Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!)
1. C’è un cognome diffuso tra Germania e Inghilterra che pare avere un certo
legame con la scrittura. Se uno dice Roth, infatti, viene subito in mente
Philip, e a ruota anche Joseph. Ma ci sarebbe da citare anche il poeta
tedesco Eugen Roth, la drammaturga Friederike Roth, lo sceneggiatore
televisivo Martin Roth e quello cinematografico Eric Roth. Ultimo, ma non
in ordine di importanza, lo scrittore del quale ci occuperemo questa volta,
Henry Roth. Un autore il cui esordio fu particolarmente deludente, per
quanto – se non altro – gli venne risparmiata la riscoperta postuma; quando
finalmente il pubblico si accorse di lui era ancora in vita, anche se
prossimo ai sessant’anni.
2. Come altri scrittori ebrei americani, Henry Roth nacque nel vecchio mondo,
più precisamente a Tysemenitz, nel 1906. Non so se la cittadina fosse
ridente; doveva essere di sicuro più tranquilla di oggi, perché quando
venne al mondo lo scrittore era nell’Impero Austro-Ungarico, mentre ora si
trova in Ucraina. In ogni caso la famiglia Roth approdava a New York due
anni dopo la nascita di Henry, come tante che lasciavano l’Europa Orientale
vuoi per le persecuzioni che colpivano gli israeliti, vuoi per la miseria
che li affliggeva. Nel prologo dell’opera prima di Roth, il romanzo
Chiamalo sonno, la madre del protagonista, il piccolo David Schearl, dice
al marito che è venuto a prenderla a Ellis Island “E questa è la terra
dell’oro”. È un’immagine assai diffusa tra gli immigrati negli Stati Uniti
tra Otto e Novecento; l’America era la montagna dell’oro per i cinesi, e
aveva le strade d’oro per gli italiani (come attesta il titolo del bel
romanzo di Evan Hunter, alias Salvatore Lombino).
3. Non so se i Roth trovarono veramente l’oro a New York, dove risiedettero,
però una certa agiatezza sì, perché Henry poté frequentare l’università nei
primi anni Venti, e dedicarsi alla carriera letteraria, anche grazie
all’incontro con la poetessa e docente universitaria Eda Lou Walton (tipica
rappresentante dell’intellettualità americana dell’epoca, iscritta al
Partito Comunista e interessata alla cultura dei nativi). Roth andò a
vivere con Eda nel Greenwich Village, e fu col suo sostegno che scrisse tra
il 1930 e il 1934 la sua opera d’esordio, uscita per i tipi dell’editore
Robert O. Ballou. Riviste letterarie prestigiose come Commentary e Partisan
Review ne parlarono benissimo; venne lodato anche da Lewis Gannett, il
critico letterario del New York Herald Tribune; le vendite furono però
desolanti. Tale fu il flop che Roth venne colto dal blocco dello scrittore,
nonostante avesse firmato un contratto con Doubleday per il suo secondo
romanzo (che avrebbe dovuto essere curato nientemeno che da Maxwell
Perkins, il mitico editor di Hemingway, Fitzgerald e Wolfe). Henry mollò il
suo manoscritto, lasciò la Walton, e si mise con una pianista e
compositrice, Muriel Parker. La coppia lasciò New York per trasferirsi a
Boston, e questo trasloco segna l’abbandono della scena letteraria da parte
dello scrittore; nonostante gli estimatori di Chiamalo sonno continuassero
a chiedere che venisse ristampato, nessun editore li accontentò e su Henry
Roth calò il sipario.
4. Qual era il problema della sua opera prima? Basta pensare alla data di
pubblicazione: 1934, ben dentro la Grande Depressione. Franklin Delano
Roosevelt è stato eletto solo da un anno, e il suo New Deal è ancora ai
primi passi. Quanto potevano essere interessati i lettori americani alla
storia di una famiglia ebraica che tira a campare in uno dei quartieri
(allora) più poveri della Grande Mela, il Lower East Side, addirittura in
quell’area sfigatissima di Manhattan nota come Alphabet City? Non avevano
già abbastanza problemi? Non avevano già abbastanza miseria e insicurezza?
Inoltre l’ambiente in cui si muovono i personaggi di Roth, il piccolo David
Schearl, suo padre Albert, uomo violento, asociale ed esasperato, e la
madre Genya, che vive quasi segregata in casa e non spiccica una parola
d’inglese, comunicando con figlio e marito esclusivamente in yiddish, era
assolutamente ebraico, e negli Stati Uniti degli anni Trenta di pregiudizi
verso il popolo eletto non ne mancavano affatto – come anche verso gli
italiani, i polacchi, e tutti gli altri immigrati che avevano affollato
(secondo alcuni invaso) le grandi metropoli americane, trasformandone
radicalmente la società. Questa pluralità che è anche plurivocalità è ben
resa nel romanzo, ma sicuramente non era gradita da tutti i lettori.
5. A parte la questione etnica, Chiamalo sonno è a tutti gli effetti un
romanzo modernista. Usa lo stream of consciousness joyciano, anche se con
moderazione; riproduce fedelmente il parlato degli ebrei, degli italiani,
degli irlandesi, il loro inglese scorretto, pronunciato malamente,
infarcito di parole straniere; soprattutto è piuttosto esplicito in materia
di sesso. Non sarà un caso se quasi all’inizio venga usata una parola
yiddish che può indicare l’organo sessuale femminile (knish, capitolo 7) e
alla fine appaia quella genuinamente inglese (cunt, capitolo 21). Per
quanto David sia un bambino tutt’altro che smaliziato e ancora privo di
pulsioni erotiche, le ragazzine e i ragazzini con cui ha a che fare,
inclusa la cugina Esther e l’amico polacco Leo, sono già in piena tempesta
ormonale e si dànno la caccia in maniera quasi animalesca. Inoltre si
capisce ben presto che David non è figlio di quello che formalmente è suo
padre, ma di un precedente amante di sua madre Genya, per di più non ebreo
(addirittura un organista che suona in chiesa: anatema!). Tutte queste
caratteristiche, proprio quelle che oggi ci fanno apprezzare il romanzo,
all’epoca devono averne ostacolato la diffusione.
6. Insomma, Roth era arrivato troppo tardi per entrare nell’ondata modernista
con Joyce, Hemingway e Fitzgerald, e troppo presto per la riscoperta e
canonizzazione di quell’avanguardia, che sarebbe partita solamente negli
anni Cinquanta e sarebbe dilagata negli anni Sessanta. Gli anni Trenta
erano interessati a scritture accessibili e politicamente impegnate, come
Furore di Steinbeck o Fontamara di Silone (che ai tempi fu un bestseller
internazionale), o le prime opere di Orwell. Anche Hemingway aveva sterzato
in quella direzione, con Per chi suona la campana.
7. A rileggerlo oggi il mondo di Chiamalo sonno è facile da visualizzare,
nonostante tutto: è quella New York ebraica rievocata da Sergio Leone in
C’era una volta in America. La differenza è che i ragazzini di Roth non
diventano gangster come quelli nel film, né li vediamo crescere oltre una
certa età; il romanzo si chiude quando David ha ancora otto anni. Nel
complesso ci viene offerta la visione del mondo di un bambino che vive le
micro-tragedie infantili come fossero la fine del mondo (e a un certo punto
rischia di finire la sua esistenza sul serio); il protagonista sconta la
sua ingenuità, le sue paure, ma anche gli errori di una madre
iperprotettiva e troppo chiusa nello spazio domestico, e di un padre
amareggiato e manesco che sospetta la moglie di non averlo sposato per
amore, ma per risparmiare lo scandalo a sé e soprattutto a suo padre, uomo
bigotto e ipocrita. A David manca anche la ribalda e scanzonata furbizia da
strada dei suoi coetanei, che sanno navigare meglio di lui nello spazio
metropolitano e caotico di New York (specialmente il polacco Leo, che si
muove fulmineamente da una parte all’altra della città coi pattini,
antesignano degli skateboarder a venire). Roth riesce perfettamente a
filtrare il mondo degli adulti attraverso lo sguardo di un bambino, facendo
così emergere gradualmente il passato di Albert e Genya, fino alla scena
madre finale.
8. Il romanzo venne riscoperto negli Stati Uniti alla fine degli anni
Cinquanta. La situazione era cambiata; gli ebrei si erano fatti strada nel
giornalismo, negli affari, nel cinema, nella musica, nelle università,
nella scienza, nella cultura; s’erano inseriti nel mainstream. In
letteratura brillano le stelle di Saul Bellow, Bernard Malamud, Isaac
Bashevis Singer e Norman Mailer; a breve arriveranno l’altro Roth e Joseph
Heller. Un editor di una piccola casa editrice, Harold U. Ribalow, convinto
che Chiamalo sonno fosse il grande romanzo (ebraico) americano perduto,
decide di ripubblicarlo. Va a caccia di Henry Roth e lo ritrova in una
fattoria nel Maine. Scopre che in tutti gli anni trascorsi lo scrittore ha
fatto il boscaiolo, l’insegnante, ha lavorato in un ospedale psichiatrico,
ha allevato anatre, ha dato lezioni di latino e matematica, ha messo
insomma una pietra sopra la letteratura; comunque, Harold riesce a
convincere Henry ad autorizzare la ristampa del romanzo, che riesce in
rilegato nel 1960, e poi quattro anni dopo in economica, e a quel punto è
il trionfo: un milione di copie vendute. Finalmente il romanzo sbarca in
Italia, tradotto peraltro da Mario Materassi, specialista di letteratura
ebraica statunitense, e amico di Roth – non a caso la sua versione, uscita
per Lerici nel 1964, è ancora in circolazione per Garzanti.
9. All’inizio Henry non era affatto entusiasta dell’idea di far riuscire il
Chiamalo sonno; però quando scopre di avere finalmente un suo pubblico, e
anche numeroso, riesce pian piano a vincere il blocco psicologico che lo
aveva azzittito, e inizia a lavorare a un’opera ben più ambiziosa, un
romanzo fiume in quattro volumi intitolato Mercy of a Rude Stream, tradotto
in Italia come Alla mercé di una brutale corrente. Il primo e il secondo
volume uscirono nel 1994 e 1995, quando Roth era ancora in vita; gli altri
due postumi, nel 1996 e 1998. La differenza tra l’opera prima e la ben più
vasta opera finale viene spiegata così da Materassi: “Chiamalo sonno può
essere letto come il veicolo attraverso il quale il giovane Roth, avendo
appena rotto con la sua famiglia e la sua tradizione, usò alcuni frammenti
della propria infanzia per puntellare le rovine di quella che già sentiva
come un’identità dalla quale era sconnesso. Quarantacinque anni dopo, Roth
s’imbarca in un altro tentativo di portare retrospettivamente ordine nella
confusione della sua vita: Alla mercé di una corrente brutale, che lui ha a
lungo chiamato un ‘continuum’, può esser letto come un monumentale sforzo
finale da parte dell’autore anziano di fare i conti con le ricorrenti
rotture e discontinuità che hanno segnato la sua vita”. In entrambi i casi
è innegabile la forte componente autobiografica, il che ci induce a
sospettare che il secondo romanzo incompiuto potesse ben essere una sorta
di sequel di Chiamalo sonno.
10. Uno degli aspetti più interessanti di quest’ultimo, ma che è pressoché
impossibile rendere in traduzione, è quella che ho chiamato plurivocalità;
una pluralità di voci al limite del plurilinguismo. Roth aveva infatti un
problema: i membri della famiglia Schearl parlano tra di loro in yiddish,
ma i potenziali lettori del romanzo per lo più ignorano quella lingua. La
soluzione adottata dall’autore è di tradurre i dialoghi in yiddish in un
inglese corretto, a tratti letterario; mentre David e gli altri immigrati
ebrei, quando si esprimono in inglese, lo fanno come s’è detto nel
linguaggio da strada che usavano realmente nella vita quotidiana. Anche i
personaggi di altra origine etnica (per esempio gli irlandesi) si esprimono
nel loro inglese, con la loro pronuncia caratteristica, con le loro tipiche
forme colloquiali. È una strategia che a ben vedere rientra in una
tradizione tipicamente americana, lo sforzo, da Mark Twain in poi, di
mettere sulla pagina la lingua del popolo, le particolari varietà
dell’inglese parlate negli Stati Uniti (lo fa anche Faulkner quando deve
far parlare i suoi personaggi di colore, e diventerà una pratica comune dei
successivi scrittori che si fanno portavoce delle proprie etnie, dagli
ispanici agli afroamericani).
11. In Chiamalo sonno non ci sono veri villain, in ultima analisi non lo è
neanche Albert, il padre (assai probabilmente putativo) di David – man mano
che emerge il suo passato, la storia di un uomo oppresso da un
padre-padrone e tormentato dai dubbi sul proprio matrimonio, la sua figura
si fa meno inumana; verso l’epilogo Albert riesce finalmente a manifestare
una qualche forma di affettività nei confronti del figlio. Ma ci sono
personaggi per i quali Roth manifesta ben poca simpatia: il padre pigro e
bacchettone di Genya, che si fa servire e riverire dalle donne della
famiglia, e soprattutto il rabbino Yidel, quello cui viene demandata
l’istruzione religiosa di David, che per un ebreo è anche un corso di
lingua. Il tema del plurilinguismo ritorna puntuale: seguiamo le lezioni di
reb Yindel che insegna ai ragazzi di vita ebrei a leggere il testo sacro,
riprodotto foneticamente da Roth in caratteri latini; ma al rabbino poco
interessa far capire ai suoi alunni cosa David invece è rimasto come
folgorato dal testo di Isaia 6: “io vidi il Signore seduto su un trono alto
ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui
stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia,
con due si copriva i piedi e con due volava”. Roth mi sembra voler
contrastare l’insegnamento meccanico e scolastico in senso deteriore
impartito da Yindel all’entusiasmo ingenuo e fantasioso del bambino, nel
quale, proprio per questo momento di illuminazione poetica, si scorgono i
segni del futuro talento creativo – perché David è scopertamente un alter
ego dello scrittore.
L'articolo Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!)
proviene da Pulp Magazine.