione > israeliana. Invece, dopo l’ottobre 2023, gli attori aziendali hanno > contribuito all’accelerazione del processo di sfollamento-sostituzione durante > la campagna militare che ha polverizzato Gaza e sfollato il maggior numero di > palestinesi in Cisgiordania dal 1967. Tra le più rinomate aziende espressamente citate nel rapporto spiccano Alphabet (a cui fa capo Google), Amazon, HP (Hewlett Packard), IBM, Microsoft e Palantir Technology. Tra le imprese che fabbricano armi e attrezzature belliche il rapporto menziona due società israeliane,”la Elbit Systems, fondata come partnership pubblico-privata e successivamente privatizzata, e la statale Israel Aerospace Industries (IAI)”, di cui evidenzia che sono “tra i primi 50 produttori di armi a livello globale”, recentemente anche protagoniste dello scandalo al Salon International de l’Aéronautique et de l’Espace (International Paris Air Show) / PRESSENZA – 17/06/25. Inoltre, il report annota il ruolo della “statunitense Lockheed Martin, insieme ad almeno altre 1600 aziende, tra cui il produttore italiano Leonardo S.p.A., e otto Stati” ricordando che i suoi velivoli F-35 e F-16 sono stati “fondamentali per dotare Israele di una potenza aerea senza precedenti, in grado di sganciare circa 85.000 tonnellate di bombe, uccidere e ferire più di 179.411 palestinesi e distruggere Gaza”. In merito alla fornitura all’esercito israeliano di armi e delle loro componenti e munizioni e di attrezzature e accessori con cui viene perpretata la strage di civili palestinesi, il rapporto pone in risalto il ruolo, non secondario, di “una rete di intermediari, tra cui studi legali, società di revisione e consulenza, nonché trafficanti, agenti e broker” e delle compagnie di trasporto. Focalizzando l’attenzione al fatto che “le attività aziendali in un’area interessata da un conflitto non possono mai essere neutrali” e alla questione che “anche se un’entità aziendale non prende posizione in un conflitto, inevitabilmente le sue attività influenzeranno le dinamiche del conflitto”, il rapporto sottolinea: > La condotta delle società e dei loro dirigenti può comportare una > responsabilità penale diretta, comunque costituisce una responsabilità di > complicità o di favoreggiamento. Il report menziona l’italiana Leonardo SpA anche nel riferire in merito all’impiego delle tecnologie civili come armi, ovvero “come strumenti a duplice uso nell’occupazione coloniale”: > In collaborazione con aziende come IAI, Elbit Systems e RADA Electronic > Industries, di proprietà di Leonardo, Israele ha trasformato il bulldozer D9 > di Caterpillar in un’arma automatizzata e comandata a distanza, fondamentale > per l’esercito israeliano dal 2000, impiegata in quasi tutte le attività > militari condotte per sgomberare le linee di incursione, ‘neutralizzare’ il > territorio e uccidere i palestinesi. Il rapporto evidenzia che la costruzione di strade e infrastrutture è stata determinante per “l’espansione delle colonie e per collegarle a Israele, escludendo e segregando i palestinesi” e funzionale a imporre il “controllo sistematico sulle risorse naturali“, in particolare l’acqua. Rilevando che da molti anni in Israele prosperano l’agricoltura, le cui produzioni – molte commercializzate all’estero e nelle catene della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) – incrementano parallelamente “all’accaparramento delle terre” dei palestinesi, e il turismo, un ambito in cui gli attori locali e le agenzie di intermediazione “traggono profitto dall’occupazione”, che a loro volta incentivano sia direttamente che indirettamente, il rapporto evidenzia: > i quadri di riferimento ambientali, sociali e di governance (ESG) non possono > continuare a trascurare il diritto all’autodeterminazione, che è saldamente > radicato nella legislazione sui diritti umani, riconosciuto come diritto > fondamentale di tutti i popoli e prerequisito di tutti gli altri diritti. In questa prospettiva, il rapporto focalizza l’attenzione sulle collaborazioni tra centri di ricerca e accademici israeliani con le università di altre nazioni, in particolare le cooperazioni con il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) e gli scambi svolti nell’ambito del programma Horizon Europe della Commissione europea, di cui rileva che “Dal 2014, la CE ha concesso oltre 2,12 miliardi di euro (2,4 miliardi di dollari) a entità israeliane, tra cui il Ministero della Difesa, mentre le istituzioni accademiche europee beneficiano e rafforzano questo intreccio”. L’indagine si conclude osservando: > Le atrocità di cui siamo testimoni a livello globale richiedono un’urgente > assunzione di responsabilità e giustizia, che richiede azioni diplomatiche, > economiche e legali contro coloro che hanno mantenuto e tratto profitto da > un’economia di occupazione divenuta genocida. COMMENTI E REAZIONI Osservando che il report “richiama esplicitamente la responsabilità penale internazionale non solo degli stati, anche delle imprese e dei loro dirigenti” il Centro di Ateneo per i Diritti Umani Antonio Papisca ne pone in risalto i contenuti in relazione al diritto internazionale, che “impone obblighi chiari in materia di prevenzione, astensione e disimpegno da attività che alimentano crimini gravi, compreso il genocidio”. Inoltre, il centro accademico italiano rileva che il report rivolge un’attenzione particolare alle università, “considerate parte integrante dell’apparato di oppressione” per il loro coinvolgimento, diretto o indiretto, “nella perpetuazione del regime di apartheid e nella produzione di conoscenze, tecnologie e narrazioni funzionali all’occupazione” [Il nuovo rapporto di Francesca Albanese denuncia la complicità aziendale e accademica nel sistema israeliano nei Territori Palestinesi Occupati – 02/07/2025]. Marco Mascia e Flavio Lotti, rispettivamente presidenti del Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” e della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace, sono anche intervenuti in difesa di Francesca Albanese dagli attacchi a lei personalmente rivolti [SOLIDARIETÀ A FRANCESCA ALBANESE / PER LA PACE – 3/7/2025]. La missione USA all’ONU infatti ha chiesto la sua rimozione dall’incarico per le Nazioni Unite perché considera le sue attività e dichiarazioni un “virulento antisemitismo”, reputa false e offensive le sue dichiarazioni sul genocidio e sull’apartheid della popolazione palestinese e ritiene infondate le sue indagini sulla complicità di alcune aziende americane nelle violazioni dei diritti umani [U.S. Mission to the United Nations Statement Opposing Francesca Albanese’s Mandate as UN Special Rapporteur – 1/7/25]. Anche UN Watch (un’associazione affiliata dal 1993 al 2000 al World Jewish Congress e dal 2001 al 2013 all’American Jewish Committee) ha definito Francesca Albanese un’antisemita e giudicato il suo report “unilaterale” perché “attribuisce il 100% della colpa a Israele per la negazione dell’autodeterminazione ai palestinesi” e, accusando il governo israeliano di “una lunga lista di crimini e violazioni dei diritti umani, dalla discriminazione alla distruzione indiscriminata, dagli sfollamenti forzati e dai saccheggi alle uccisioni extragiudiziali e alla fame“, anziché solo sulle imprese che sostengono l’occupazione “prende di mira le aziende che intrattengono rapporti d’affari con Israele” [Legal Analysis of Francesca Albanese’s June 2025 Report to Human Rights Council / UN WATCH – 01/07/2025]. Il quotidiano inglese The Guardian invece ha riferito che “Il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati ha chiesto sanzioni e un embargo sulle armi contro Israele e che le multinazionali siano ritenute responsabili per aver tratto profitto dal genocidio a Gaza” e le dichiarazioni dei portavoce di Palantir Technolgies, “no comment“, e Lockheed Martin, “Le vendite di materiale militare all’estero sono transazioni tra governi. Le discussioni su questi affari dovrebbero essere affrontate con il governo degli Stati Uniti”. Inoltre, specificando che “i relatori speciali sono esperti indipendenti in materia di diritti umani nominati per fornire consulenza o riferire su situazioni specifiche” e di lei ricordando che è “un giurista italiano e relatore speciale per i territori palestinesi occupati dal 2022” e che “ha definito l’offensiva israeliana a Gaza come un genocidio nel gennaio 2024”, The Guardian riporta una dichiarazione di Francesca Albanese: «Ho indagato giorno dopo giorno per 630 giorni e sono certa che si tratti di genocidio. Israele ha commesso atti che sono riconosciuti come genocidi, come l’uccisione di quasi 60.000 persone, probabilmente di più, determinare condizioni di vita atte a distruggere, la devastazione dell’80% delle case e la mancanza di acqua e cibo» [Global firms ‘profiting from genocide’ in Gaza, says UN rapporteur / THE GUARDIAN, 3/7/2025]. In un post pubblicato su X il 1° luglio, Francesca Albanese aveva annunciato che il report DALL’ECONOMIA DELL’ OCCUPAZIONE ALL’ECONOMIA DEL GENOCIDIO “mostra come le multinazionali abbiano alimentato e legittimato la distruzione della Palestina” e, commentando “Il genocidio, a quanto pare, è redditizio”, ne ha illustrato il ‘meccanismo’ con un’immagine molto efficace. La riunione svolta nella mattinata del 3 luglio, in cui Francesca Albanese è intervenuta aggiornando i dati e approfondendo alcune analisi della relazione presentata nell’occasione e i partecipanti hanno fornito ulteriori informazioni sulla Situazione dei diritti umani in Palestina e negli altri territori arabi occupati, è stata trasmessa in streaming e registrata da Middle East Eye: Il testo integrale del rapporto nella versione in lingua originale – inglese – e tradotto in francese, arabo, giapponese, russo e spagnolo è pubblicato sul sito dell’ONU * A/HRC/59/23: From economy of occupation to economy of genocide – Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 e una versione in italiano è a disposizione nell’archivio di documenti raccolti da PRESSENZA: * https://www.pressenza.com/wp-content/uploads/2025/07/Rapporto-Francesca-Albanese-def.pdf   PRESSENZA – 2/7/2025 : Francesca Albanese: “Le aziende traggono grandi profitti dall’occupazione di Israele dei territori palestinesi” Maddalena Brunasti
Bloccare i trasferimenti di armi a Israele
Gianni Alioti è uno dei maggiori esperti italiani della produzione di armi. In passato è stato responsabile dei metalmeccanici Cisl della Liguria, nella cui regione sono concentrate molte aziende del settore bellico. Ora è ricercatore di The Weapon Watch. Su Settimana News (rivista pubblicata dai Padri Dehoniani) nei giorni scorsi ha pubblicato un interessante articolo con notizie inedite, ve ne segnaliamo alcuni brani, essendo un testo lungo, lo pubblicheremo in due puntate successive . “Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi, materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di Liegi-Bierset. Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese. (…) La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di guerra dell’Israel Defense Forces. Se si vuole, quindi, attuare un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo” dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei. E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della compagnia danese Maersk. Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele, tra cui i componenti per i caccia– bombardieri F-35. Diversi rapporti provano infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare Gaza. L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in ordine al rispetto dei diritti umani. Sulla base del lavoro di ricerca e di monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5 anni. Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele, effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando sciopero, allo scopo di impedire le operazioni di scarico e carico. Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali, organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in Israele Dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023 e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza. Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, deve imbarcare un container contenente 21 tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a partire senza il carico di morte. Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu. Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia di attivisti pro Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che abitano nella regione. In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana (ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi. In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi della compagnia marittima israeliana ZIM. Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT, così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei trasporti affiliato alla confederazione sindacale DISK. In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta, alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di associazioni pacifiste. Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan “Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 . Redazione Italia