Tag - narrativa americana

Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!)
1. C’è un cognome diffuso tra Germania e Inghilterra che pare avere un certo legame con la scrittura. Se uno dice Roth, infatti, viene subito in mente Philip, e a ruota anche Joseph. Ma ci sarebbe da citare anche il poeta tedesco Eugen Roth, la drammaturga Friederike Roth, lo sceneggiatore televisivo Martin Roth e quello cinematografico Eric Roth. Ultimo, ma non in ordine di importanza, lo scrittore del quale ci occuperemo questa volta, Henry Roth. Un autore il cui esordio fu particolarmente deludente, per quanto – se non altro – gli venne risparmiata la riscoperta postuma; quando finalmente il pubblico si accorse di lui era ancora in vita, anche se prossimo ai sessant’anni. 2. Come altri scrittori ebrei americani, Henry Roth nacque nel vecchio mondo, più precisamente a Tysemenitz, nel 1906. Non so se la cittadina fosse ridente; doveva essere di sicuro più tranquilla di oggi, perché quando venne al mondo lo scrittore era nell’Impero Austro-Ungarico, mentre ora si trova in Ucraina. In ogni caso la famiglia Roth approdava a New York due anni dopo la nascita di Henry, come tante che lasciavano l’Europa Orientale vuoi per le persecuzioni che colpivano gli israeliti, vuoi per la miseria che li affliggeva. Nel prologo dell’opera prima di Roth, il romanzo Chiamalo sonno, la madre del protagonista, il piccolo David Schearl, dice al marito che è venuto a prenderla a Ellis Island “E questa è la terra dell’oro”. È un’immagine assai diffusa tra gli immigrati negli Stati Uniti tra Otto e Novecento; l’America era la montagna dell’oro per i cinesi, e aveva le strade d’oro per gli italiani (come attesta il titolo del bel romanzo di Evan Hunter, alias Salvatore Lombino). 3. Non so se i Roth trovarono veramente l’oro a New York, dove risiedettero, però una certa agiatezza sì, perché Henry poté frequentare l’università nei primi anni Venti, e dedicarsi alla carriera letteraria, anche grazie all’incontro con la poetessa e docente universitaria Eda Lou Walton (tipica rappresentante dell’intellettualità americana dell’epoca, iscritta al Partito Comunista e interessata alla cultura dei nativi). Roth andò a vivere con Eda nel Greenwich Village, e fu col suo sostegno che scrisse tra il 1930 e il 1934 la sua opera d’esordio, uscita per i tipi dell’editore Robert O. Ballou. Riviste letterarie prestigiose come Commentary e Partisan Review ne parlarono benissimo; venne lodato anche da Lewis Gannett, il critico letterario del New York Herald Tribune; le vendite furono però desolanti. Tale fu il flop che Roth venne colto dal blocco dello scrittore, nonostante avesse firmato un contratto con Doubleday per il suo secondo romanzo (che avrebbe dovuto essere curato nientemeno che da Maxwell Perkins, il mitico editor di Hemingway, Fitzgerald e Wolfe). Henry mollò il suo manoscritto, lasciò la Walton, e si mise con una pianista e compositrice, Muriel Parker. La coppia lasciò New York per trasferirsi a Boston, e questo trasloco segna l’abbandono della scena letteraria da parte dello scrittore; nonostante gli estimatori di Chiamalo sonno continuassero a chiedere che venisse ristampato, nessun editore li accontentò e su Henry Roth calò il sipario. 4. Qual era il problema della sua opera prima? Basta pensare alla data di pubblicazione: 1934, ben dentro la Grande Depressione. Franklin Delano Roosevelt è stato eletto solo da un anno, e il suo New Deal è ancora ai primi passi. Quanto potevano essere interessati i lettori americani alla storia di una famiglia ebraica che tira a campare in uno dei quartieri (allora) più poveri della Grande Mela, il Lower East Side, addirittura in quell’area sfigatissima di Manhattan nota come Alphabet City? Non avevano già abbastanza problemi? Non avevano già abbastanza miseria e insicurezza? Inoltre l’ambiente in cui si muovono i personaggi di Roth, il piccolo David Schearl, suo padre Albert, uomo violento, asociale ed esasperato, e la madre Genya, che vive quasi segregata in casa e non spiccica una parola d’inglese, comunicando con figlio e marito esclusivamente in yiddish, era assolutamente ebraico, e negli Stati Uniti degli anni Trenta di pregiudizi verso il popolo eletto non ne mancavano affatto – come anche verso gli italiani, i polacchi, e tutti gli altri immigrati che avevano affollato (secondo alcuni invaso) le grandi metropoli americane, trasformandone radicalmente la società. Questa pluralità che è anche plurivocalità è ben resa nel romanzo, ma sicuramente non era gradita da tutti i lettori. 5. A parte la questione etnica, Chiamalo sonno è a tutti gli effetti un romanzo modernista. Usa lo stream of consciousness joyciano, anche se con moderazione; riproduce fedelmente il parlato degli ebrei, degli italiani, degli irlandesi, il loro inglese scorretto, pronunciato malamente, infarcito di parole straniere; soprattutto è piuttosto esplicito in materia di sesso. Non sarà un caso se quasi all’inizio venga usata una parola yiddish che può indicare l’organo sessuale femminile (knish, capitolo 7) e alla fine appaia quella genuinamente inglese (cunt, capitolo 21). Per quanto David sia un bambino tutt’altro che smaliziato e ancora privo di pulsioni erotiche, le ragazzine e i ragazzini con cui ha a che fare, inclusa la cugina Esther e l’amico polacco Leo, sono già in piena tempesta ormonale e si dànno la caccia in maniera quasi animalesca. Inoltre si capisce ben presto che David non è figlio di quello che formalmente è suo padre, ma di un precedente amante di sua madre Genya, per di più non ebreo (addirittura un organista che suona in chiesa: anatema!). Tutte queste caratteristiche, proprio quelle che oggi ci fanno apprezzare il romanzo, all’epoca devono averne ostacolato la diffusione. 6. Insomma, Roth era arrivato troppo tardi per entrare nell’ondata modernista con Joyce, Hemingway e Fitzgerald, e troppo presto per la riscoperta e canonizzazione di quell’avanguardia, che sarebbe partita solamente negli anni Cinquanta e sarebbe dilagata negli anni Sessanta. Gli anni Trenta erano interessati a scritture accessibili e politicamente impegnate, come Furore di Steinbeck o Fontamara di Silone (che ai tempi fu un bestseller internazionale), o le prime opere di Orwell. Anche Hemingway aveva sterzato in quella direzione, con Per chi suona la campana. 7. A rileggerlo oggi il mondo di Chiamalo sonno è facile da visualizzare, nonostante tutto: è quella New York ebraica rievocata da Sergio Leone in C’era una volta in America. La differenza è che i ragazzini di Roth non diventano gangster come quelli nel film, né li vediamo crescere oltre una certa età; il romanzo si chiude quando David ha ancora otto anni. Nel complesso ci viene offerta la visione del mondo di un bambino che vive le micro-tragedie infantili come fossero la fine del mondo (e a un certo punto rischia di finire la sua esistenza sul serio); il protagonista sconta la sua ingenuità, le sue paure, ma anche gli errori di una madre iperprotettiva e troppo chiusa nello spazio domestico, e di un padre amareggiato e manesco che sospetta la moglie di non averlo sposato per amore, ma per risparmiare lo scandalo a sé e soprattutto a suo padre, uomo bigotto e ipocrita. A David manca anche la ribalda e scanzonata furbizia da strada dei suoi coetanei, che sanno navigare meglio di lui nello spazio metropolitano e caotico di New York (specialmente il polacco Leo, che si muove fulmineamente da una parte all’altra della città coi pattini, antesignano degli skateboarder a venire). Roth riesce perfettamente a filtrare il mondo degli adulti attraverso lo sguardo di un bambino, facendo così emergere gradualmente il passato di Albert e Genya, fino alla scena madre finale. 8. Il romanzo venne riscoperto negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta. La situazione era cambiata; gli ebrei si erano fatti strada nel giornalismo, negli affari, nel cinema, nella musica, nelle università, nella scienza, nella cultura; s’erano inseriti nel mainstream. In letteratura brillano le stelle di Saul Bellow, Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer e Norman Mailer; a breve arriveranno l’altro Roth e Joseph Heller. Un editor di una piccola casa editrice, Harold U. Ribalow, convinto che Chiamalo sonno fosse il grande romanzo (ebraico) americano perduto, decide di ripubblicarlo. Va a caccia di Henry Roth e lo ritrova in una fattoria nel Maine. Scopre che in tutti gli anni trascorsi lo scrittore ha fatto il boscaiolo, l’insegnante, ha lavorato in un ospedale psichiatrico, ha allevato anatre, ha dato lezioni di latino e matematica, ha messo insomma una pietra sopra la letteratura; comunque, Harold riesce a convincere Henry ad autorizzare la ristampa del romanzo, che riesce in rilegato nel 1960, e poi quattro anni dopo in economica, e a quel punto è il trionfo: un milione di copie vendute. Finalmente il romanzo sbarca in Italia, tradotto peraltro da Mario Materassi, specialista di letteratura ebraica statunitense, e amico di Roth – non a caso la sua versione, uscita per Lerici nel 1964, è ancora in circolazione per Garzanti. 9. All’inizio Henry non era affatto entusiasta dell’idea di far riuscire il Chiamalo sonno; però quando scopre di avere finalmente un suo pubblico, e anche numeroso, riesce pian piano a vincere il blocco psicologico che lo aveva azzittito, e inizia a lavorare a un’opera ben più ambiziosa, un romanzo fiume in quattro volumi intitolato Mercy of a Rude Stream, tradotto in Italia come Alla mercé di una brutale corrente. Il primo e il secondo volume uscirono nel 1994 e 1995, quando Roth era ancora in vita; gli altri due postumi, nel 1996 e 1998. La differenza tra l’opera prima e la ben più vasta opera finale viene spiegata così da Materassi: “Chiamalo sonno può essere letto come il veicolo attraverso il quale il giovane Roth, avendo appena rotto con la sua famiglia e la sua tradizione, usò alcuni frammenti della propria infanzia per puntellare le rovine di quella che già sentiva come un’identità dalla quale era sconnesso. Quarantacinque anni dopo, Roth s’imbarca in un altro tentativo di portare retrospettivamente ordine nella confusione della sua vita: Alla mercé di una corrente brutale, che lui ha a lungo chiamato un ‘continuum’, può esser letto come un monumentale sforzo finale da parte dell’autore anziano di fare i conti con le ricorrenti rotture e discontinuità che hanno segnato la sua vita”. In entrambi i casi è innegabile la forte componente autobiografica, il che ci induce a sospettare che il secondo romanzo incompiuto potesse ben essere una sorta di sequel di Chiamalo sonno. 10. Uno degli aspetti più interessanti di quest’ultimo, ma che è pressoché impossibile rendere in traduzione, è quella che ho chiamato plurivocalità; una pluralità di voci al limite del plurilinguismo. Roth aveva infatti un problema: i membri della famiglia Schearl parlano tra di loro in yiddish, ma i potenziali lettori del romanzo per lo più ignorano quella lingua. La soluzione adottata dall’autore è di tradurre i dialoghi in yiddish in un inglese corretto, a tratti letterario; mentre David e gli altri immigrati ebrei, quando si esprimono in inglese, lo fanno come s’è detto nel linguaggio da strada che usavano realmente nella vita quotidiana. Anche i personaggi di altra origine etnica (per esempio gli irlandesi) si esprimono nel loro inglese, con la loro pronuncia caratteristica, con le loro tipiche forme colloquiali. È una strategia che a ben vedere rientra in una tradizione tipicamente americana, lo sforzo, da Mark Twain in poi, di mettere sulla pagina la lingua del popolo, le particolari varietà dell’inglese parlate negli Stati Uniti (lo fa anche Faulkner quando deve far parlare i suoi personaggi di colore, e diventerà una pratica comune dei successivi scrittori che si fanno portavoce delle proprie etnie, dagli ispanici agli afroamericani). 11. In Chiamalo sonno non ci sono veri villain, in ultima analisi non lo è neanche Albert, il padre (assai probabilmente putativo) di David – man mano che emerge il suo passato, la storia di un uomo oppresso da un padre-padrone e tormentato dai dubbi sul proprio matrimonio, la sua figura si fa meno inumana; verso l’epilogo Albert riesce finalmente a manifestare una qualche forma di affettività nei confronti del figlio. Ma ci sono personaggi per i quali Roth manifesta ben poca simpatia: il padre pigro e bacchettone di Genya, che si fa servire e riverire dalle donne della famiglia, e soprattutto il rabbino Yidel, quello cui viene demandata l’istruzione religiosa di David, che per un ebreo è anche un corso di lingua. Il tema del plurilinguismo ritorna puntuale: seguiamo le lezioni di reb Yindel che insegna ai ragazzi di vita ebrei a leggere il testo sacro, riprodotto foneticamente da Roth in caratteri latini; ma al rabbino poco interessa far capire ai suoi alunni cosa David invece è rimasto come folgorato dal testo di Isaia 6: “io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava”. Roth mi sembra voler contrastare l’insegnamento meccanico e scolastico in senso deteriore impartito da Yindel all’entusiasmo ingenuo e fantasioso del bambino, nel quale, proprio per questo momento di illuminazione poetica, si scorgono i segni del futuro talento creativo – perché David è scopertamente un alter ego dello scrittore. L'articolo Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!) proviene da Pulp Magazine.
Elizabeth Strout / Ancora sul bordo (dell’Oceano)
Se pensando allo scrittore Kent Haruf viene in mente quel luogo intimo e allo stesso tempo mitico di Holt, la comunità immaginaria con sede in Colorado diventata archetipo della nostra dolorosa e splendente umanità, Elizabeth Strout richiama subito Crosby, la località costiera nel Maine dove prendono vita non solo le avventure dei suoi personaggi, ma anche le storie a cui sono legate le loro esistenze. Qui torniamo con Raccontami tutto, la sua ultima uscita pubblicata ancora una volta da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso. Strout sceglie di mettere insieme in scena le sue celebri protagoniste Olive Kitteridge e Lucy Barton: insieme perché sono nello stesso romanzo e soprattutto perché condividono buona parte dello spazio diegetico a loro dedicato in queste pagine. Sebbene tra le due non vi sia simpatia immediata, Olive e Lucy si ritrovano a confessarsi ricordi e segreti, a sviscerare le maschere altrui, in una mutua necessità di esplorare la complessità della vita. Quel gusto di raccontare è la forza costituente della scrittura di Strout. Il tessuto sottile della sua prosa si muove nella quotidianità e nelle inquietudini dei residenti di Crosby dopo l’isolamento della quarantena, in quella solitudine di cui non parlano. Ci sono madri spaventate e deluse dall’allontanamento dei figli ormai adulti, donne e uomini aggrappati agli unici espedienti capaci di aiutarli ad affrontare la paura, come l’alcol. A fare da collante, Bob Burgess, amico di vecchia data di Lucy, punto di riferimento per lei come per molti altri residenti a causa della sua (eccessiva) empatia: avvocato, abita al centro di Crosby con la moglie Margaret e sopporta il peso di una colpa di giovinezza con cui fatica a fare i conti. Strout ci offre nell’incipit poche righe di rara efficacia per descriverlo: “Questa è la storia di Bob Burgess, un uomo alto e massiccio che abita nella cittadina di Crosby, nel Maine, e al momento ha sessantacinque anni. Bob ha un gran cuore ma non sa di averlo; non diversamente da molti di noi, non si conosce bene come pensa, e non crederebbe mai che nella sua vita ci sia qualcosa che vale la pena di essere raccontato”. La tranquillità delle sue giornate è scossa da un caso di cronaca, la scomparsa e poi il ritrovamento del cadavere di un’anziana: Bob diventa il difensore di uno dei figli, Matthew Beach, da sempre considerato un individuo bizzarro e potenzialmente pericoloso. Dalla storia di Matthew a quella della sorella Diana e quella della madre Gloria, al dilagare di memorie e verità taciute nell’intera Crosby, fino alle omissioni nel rapporto tra Bob e il fratello Jim, alla crescente stima tra Lucy e Olive. La scrittura di Strout sa conservare luce anche nella narrazione della violenza e dell’oscurità umana, perché, come Bob spiega a suo nipote Larry, “Non si tratta di essere cattivi. Questa gente è devastata. C’è una bella differenza tra essere cattivi ed essere devastati”. Ed è proprio questa devastazione, il cuore di far parte del mondo, dell’essere umani. L'articolo Elizabeth Strout / Ancora sul bordo (dell’Oceano) proviene da Pulp Magazine.
‘La lunga marcia’ e ‘L’uomo in fuga’ al cinema. Attualità dello Stephen King più politico
In un’America distopica, il Maggiore governa il paese col pugno di ferro. Le squadre, il suo braccio armato, fanno sparire i dissidenti che osano esprimersi a voce troppo alta. La forma di intrattenimento più popolare negli Stati Uniti controllati dal Maggiore è una marcia che ogni anno vede cento ragazzi camminare dal confine con il Canada fino a dove i loro corpi riescono a portarli. Non sono previste pause di alcun tipo fino alla fine della competizione. Chi si ferma riceve un avvertimento. Chi scende sotto la velocità stabilita dal regolamento riceve un avvertimento. Chi commette un’infrazione riceve un avvertimento. Dopo il terzo avvertimento si viene fucilati sul posto dai soldati che seguono i marciatori a bordo dei mezzi corazzati. La partecipazione è facoltativa, il vincitore riceverà tutto quel che desidera per il resto della propria vita. Il premio alletta molti dei ragazzi che partecipano sperando di vincere in qualità di ultimo sopravvissuto. Altri partecipano per ragioni tutte loro. Ciò di cui nessuno si rende conto è della trappola spaventosa in cui si sta andando a cacciare con le proprie mani. In un’altra America non meno distopica e governata da un regime altrettanto autoritario, Ben Richards è un disoccupato senza un soldo la cui moglie si prostituisce per guadagnare qualche soldo per tentare di curare la figlia malata. Per tentare di cambiare il destino della piccola, Ben si reca alla Federazione Giochi, un ente che produce competizioni trasmesse in TV in cui i poveri come lui partecipano a programmi in cui mettono a rischio la propria salute per soldi. Lui non punta ai giochi pericolosi ma fattibili come il Macinadollari. Lui punta alla gara più estrema, quella da cui nessuno finora è uscito vivo. L’uomo in fuga, una caccia all’uomo che frutta al fuggitivo un pozzo di soldi a patto di sopravvivere trenta giorni di fila braccato dall’America intera: dai poliziotti ai cittadini comuni, o peggio ancora dai Cacciatori, una squadra specializzata alla guida dello spietato Evan McCone. L’uomo in fuga non serve solo a intrattenere, aiuta il governo a liberarsi di potenziali sovversivi pericolosi. Ma Ben Richards, con il suo acume e con la sua rabbia dirompente, potrebbe dimostrarsi più pericoloso del previsto.     La lunga marcia, la prima opera scritta (anche se non la prima pubblicata) da Stephen King e L’uomo in fuga fanno parte dei Bachman Books, una serie di libri che il Re scrisse, insieme a Ossessione, Uscita per l’inferno e L’occhio del male, sotto lo pseudonimo di Richard Bachman un po’ per gioco e un po’ per sfida, in sintesi per rendersi conto di quanto il suo nome pesasse realmente nel determinare il successo dei suoi libri e quanto esso fosse dovuto alla loro qualità. Di tutta la sterminata produzione di King, i libri scritti come Bachman sono forse i più politici e fra di essi La lunga marcia e L’uomo in fuga si distinguono per una critica particolarmente dura, diretta e rabbiosa. Proprio in questi mesi è prevista l’uscita nelle sale cinematografiche di due pellicole tratte da queste due opere. Ora, il rapporto fra i libri di King e i loro adattamenti per il grande schermo è come minimo complicato, nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a risultati mediocri a voler essere generosi, eccezion fatta per opere come Shining (1980) di Kubrick, e in tal senso sono ancora i due libri sopra citati a distinguersi. Se l’idea di portare nelle sale cinematografiche La lunga marcia ha infatti parecchi anni e altrettante false partenze sulle spalle, L’uomo in fuga ha generato un adattamento, conosciuto in Italia con il titolo L’implacabile (1987), su cui sarebbe forse meglio soprassedere, un film sci fi d’azione con Schwarzenegger che è pure divertente ma che con il libro di King non ha nulla a che vedere. Al di là del comprensibile hype da parte dei fan del re, fomentato almeno nel caso di La lunga marcia da un paio di trailer che promettono i fochi d’artificio, è interessante come proprio oggi questi due libri così attuali siano finalmente diventati due film e, soprattutto, è interessante capire cosa li rende così inquietantemente contemporanei. Il primo aspetto difficile da non notare è che le due opere sono due modi completamente diversi di raccontare fondamentalmente la stessa storia. La narrazione è la medesima: in un’America controllata da un regime autoritario il protagonista sceglie liberamente di partecipare a un gioco che illude di poter cambiare la propria vita ma che, nella realtà dei fatti, è un tritacarne da cui non è possibile uscire vivi. Quindi, gli elementi fondamentali sono tre: il regime autoritario, il ruolo e le modalità dell’intrattenimento e la chiave di volta, la libera scelta. Partiamo dall’ambientazione. A metterli insieme tutti e due, i world building dei due libri per quanto accennati ci restituiscono una fotografia sinistramente precisa del nostro presente, contando che sono stati pubblicati fra il 1979 e il 1982. Il regime autoritario del Maggiore, in La lunga marcia, è poco più che accennato ma le poche parole con cui è tratteggiato sono di una sintesi efficace che fornisce tutte le informazioni necessarie. C’è la figura carismatica, c’è la repressione del consenso strisciante ma presene, c’è un consenso generalizzato derivante dal culto della personalità. L’uomo in fuga racconta fa forbice fra le classi sociali, con le sue differenze sempre più chiare, accentuate e apertamente giustificate con una borghesia che non fa nemmeno finta di non disprezzarli, i poveri. L’ambientazione qui è più delineata, dickensiana ma in pieno bad trip di quelli pesanti con la gente comune che è tornata ad avere la sussistenza economica e la sopravvivenza tout court come problemi principali dagli esiti niente affatto garantiti. Quanto all’intrattenimento, entrambi i libri raccontano di una nazione che segue assiduamente un gioco al massacro nel senso letterale, basato su una morte violenta in qualche modo catartica e attesa da un pubblico acclamante. Qui si vede la maggior complessità della struttura di L’uomo in fuga: il libro è dinamico, pieno di eventi e di rovesciamenti di fronte rapidi e improvvisi, giocato su una tensione costruita a strappi, a scatti di adrenalina che si alternano a seppur brevi momenti dove il protagonista riesce a riprendere fiato. Il parallelismo con i gladiatori è più scoperto, il ruolo dei media è più invadente e la sete di sangue della folla più urlata per quanto ci sia dello spazio per alleati che aiutano Ben Richards soprattutto come atto di resistenza dettata da un barlume di coscienza di classe, non a caso il consiglio che riceve da uno degli antagonisti è: stai con la tua gente. La lunga marcia, nella sua costruzione maggiormente lineare, costruisce la narrazione su una trappola che all’inizio del romanzo si chiude sui protagonisti e non li lascia più uscire, un meccanismo di tortura lento e inarrestabile da cui le vie d’uscita semplicemente non esistono. Si può solo camminare e morire, anzi, camminare e poi morire. Il ruolo dei media è meno invadente perché il Maggiore è un dittatore vecchio stampo, di quelli che ancora andavano di moda all’epoca per esempio in Sud America, con il loro amore per le piazze e per le parate. Il pubblico qui non guarda il gioco davanti alla TV (anzi, alla tri-vu) come ne L’uomo in fuga, qui le famiglie si sistemano a bordo strada cercando un punto di osservazione ottimale. In entrambi i casi, l’intrattenimento basato sulla sofferenza fisica e sulla morte svolge la fondamentale funzione di collante della società, uno sfogo per persone a cui è stata portata via la possibilità di una vita dignitosa. L’ultimo, drammatico elemento che rende La lunga marcia e L’uomo in fuga è la scelta, o l’illusione della stessa. Nessuno costringe i partecipanti ai giochi a iscriversi. Lo decidono loro, di loro spontanea volontà. O almeno credono. Certo, l’atto di espressione del consenso è deliberato, non estorto, ma nel migliore dei casi sono guidati da una pulsione di morte indotta dal mondo in cui vivono, quando non è direttamente il bisogno a guidare la loro mano alla compilazione dei documenti necessari. Se le motivazioni di Ben Richards sono chiare, ha bisogno dei soldi per le cure di sua figlia, Ray Garraty non lo sa nemmeno perché si è iscritto alla marcia, forse c’è un motivo correlato al fatto che Squadre hanno portato via suo padre, col vizio del bere e di parlare di politica, lasciandolo solo con una madre traumatizzata e spaventata dalla propria ombra. Altri marciatori lo fanno per quella microscopica possibilità di garantire un futuro alle loro famiglie, altri sono semplicemente consapevoli di star compiendo un suicidio. Tutti, in questi due romanzi, scelgono di giocare una partita le cui possibilità di vittoria sono assurdamente basse, ma sono accecati dal premio, dall’incapacità di capire le implicazioni del loro gesto o da una voglia di morire che sa di resa allo stato delle cose. Una scelta libera sul piano formale, un po’ meno nella sostanza. Voler indicare col ditino i parallelismi con l’epoca in cui viviamo sarebbe didascalico, gli elementi sono lì da vedere, l’ironia amara che sta dietro al tempismo che vede La lunga marcia e L’uomo in fuga de film proprio adesso è che forse non esiste un momento storico che queste due opere sono più adatte a rappresentare. L'articolo ‘La lunga marcia’ e ‘L’uomo in fuga’ al cinema. Attualità dello Stephen King più politico proviene da Pulp Magazine.
Barbara Kingsolver / Lacune
Come lettrice, potrei dire che Barbara Kingsolver è una vecchia amica. L’ho scoperta in America, ai tempi in cui si andava in libreria a comprarsi i libri per il viaggio. In una piccola libreria di Los Angeles ho comprato Pigs in Heaven (Il canyon dei sogni) e sono partita per la Baja California: era il libro perfetto per quei paesaggi e avevo scoperto un’autrice che avrei seguito per tutta la vita. Ho letto Demon Copperhead (e recensito qui su “Pulp Magazine”) e poco fa Un mondo altrove. Libro che in realtà avevo già letto, perché aveva fatto una breve comparsa per Mondadori all’inizio degli anni 2000. Era passato inosservato, leggendo capirete anche perché, e ora è stato ripubblicato da Neri Pozza. È voluminoso e complesso, con un inizio spiazzante, Un mondo altrove. Io l’ho trovato anche bellissimo. Il titolo originale è The Lacuna, che è il luogo dove il romanzo comincia ma è anche una parola, in inglese come in italiano, che evoca la mancanza, l’assenza. Non la indica con precisione, ma la suggerisce. Sono lacune le misteriose insenature, che i messicani chiamano cenotes, grotte effimere che si formano a seconda dell’umore delle acque e nascondono meraviglie. Sono lacune i temi portanti del romanzo: i taccuini scomparsi e in parte ritrovati del protagonista, i suoi buchi nella memoria, la madre assente, la vita nascosta e quasi segreta, le morti e gli assassini, la storia con le sue dimenticanze volute e non. Harrison William Sheperd, o HWS come verrà chiamato nel corso del racconto, è un bambino nato in America da padre americano e madre messicana. È ancora molto piccolo quando la madre segue un ricco petroliere sulla Isla Pixol, nel Golfo del Messico, e si ritrova di fatto a crescere da solo in compagnia dell’oceano. Quello che impara durante questa infanzia particolare, ovvero a cogliere la marea e l’onda giusta per oltrepassare la lacuna e trovarsi nel “mondo altrove”, a cucinare e in particolare impastare con arte e precisione, saranno poi le cose che lo salveranno nella sua lunga e avventurosa vita. Scappati dall’Isla Pixol quando gli affari del petroliere entrano in crisi, madre e figlio si trasferiscono a Città del Messico e lì HWS, in una giornata qualsiasi, al mercato locale, incontra Frida Kahlo e poi Diego Rivera. Rivera sta dipingendo un gigantesco murales e ha bisogno di impastatori di intonaco: WHS, usando la tecnica che ha imparato dal cuoco Leandro, prepara un intonaco liscio e perfetto come nessun altro degli assistenti di Rivera. Ma nella vita di Rivera e Kahlo sta per entrare la rivoluzione: Lev Trockij  è in arrivo, esule in America con la moglie. HWS oltre che da cuoco gli farà da segretario e interprete, scriverà tutto quello che il grande rivoluzionario russo dice e racconta, su altri taccuini che si andranno ad accumulare sopra quelli in cui conserva la sua vita. Il soggiorno di Trockij in Messico sarà breve, tuttavia, perché nonostante le crescenti precauzioni che Kahlo, Rivera e i loro amici mettono in atto, il rivoluzionario russo sarà ucciso alla sua scrivania. HWS torna nell’America in cui è nato, dal padre rimasto a Washington D.C., e grazie alla cittadinanza che ha sempre conservato si stabilisce in North Carolina. Scrive due romanzi storici ambientati in Messico, che hanno un grandissimo successo, sfugge alla guerra ma non sfugge all’ondata di “purghe” del maccartismo, la grande caccia alle streghe che prende di mira tutti i comunisti, i simpatizzanti dei comunisti e tutti quelli che non sono precisamente allineati con l’amministrazione Hoover. Passa mezzo secolo, in questo racconto, metà di quel “secolo breve” che è stato sanguinario e terribile, pieno di orrori e innovazioni, di rivoluzioni e dittature, di ideologie e idiozie. Mentre il Messico è rappresentato come un mondo colorato e vivo, povero materialmente ma ricchissimo spiritualmente e artisticamente, l’America di questo romanzo è sorprendentemente simile a quella di oggi, preda di paure irrazionali e infondate, di un’ignoranza storica e di contesto, in cui i confini del potere sono labili e semoventi, in cui la fuga è alla fine l’unica via di uscita. A differenza di Demon Copperhead, in cui la denuncia sociale stava nel cuore del racconto e in ogni pagina e in ogni passaggio della trama, in Un mondo altrove protagonista è una singola vita e il suo rapporto con la grande Storia, è la quotidianità dei grandi personaggi e l’incontro tra destini eccezionali e destini normali. È anche la fortuna e la capacità di sfruttare le occasioni e rocambolare da un’esperienza all’altra, da un paese all’altro. HWS, come ci viene raccontato dalla sua assistente Violet Brown, è un uomo schivo e segreto, integro e buono. La scrittura è il suo modo di stare al mondo, i suoi taccuini sono la sua cosa più preziosa, i suoi rapporti con le persone sono formali e minimali, la sua omosessualità è vissuta con grandissima discrezione. Siamo affascinati da HWS ma non ne diventiamo amici neppure noi lettori, manteniamo quella distanza che sembra essergli necessaria. La manteniamo con rispetto, e ci accontentiamo che la nostra curiosità venga soddisfatta dalle parole di Violet Brown. Non sappiamo neppure esattamente che fine fa, HWS, se si salva come si è sempre salvato. Lo speriamo per lui e anche per noi, perché è grazie alla sua memoria e alla sua capacità di raccontare che questo romanzo, in cui entrare non è facilissimo ma vale assolutamente la pena, ci regala ore bellissime e affascinanti. L'articolo Barbara Kingsolver / Lacune proviene da Pulp Magazine.
Raccontare il desiderio femminile senza paura
(R.D.) SE IL NOME È “MENOPAUSA”  Cosa succede quando improvvisamente sentiamo che un cambiamento epocale è piombato nelle nostre vite e stravolge il nostro corpo, le nostre relazioni e i nostri desideri? Non si tratta certo di mettersi a tavolino e prendere delle decisioni, soprattutto perché spesso questi cambiamenti ci attraversano e per lungo tempo stentiamo a riconoscerli, a comprenderne gli effetti profondi a dar loro un nome. Menopausa (o perimenopausa come è stato scritto da più parti) è il nome del cambiamento che Miranda July (1974, scrittrice, regista e sceneggiatrice statunitense) ha deciso di raccontare in un rutilante, divertente e divertito romanzo, in originale intitolato All Fours (Miranda July, A quattro zampe, tr. di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, pp. 328, euro 20,00 stampa, euro 4,99 ebook) che chiaramente richiama anche in italiano la posizione della “pecorina”: perché a quattro zampe, in fondo, si tende ad essere più stabili. La (presunta) stabilità della vita che precede la menopausa dell’anonima protagonista quarantacinquenne di questo romanzo – artista di una qualche fama ma giunta ad un punto morto della propria carriera, moglie del produttore musicale Harris e madre dell figl non binaria Sam – viene sconvolta da dubbi incipienti sul suo intero mondo: continui ripensamenti su scelte e desideri, inspiegabili colpi di testa, rocambolesche casualità spesso condite da soluzioni maldestre quanto imbranate. Perché per la protagonista la menopausa non è affatto, banalmente e stereotipicamente, l’età del calo del desiderio, della secchezza vaginale e di tutte la gamma di possibili rinunce e ritiri dal mondo che affliggerebbero donne condannate dalla fine dell’età fertile, anche perché la nostra eroina non ha alcuna intenzione di riprodursi ancora. La nostra eroina ha piuttosto una grande, irrefrenabile voglia di godere e non intende certo rassegnarsi a incomprensibili grafici che mostrano quanto la sua vita fisiologica possa essere biologicamente e deterministicamente orientata da saliscendi ormonali. Del resto il punto di svolta, che fa da perno all’intera costruzione narrativa, è l’incontro con Davey, un giovanotto qualunque di una decina d’anni più giovane di lei che diventa, suo malgrado, l’im/possibile oggetto di un desiderio incontenibile che risveglia una spumeggiante creatività e un’intensa voglia di sperimentazione estetica, emotiva e sessuale. “Può il mondo accogliere l’idea di un sé in continua evoluzione?”, si è chiesta non troppo banalmente Marie Solis scrivendo di A quattro zampe sul “New York Times”, dove non ha esitato a definirlo come “il primo grande romanzo sulla perimenopausa” ]. DEMOLIRE I TOTEM DEL PATRIARCATO In un percorso segnato da selvagge oscillazioni e fatto di auto-riabilitazione, non rassegnazione e una più o meno ferrea volontà di non subire i cambiamenti ma di governarli o, quanto meno, di assecondarli per estendere le proprie percezioni e piaceri, M (ad un certo punto compare questa iniziale riferita alla protagonista – ovviamente casuale ogni riferimento al nome della scrittrice stessa) decide di sfidare apertamente i totem del patriarcato che vorrebbero – ancora oggi nel discorso comune dominante! – presiedere al congedo definitivo da una vita non più valida ai fini riproduttivi. Almeno quella di una donna, con gli uomini che, stando ai terribili grafici ormonali di cui sopra, partirebbero con un vantaggio biologico: > È strano, ha detto, che gli uomini abbiano quasi sempre la stessa quantità di > testosterone. > Ho ingrandito il grafico con due dita. La lieve discesa della linea > punteggiata del testosterone indicava un cambiamento quasi impercettibile. > Mentre io precipitavo da uno strapiombo, Harris avrebbe passeggiato per una > stradina di campagna che degrada dolcemente, fischiettando con una pagliuzza > nell’angolo della bocca. L’eterosessualità compulsiva e obbligatoria, il dispositivo sociale della coppia (soprattutto in una “relazione romantica” con tutte le implicazioni intime e sociali del caso) e quello giuridico e pseudo antropologico del matrimonio e infine l’accerchiante monogamia sono elementi pronti ad esplodere in faccia a lettori e lettrici, sotto i colpi di scelte e opinioni squadernate dalla protagonista e dalle sue amiche, ovviamente tutte in o sulla soglia della menopausa. Amicizia e solidarietà femminile – altri fatti sociali ottimamente raffigurati dal congegno narrativo di July – servono a vivere come una forma di liberazione tutte le direzioni che di volta in volta la vita della protagonista sembra intraprendere: non senza inciampi talvolta ridicoli, che connotano il testo di un’ironia mai feroce e sempre empatica con tutti i personaggi. Del resto, la ben nota bisessualità della nostra eroina e la scelta di abbandonarsi a travolgenti passioni lesbiche non fa che ricordarci, per converso, l’ingombrante centralità sociale dell’eterosessualità che, come scrisse Carla Lonzi in La donna clitoridea e la donna vaginale (1971), “non siamo così cieche da non vedere che è un pilastro del patriarcato, non siamo così ideologiche da rifiutarla a priori”. Molti pilastri del patriarcato vengono ridicolizzati dalla narrazione di July che però non è mai didascalica: non ha lezioni da impartire quanto esperienze da mettere in forma di prosa brillante. E così anche il piacere della penetrazione, idolo intorno al quale ruota il rapporto eterosessuale, più che essere demistificato dai rapporti lesbici viene relativizzato: se quello è il piacere ce lo prendiamo senza cazzi fatti di corpi cavernosi irrorati di sangue. Dunque, se in un memoir come Perdersi (Se perdre, 2001) di Annie Ernaux, il piacere di una relazione sentimentale complicata per una donna di mezza età brucia intorno ad una passione fortissima ma confinata tra incontri segreti e le pagine di un diario, A quattro zampe sconfina oltre i recinti di quello che le donne (di solito) non dicono. Più di tutto, in barba ai più triti cliché riguardanti soprattutto la corporeità delle donne, il corpo in A quattro zampe è sì misura del tempo ma la sua rappresentazione non è necessariamente una parabola e i cambiamenti indotti dalla menopausa non conducono necessariamente al suo versante discendente. Non a caso forse, come ha scritto Zoe Williams sul Guardian, molte lettrici avrebbero trovato nel libro le chiavi per cambiare radicalmente la propria vita. (E.M.) DESIDERIO SESSUALE, IL NUCLEO INCANDESCENTE Quando un libro mette al centro il sesso, corre un rischio preciso e radicale: o è un romanzo pornografico sans phrase — e in quel caso l’atto sessuale è rappresentato come fine e motore del testo da cui deborda per definizione — oppure, se vuole essere un romanzo vero e proprio, il sesso finisce per slittare altrove, sublimato, raccontato attraverso discorsi metasessuali su amore, coppia, maternità, patriarcato, rivoluzione… In questo secondo caso, c’è sempre il pericolo che il desiderio sessuale, pur essendo ovunque, salti dal punto di vista narrativo, o venga disinnescato dal peso delle sue implicazioni simboliche.  Ma proprio questo scivolamento interpretativo rivela un punto cieco: il desiderio sessuale è il nucleo incandescente di A quattro zampe, ed è descritto in modo radicale, preciso, esploso. Non è simbolo, non è struttura, non è teoria. È azione, fame, materia. Non è sfondo né sintomo: è l’oggetto narrativo centrale. Non si tratta di un desiderio represso o implicito, ma di un desiderio esplicitamente agito. La protagonista lo insegue con ostinazione, senza paura del ridicolo, dell’umiliazione, della perdita. Non lo maschera, non lo sublima: lo esibisce nella sua forma più cruda e incontrollabile. Eppure, non si consuma mai in un atto sessuale. E proprio questo mancato compimento ne accresce la forza. Il desiderio attraversa tutto il romanzo, ma non ha un punto d’arrivo, e per questo non si estingue mai. Anche quando il tempo passerà e ci saranno altre storie.  Il massimo della tensione erotica si concentra in una scena al limite tra intimità e grottesco: lui che le cambia un tampone durante le mestruazioni. Un atto che non è sesso ma ne condivide la carica simbolica e fisica. È un gesto quasi di cura, ma anche di invasione, di esposizione, di resa. La scrittura di July non lo chiude in una categoria: resta miracolosamente sul crinale tra il sublime e il ridicolo, lasciando che il lettore ne percepisca tutta la forza ambigua e perturbante. Questo stesso meccanismo di desiderio incompiuto si estende anche alla dimensione materna. Il figlio della protagonista nasce dissanguato, praticamente morto, ma poi sopravvive. Non è solo una figura liminale tra vita e morte, ma anche tra identità: non ha un genere assegnato. Mi pare che non sia semplicemente una scelta narrativa legata alla sensibilità contemporanea sul genere, ma parte integrante di una poetica del desiderio che sfugge alla normazione, che rifiuta i compimenti canonici, anche quello della maternità come conferma identitaria. A tutto ciò si aggiunge un altro paradosso: la protagonista ha già una vita sessuale appagante. Con il marito ha rapporti sessuali intensi e soddisfacenti, ricchi di orgasmi; anche con le donne ha esperienze piene. Ma ciò che cerca in Davey è qualcosa d’altro, qualcosa che non può essere contenuto nelle forme sessuali note o condivise. Non è l’amore, non è la coppia, non è il piacere. È la fame assoluta di essere posseduta, consumata, dissolta. In questo senso, la protagonista non incarna un modello femminista emancipato, bensì una figura antica e vertiginosa della passione: vuole essere inferiore, dipendente, schiava d’amore. E lo fa senza compiacimento, senza vittimismo, senza ironia anche se lei come narratrice non può non vedere il lato addirittura comico della vicenda. Vuole vivere una forma di abbandono totale, in cui il desiderio coincide con la sottomissione, non come regressione, ma come atto consapevole di immersione nel proprio desiderare. Questo è ciò che la rende insieme patetica e grandiosa, vulnerabile e potentissima: sceglie di non proteggersi. LA VECCHIAIA & IL PIACERE In questa dinamica, si inserisce anche un aspetto sorprendente e spesso taciuto: la paura di essere troppo vecchia si mescola con il piacere. La protagonista non solo è consapevole del proprio corpo che cambia, del tempo che passa, della possibilità concreta di non essere più desiderabile da un uomo più giovane, ma è proprio questa consapevolezza a intensificare l’esperienza del desiderio. L’insicurezza non cancella il piacere, lo moltiplica: è come se l’eccitazione passasse anche attraverso il rischio del rifiuto, la vergogna dell’inadeguatezza, l’imbarazzo del confronto. La protagonista desidera non nonostante la sua età, ma anche grazie a essa. Il desiderio si fa più acuto perché si sa temporaneo, più esposto perché sa di sfidare una norma. Il piacere, in questa forma, è inseparabile dalla paura di perderlo. Davey, l’oggetto del suo desiderio, è assente in modo assoluto. Non perché sia cattivo o indifferente, ma perché è totalmente assorbito dal proprio progetto di vita: diventare ballerino. Non può permettersi distrazioni, né di restituire l’intensità che riceve. Ma questa asimmetria non annulla il desiderio, anzi lo sacralizza: la protagonista ama Davey proprio perché lui non può amarla. Perché è inaccessibile, e quindi perfetto. Alla fine, A quattro zampe racconta una donna che non vuole farsi amare, ma desiderare fino al dissolvimento. Una donna che non cerca emancipazione, ma esposizione radicale. Che non chiede pari dignità, ma la grazia pericolosa della sottomissione. E lo fa con una precisione narrativa, emotiva e politica notevole e – cosa non secondaria – molto divertente. July costruisce così un romanzo che non ha paura del desiderio femminile, neanche quando è osceno, irrazionale, o disperato. E questo, nel panorama letterario contemporaneo, è forse il gesto più libero e più feroce che si possa compiere. IN ULTIMO LA COPERTINA … che è del tutto incongruente al punto di far credere che chi l’ha licenziata abbia perso la trebisonda leggendo il romanzo. Chissà. L'articolo Raccontare il desiderio femminile senza paura proviene da Pulp Magazine.
John A. Williams / Un libro mondo
Veterano di guerra. Romanziere. Giornalista. Autore di discorsi presidenziali. Nero. Max Reddick è tutto questo ma, soprattutto, è un uomo che sta morendo. Mentre un cancro lo divora inarrestabile, lo scrittore torna in Europa per chiudere diversi conti. Con l’ex moglie, e con un caro amico morto da poco che gli lascia un’eredità da far tremare i polsi: un piano governativo segreto, un progetto eliminazionista a sfondo razziale, una cospirazione con finalità agghiaccianti e dalle spaventose conseguenze potenziali. Seguendo una trama costruita su più linee temporali il lettore segue la vicenda di Reddick imparando a conoscerne la storia, il mondo e le manie mentre le maglie di una ragnatela che rischia di portarlo alla morte ben prima di quanto la sua malattia possa fare si stringono attorno a lui e alle carte scottanti che Harry Ames, l’amico e collega con cui tanto ha condiviso, gli ha lasciato in mano prima di morire. L’uomo che gridò io sono è un classico della letteratura americana pubblicato in patria nel 1967 e solo adesso tradotto in Italia. Il libro si caratterizza, in ogni suo aspetto, per il fatto di esistere, ed essere profondamente attuale, a cavallo tra due epoche: quella in cui è uscito nelle librerie e il nostro presente. Il volume è ampio e ponderoso ma, per quanto figlia del proprio tempo, la scrittura di Williams è relativamente scorrevole e la lettura, non immediata, è più fluida e fruibile di quanto possa apparire dalle premesse. L’uomo che gridò io sono è un lavoro ambizioso, vuole essere un romanzo grande e in tal senso l’autore si prende tutto il tempo per costruirlo. La svolta thriller arriva infatti a suo tempo, senza fretta, dopo che tutto un mondo è stato delineato e dopo che tutti gli attori di una lunga e complessa vicenda corale hanno preso posto e sono stati caratterizzati approfonditamente nel loro venir messi singolarmente sotto la luce dello spotlight nelle interazioni scritte per dar loro profondità prima che far proseguire la trama. In questo senso William ricorda, mutatis mutandis, Herman Melville nella sua intenzionalità di esplorare a fondo un ambiente entro il quale il suo dispositivo narrativo viene messo in moto con un worldbuilding ricco, multipolare, fatto di una moltitudine di luoghi, di tempi, di protagonisti e di relazioni. Reddick si muove in un qui e ora contestualizzato, che non galleggia nel vuoto, a cui è arrivato come conseguenza di scelte e di eventi che hanno plasmato la persona che lui è e l’ambiente naturale in cui si muove, un ambiente fatto di regole precise in cui c’è fermento, le cose si muovono ma al tempo stesso non è possibile uscire da steccati ancora alti, solidi e ben definiti. Sì, perché Reddick è nero. Un nero colto, che lavora nell’industria culturale. Un nero per molti aspetti privilegiato ma sempre e comunque un nero, che ha certamente talento ma, proprio per i limiti imposti dal contesto in cui vive, quel talento conta fino a un certo punto e parte della fortuna, questa è la regola non scritta ma molto poco taciuta, è dovuta al connotato etnico certi ambienti hanno bisogno in una ben precisa misura. Reddick è quel nero, non c’è spazio per tutti quelli come lui ma qualcuno ne serve e lui è lì per quello. Ciò gli conferisce uno status, a patto che si ricordi di non essere bianco. Questo rende L’uomo che gridò io sono un romanzo profondamente calato nella realtà del suo tempo insieme a numerosi riferimenti a persone e fatti della sua epoca, dall’esistenzialismo a uno scandalo che ricalca un episodio che ha riguardato lo stesso Williams in prima persona. Non è esagerato definire questo lavoro un libro-mondo, perché questo alla fine è il suo contenuto. Un mondo, un’epoca, un racconto che va oltre la trama e la vicenda messa in scena e ai temi trattati che, seppur importanti, non esauriscono il romanzo nella semplice definizione di opera di denuncia perché la ricchezza di quest’opera è molto più di questo. L’uomo che gridò io sono alla fine ci riesce, a essere grande. Per la solidità e la complessità della sua costruzione, e per la capacità di raccontare una realtà che, a oggi, non ha ancora affrontato i propri demoni. L'articolo John A. Williams / Un libro mondo proviene da Pulp Magazine.
Clare Sestanovich / Il potenziale
In un passaggio verso il finale, Eva, la protagonista del romanzo della giovane scrittrice americana Clare Sestanovich, si trova in un vivaio a Los Angeles. Sta passeggiando con una vecchia collega ormai in pensione, che la incoraggia a provare a coltivare qualcosa di suo. Eva non sa nulla di giardinaggio e di piante, ma tenta ugualmente di costruire un’aiuola e ben presto sistema il giardino dell’appartamento in cui vive. Impara il significato del verbo coltivare: curare il terreno, dedicarsi a far crescere qualcosa. Ed è proprio imparando a coltivare le piante che Eva impara a nutrire sé stessa. Pubblicato da NN Editore con la traduzione di Chiara Mancini, Chiedimelo ancora ci racconta le giovani domande di Eva mentre si affaccia nel complesso mondo adulto. Sestanovich assembla una storia costruita da punti interrogativi, dove ogni capitolo si apre con un quesito: Qual è il punto? Cosa vuol dire? È tutto qui? Posso chiederti una cosa? Quando la conosciamo, Eva sta per finire le scuole superiori e imbarcarsi per il college: quel momento in cui il potenziale sembra essere infinitesimale, migliaia di possibilità che potrebbero tradursi in realtà. Eva vaga da una possibilità all’altra, come saltando da un treno in corsa, e solo così riesce a comprendere la difficoltà di tradurre anche solo una strada potenziale in un sentiero solido da poter percorrere. Il primo, grande punto interrogativo di Chiedimelo ancora è conoscersi. Eva desidera diventare giornalista e lavorare nella redazione di un giornale, e ci riesce – segue piste per articoli che si rivelano essere vicoli ciechi, si impunta a perseguire storie che si rivelano nella loro banalità, viene assegnata a sezioni del giornale in cui non ha nulla da offrire. Eva si innamora di un ragazzo, Eli, che non riesce ad avere legami stabili e duraturi – si legano al college, si ritrovano a Washington, si dividono a Los Angeles. Tutti potenziali pezzi del puzzle che evaporano piano piano nel corso del romanzo, dopo aver contribuito a costruire le fondamenta della vita adulta di Eva. Il secondo, grande punto interrogativo del romanzo prende la forma di un ragazzo biondo. Jamie ed Eva si conoscono per caso nella sala d’attesa del pronto soccorso, mentre entrambi sono in attesa di una risposta sulla salute di qualcun altro. Da quel momento il loro legame li accompagnerà per tutto il romanzo, ma come due linee parallele le vite di Jamie ed Eva non si toccheranno mai veramente. Nel periodo iniziale di scoperta l’uno dell’altra il loro legame è molto forte, raggiugendo, forse troppo presto, l’apice: lo spazio che li separa è minimo, ma rimane sempre un’impossibilità nel raggiungersi. Jamie è sfuggente, schivo: volta le spalle ad una famiglia spezzata dalla sua stessa ricchezza, cercando in ogni luogo una povertà che lo purifichi. Tocca, quindi, ad Eva cercare di raggiungerlo nella sua mente – finché quelle due linee che scorrono parallele si allontaneranno sempre di più: “desiderava che lui tornasse indietro, o desiderava essere lei ad andare avanti?”. Jamie è il grande potenziale di Eva: una strada, una possibilità così vicina, eppure così lontana, che non è riuscita a tradursi in realtà. Tutti noi, a qualsiasi età, dobbiamo fare i conti e portarci appresso il potenziale, ciò che avrebbe potuto essere o che avrebbe potuto realizzarsi, ma che non è stato. Probabilmente crescere e andare avanti è imparare a convivere con tutte le possibilità che sono rimaste tali. Il percorso di guarigione di Eva inizia quel giorno nel vivaio, quando prende consapevolezza che coltivare il suo futuro equivale a nutrire sé stessa. Sestanovich ci regala un romanzo di formazione pieno di tenerezza sul potenziale che è nelle nostre vite, chiedendoci (ancora) di vederci attraverso.   L'articolo Clare Sestanovich / Il potenziale proviene da Pulp Magazine.